I congiunti di un marinaio, deceduto dopo essersi imbarcato su una nave, hanno convenuto in giudizio il Ministero della Salute al fine di ottenere il risarcimento del danno derivante dalla morte del loro familiare. Secondo gli attori, la causa del decesso andava ricercata nella condotta del medico che, in occasione delle visite biennali presso il servizio di assistenza sanitaria ai naviganti, aveva attestato la sua idoneità fisica all’imbarco.
Il Tribunale, ritenendo sussistente il nesso di causalità tra il comportamento omissivo imputabile al sanitario ed il decesso del marinaio, aveva condannato il Ministero al risarcimento dei danni in favore degli attori. In particolare, il giudice aveva ritenuto che, date le particolari caratteristiche del lavoro in ambiente marittimo, sarebbe stata opportuna la prescrizione di un esame elettrocardiogramma, dal quale sarebbe emersa l’ipertrofia ventricolare di cui il marinaio era affetto e che avrebbe, conseguentemente, condotto ad una diagnosi di incompatibilità con il lavoro marittimo.
Pertanto, secondo il Tribunale, nel caso in cui il medico avesse tenuto un diligente comportamento professionale, probabilmente si sarebbe evitata la morte della vittima.
La Corte d’Appello, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva accolto l’impugnazione del Ministero, escludendo che l’omissione della condotta, ipotizzata come doverosa, da parte del medico avesse inciso nella causazione del danno.
Per la diagnosi della patologia poi emersa, secondo la Corte, sarebbero stati necessari altri e specifici esami, la cui esecuzione non era giustificata in assenza di chiari sintomi clinici indicativi di una patologia cardiaca. Pertanto, la Corte aveva escluso che la condotta omessa da parte del medico avrebbe potuto evitare il decesso, in quanto conseguente ad un evento non prevedibile e non evitabile.
I coniugi del marinaio hanno allora proposto ricorso per cassazione, lamentando, sotto diversi profili, sia l’erroneità dei criteri di accertamento del nesso di causalità tra la condotta omissiva del medico sanitario ed il decesso del paziente, sia il mancato accertamento dei profili colposi della condotta omissiva del sanitario.
Secondo la Cassazione, la Corte territoriale non ha correttamente applicato i principi relativi all’accertamento del nesso di causalità tra la condotta omissiva del medico ed il decesso.
Questo è quanto si legge nella sentenza n. Cass. n. 7355 del 7 marzo 2022 che ha fornito alla Suprema Corte l’occasione per fare il punto sui criteri di accertamento del nesso di causalità tra la condotta omissiva del medico sanitario e il decesso del paziente.
In questa prospettiva, la Corte ha precisato che il nesso causale, in sede civile, è regolato, sul piano strutturale, dai principi della regolarità causale - integrati, se del caso, da quelli dell’aumento del rischio e dello scopo della norma violata - ferma restando, sul piano funzionale, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi al processo penale ove vige la regola dell'alto grado di probabilità logica e di credibilità razionale.
Sul piano funzionale, la verifica del nesso causale tra condotta omissiva e fatto dannoso si sostanzia nell’accertamento della probabilità, positiva o negativa, del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa, da compiersi mediante un giudizio controfattuale che pone al posto dell’omissione il comportamento dovuto. Tale giudizio si conforma ad uno standard di certezza probabilistica che, in materia civile (come in quella penale), non può essere ancorato alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (cd. probabilità quantitativa o pascaliana), la quale potrebbe anche mancare o essere inconferente; piuttosto – secondo la Corte – lo stesso va verificato riconducendone il grado di fondatezza del factum probandum nell’ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili e alternativi) disponibili nel caso concreto, sulla base della combinazione logica degli elementi fattuali disponibili in seno al processo (la cd. probabilità logica o baconiana cfr. Cass. SU nn 576 e 577/2008; Cass. n. 23197/2018).
Il primo criterio funzionale (che può essere correttamente definito come quello della prevalenza relativa) implica che, rispetto ad ogni enunciato, venga considerata l’eventualità che esso possa essere vero o falso, e che l’ipotesi positiva venga scelta come alternativa razionale quando è logicamente più probabile di altre ipotesi, in particolare di quella/e contraria/e, senza che la relativa valutazione risulti in alcun modo legata ad una concezione meramente statistico/quantitativa della probabilità, per essere viceversa scartata quando le prove disponibili le attribuiscono un grado di conferma ‘debole’ (tale, cioè, da farla ritenere scarsamente credibile rispetto alle altre).
Il secondo criterio (più probabile che non) comporta che il giudice, in assenza di altri fatti positivi, scelga l’ipotesi fattuale che riceve un grado di conferma maggiormente probabile rispetto all'ipotesi negativa: in altri termini, il giudice deve scegliere l’ipotesi fattuale che abbia ricevuto una conferma probatoria positiva, ritenendo ‘vero’ l’enunciato che ha ricevuto un grado di maggior conferma relativa dell’esistenza del nesso, sulla base delle prove disponibili, rispetto all’ipotesi negativa che tale nesso non sussista.
Si evince, dunque, che, in entrambi i casi, il termine ‘probabilità’ non viene riferito al concetto di frequenza statistica, bensì al grado di conferma logica che la relazione tra facta probata ha ricevuto in seno al processo. La probabilità logica consente, pertanto, di accertare ragionevoli verità relative sulla base degli indizi allegati. Ne consegue che, permanendo l’incertezza, ed in assenza di una conferma positiva dell’esistenza del fatto da provare, il giudice dovrà necessariamente far ricorso alla disciplina legale dell’onere probatorio, rigettando la domanda.
Nel caso affrontato, la Corte territoriale non avrebbe fatto un uso corretto di tali principi, avendo errato, in particolare, nell’affermare la non prevedibilità della causa del decesso. Secondo la Suprema Corte, il giudizio controfattuale sopra citato, nel caso di specie, non poteva limitarsi all’accertamento se i normali controlli di routine avrebbero evitate il decesso, ma, spingendosi oltre nella ricostruzione della catena causale nella fattispecie concreta, avrebbe dovuto estendersi all’indagine circa la probabilità che gli ulteriori esami, precisati dal consulente tecnico, avrebbero evidenziato o meno le controindicazioni all’imbarco del soggetto poi deceduto.
Il ricorso dei familiari è stato così accolto, con conseguente cassazione della sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello che, in altra composizione, dovrà applicare i principi sopra richiamati.