L’art. 2087 c.c. ricopre un ruolo centrale nel sistema della tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore. Si ritiene, infatti, che, in virtù dell’elasticità del suo contenuto, sia una norma in grado di riempire i vuoti o di sanare le fratture presenti, in materia, nel nostro ordinamento.
In virtù di tale disposizione, il datore di lavoro è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Se l’inosservanza dell’obbligo di sicurezza è stata causa di danno, il lavoratore potrà intraprendere un’azione risarcitoria contrattuale, dimostrando, oltre all’esistenza del danno, il nesso di causalità tra le mansioni espletate e la nocività dell’ambiente di lavoro. Spetterà poi al datore di lavoro provare di avere adottato tutte le misure esigibili in concreto e necessarie ad evitare il danno.
Si tratta di principi ormai consolidati nella giurisprudenza di legittimità.
Tra le molte altre pronunce, si richiama la recentissima Cass. sent. 3 marzo 2022, n. 7058. Il caso affrontato dalla Corte originava dalla domanda del lavoratore volta all’accertamento della responsabilità della Società datrice nella determinazione di danni, patrimoniali e non patrimoniali, causati dall’essere stato addetto all’esecuzione di mansioni usuranti, senza che il datore avesse fornito idonea tutela per i rischi e impartito la formazione specifica a prevenirli.
Il Giudice di primo grado aveva accolto la domanda, condannando la Società a risarcire il danno (differenziale). La Corte d’Appello, invece, in riforma della sentenza del Tribunale, aveva rigettato la domanda. La Corte territoriale aveva affermato, in particolare, che fosse onere del lavoratore dimostrare la sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione delle misure di sicurezza suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica necessaria ad evitare il danno, e, tale onere, nel caso di specie, non era stato assolto.
Orbene, tale passaggio argomentativo - finendo con il porre a carico del lavoratore la dimostrazione della violazione da parte del datore di lavoro di specifiche misure antinfortunistiche - è stato reputato dalla Corte di Cassazione “frutto di un errore” in quanto contrario ai principi in tema di distribuzione dell’onere della prova.
Si rammenta che, come ha precisato la Suprema Corte anche nella pronuncia richiamata, la responsabilità ex art. 2087 c.c. non configura comunque un’ipotesi di responsabilità oggettiva, bensì colposa. In questa prospettiva, occorre valutare il difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire danni per i lavoratori, in relazione all’attività lavorativa, non potendosi esigere la predisposizione di misure idonee a fronteggiare ogni causa di infortunio, anche quelle imprevedibili (in questo senso, tra le più recenti, Cass. 1° dicembre 2021, n. 37738).
In altre parole, la responsabilità del datore di lavoro – come detto, di natura contrattuale - va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.
In sintesi, dunque, come si è anticipato, incombe sul lavoratore l’onere di provare, oltre all’esistenza del danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra. Solo se il lavoratore ha fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (tra le molte altre, si richiamano Cass. n. 15112 del 2020, Cass. n. 26495 del 2018, Cass. n. 12808 del 2018, Cass. n. 14865/2017, Cass. n. 2038 del 2013, Cass. 12467 del 2003).
In ordine all’obbligo di tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore si segnala Infortunio sul lavoro: quando la condotta incauta del lavoratore determina la riduzione del risarcimento?