I familiari delle vittime degli attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 dovranno essere risarciti: la Cassazione riconosce la pronuncia di condanna americana e ribadisce la compatibilità dei danni puntivi con il nostro ordinamento

I ricorrenti, familiari ed eredi di vittime dell’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2011, avevano chiesto alla Corte d’Appello di Roma il riconoscimento esecutivo in Italia, ai sensi degli artt. 64[1] e 67[2] della l. n. 218/1995 (‘Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato’), della pronuncia di condanna al risarcimento dei danni emessa dalla Corte federale distrettuale di New York in pregiudizio della Repubblica Islamica dell’Iran, della Banca centrale iraniana e degli altri soggetti coinvolti negli attentati.

La Corte aveva respinto la domanda, sostenendo, nella sostanza, l’incompatibilità del  Foreign sovereign immunities act (Fsia) statunitense con i principi dell’ordinamento italiano. In particolare, infatti, la Corte d’Appello aveva negato il riconoscimento della sentenza straniera perché (a) la stessa sentenza avrebbe deciso in base ad una legge di accesso alla giurisdizione americana (il Fsia) non conforme ai principi sulla competenza giurisdizionale dell’ordinamento italiano e (b) le disposizioni della pronuncia della Corte federale statunitense, di conseguenza, sarebbero state produttive di effetti contrari all’ordine pubblico.

La Cassazione non ha condiviso tale interpretazione (ordinanza n. 39391 del 10 dicembre 2021).

La Suprema Corte ha reputato parziale la ricostruzione operata dal giudice d’appello perché avrebbe omesso di considerare che la normativa americana, appunto, la Fsia, o Legge sulle immunità sovrane estere, è una legge di radicamento della giurisdizione per il caso di danni dovuti a morte o lesioni a seguito di atti di terrorismo.

Secondo la Cassazione, il Fsia non porrebbe alcuna accezione al principio secondo il quale l’immunità della giurisdizione civile degli stati esteri per atti iure imperii costituisce una prerogativa e non un diritto, prerogativa riconosciuta da norme consuetudinarie internazionali la cui operatività è preclusa “ove si discuta di delicta imperii, cioè crimini compiuti in violazione di norme internazionali cogenti e lesivi di valori universali che trascendono gli interessi delle singole comunità statali”.

Inoltre, il riferimento al Fsia, operato dalla Corte d’Appello, secondo la Suprema Corte, non sarebbe congruente ai fini del giudizio di delibazione. L’art. 64 sopra richiamato, alla lett. a (cfr. nota 1), non richiede che sia vagliato il ‘come’ la sentenza straniera sia giunta ad affermare esistente la giurisdizione sulla domanda in quella sede proposta, bensì, come condizione di riconoscimento, richiede semplicemente di stabilire ‘se’ il giudice che ha pronunciato la sentenza straniera poteva conoscere della causa, secondo i principi sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento italiano.

È di particolare interesse il passaggio dell’ordinanza nella quale la Corte ha rammentato che la norma consuetudinaria di diritto internazionale che impone agli stati l’obbligo di astenersi dall’esercitare il potere giurisdizionale per gli atti iure imperii non ha carattere incondizionato, ma incontra un limite nel riconoscimento del primato assoluto dei valori fondamenti di libertà e dignità della persona umana. Ne consegue che tale norma non può essere invocata in presenza di comportamenti ascritti allo stato straniero di tale gravità da configurarsi quali crimini poiché “lesivi dei valori universali di rispetto della dignità umana che trascendono gli interessi delle singole comunità statali”.

In effetti, la giurisprudenza della stessa Suprema Corte ha più volte evidenziato che il rispetto dei diritti inviolabili della persona ha assunto, anche nell’ordinamento internazionale, il valore di principio fondamentale, riducendo la portata di altri principi, compreso quello del rispetto delle reciproche sovranità.

Rileva, poi, la possibilità di riconoscere il danno punitivo.

A questo riguardo, la Suprema Corte ha ricordato che le Sezioni Unite, con specifico riferimento al limite di compatibilità del danno con i principi di ordine pubblico internazionale involti dagli effetti dell’atto, hanno chiarito che, nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, “poiché sono interne al sistema anche la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile”, con la conseguenza che “non è ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l'istituto, di origine statunitense, dei risarcimenti punitivi”.

Tuttavia, il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell'ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa e i suoi limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell’atto straniero e alla loro compatibilità con l’ordine pubblico (cfr. S. U. n. 16601/17).

Via libera, dunque, al riconoscimento esecutivo in Italia della pronuncia di condanna al risarcimento danni emessa dalla Corte di New York a seguito di un attentato “il cui livello di risonanza mondiale” – si legge nell’ordinanza della Suprema Corte – “si impone a ogni soggetto e a ogni contesto”.


[1]1. La sentenza straniera è riconosciuta in Italia senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento quando:

a) il giudice che l'ha pronunciata poteva conoscere della causa secondo i princìpi sulla competenza giurisdizionale propri dell'ordinamento italiano;

b) l'atto introduttivo del giudizio è stato portato a conoscenza del convenuto in conformità a quanto previsto dalla legge del luogo dove si è svolto il processo e non sono stati violati i diritti essenziali della difesa;

c) le parti si sono costituite in giudizio secondo la legge del luogo dove si è svolto il processo o la contumacia è stata dichiarata in conformità a tale legge;

d) essa è passata in giudicato secondo la legge del luogo in cui è stata pronunziata;

e) essa non è contraria ad altra sentenza pronunziata da un giudice italiano passata in giudicato;

f) non pende un processo davanti a un giudice italiano per il medesimo oggetto e fra le stesse parti, che abbia avuto inizio prima del processo straniero;

g) le sue disposizioni non producono effetti contrari all'ordine pubblico”.

[2]1. In caso di mancata ottemperanza o di contestazione del riconoscimento della sentenza straniera o del provvedimento straniero di volontaria giurisdizione, ovvero quando sia necessario procedere ad esecuzione forzata, chiunque vi abbia interesse può chiedere all'autorità giudiziaria ordinaria l'accertamento dei requisiti del riconoscimento (1).

1-bis. Le controversie di cui al comma 1 sono disciplinate dall'articolo 30 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (2).

2. La sentenza straniera o il provvedimento straniero di volontaria giurisdizione, unitamente al provvedimento che accoglie la domanda di cui al comma 1, costituiscono titolo per l'attuazione e per l'esecuzione forzata.

3. Se la contestazione ha luogo nel corso di un processo, il giudice adito pronuncia con efficacia limitata al giudizio”.

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Maria Santina Panarella
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