L’azione di ingiustificato arricchimento può essere proposta in presenza di sentenza che dichiara l'inesistenza del contratto, ricorrendo in tal caso il requisito della sussidiarietà. Questo il principio affermato da Cass., 15 maggio 2023, n. 13203.
La vicenda processuale trae origine da una domanda di arricchimento ingiustificato proposta in un giudizio successivo, rispetto a quello in cui la stessa era stata dichiarata inammissibile in rito (in ragione della tardività della formulazione della domanda in quella sede), con la quale l’affittuario di un’azienda, sulla base di un contratto che non conteneva alcuna clausola disciplinatrice dell’eventuale rimborso delle spese in relazione a migliorie apportate sul bene affittato, aveva chiesto un indennizzo a fronte delle spese da lui sopportate appunto per miglioramenti del bene.
La pronuncia in commento si inserisce nella riflessione, quanto mai attuale in dottrina e giurisprudenza, sulla portata del requisito della sussidiarietà dell’azione di arricchimento ingiustificato.
Il discorso relativo alla ratio della sussidiarietà dell’azione di ingiustificato non risulta ancora approdato ad un risultato definitivo, come emerge dalla recente ordinanza interlocutoria n. 5222 del 20 febbraio 2023 di rimessione all’esame delle Sezioni Unite della questione relativa alla «interpretazione della regola della sussidiarietà prescritta, in tema di ingiustificato arricchimento, dall' art. 2042 c.c., con particolare riguardo alla correttezza dell'orientamento giurisprudenziale che individua tale presupposto dell'azione ex art. 2041 c.c. nella mancanza di un'azione tipica - intesa come assenza di un'azione derivante da un contratto o prevista dalla legge con riferimento ad una fattispecie determinata, non già come carenza di un'iniziativa processuale anche solo ipoteticamente esperibile - e che, di conseguenza, ritiene ammissibile la domanda di ingiustificato arricchimento anche quando l'azione teoricamente spettante all'impoverito è prevista da clausole generali».
Riecheggia, dunque, la contrapposizione dei casi in cui “la parte possa esercitare, contro l’arricchito o contro altre persone, un’azione tipica, che trovi titolo in un contratto o nella legge” a quelli in cui colui, il quale abbia, poi, proposto una domanda di arricchimento ingiustificato, poteva agire in relazione ad una clausola generale, come in particolare quella di buona fede.
Secondo un orientamento, inaugurato da Cass. 22 marzo 2012 n. 4620, infatti, «l’azione tipica che preclude al danneggiato di agire per ottenere l’indennizzo conseguente all'ingiustificato arricchimento sia da individuarsi unicamente nell’azione contrattuale ovvero in ogni altra azione specificatamente riconosciuta dalla legge in relazione ad una determinata situazione» (nello stesso senso, Cass. 22 novembre 2017 n. 27827).
Come rilevato, in questa prospettiva, da Cass. 17 gennaio 2020 n. 843, «la residualità dell’azione generale di arricchimento senza causa, e pertanto il divieto di relativa esperibilità in presenza di azione tipica, trova in realtà propriamente ragione nell’esigenza di evitarsi duplicazioni risarcitorie in favore del soggetto impoverito il quale abbia già ottenuto ristoro mediante altro rimedio»; ne discenderebbe il corollario che ben può allora riconoscersi al danneggiato la possibilità di scegliere tra azione generale di arricchimento e altri rimedi, in termini di alternatività o di complementarietà
L’ordinanza interlocutoria n. 5222/23 sembra ridimensionare in maniera significativa le aperture verso l’attribuzione di uno spazio più ampio di operatività all’azione di arricchimento ingiustificato emerse dall’indirizzo da ultimo riassunto. La Terza Sezione osserva innanzi tutto, che «forse impropriamente si fa riferimento alla disponibilità di un’azione tipica, quale fattore preclusivo di quella di arricchimento, sia in quanto le azioni (quali poteri processuali) non sono tipiche, sia perché, a ben vedere, non si deve confondere l’asserita tipicità dell’azione con la tipicità della fattispecie»: cosicché, argomenta l’ordinanza, quando ci si riferisce all’azione di responsabilità aquiliana o precontrattuale come atipica, si ha probabilmente riguardo più alla atipicità della fattispecie che all’atipicità dell’azione. Volgendosi, poi, ad esaminare la ratio della residualità, essa, secondo l’ordinanza, non consisterebbe nel divieto di cumulo, e cioè «nella esigenza di impedire che, ottenuto il risarcimento con l’azione principale, se ne ottenga un altro con quella di arricchimento», essendo questa un’ipotesi impedita già dalle regole sul giudicato e comunque dal principio secondo il quale da un fatto illecito può discendere solo un risarcimento pari al danno e non superiore ad esso. La ratio della residualità dovrebbe essere ravvisata invece nell’esigenza di evitare che «chi ha perso l’azione principale, e dunque non ha ottenuto risarcimento, possa aggirare questo esito ricorrendo all’azione di arricchimento ingiustificato» ed una giustificazione del genere della regola di residualità non consentirebbe di riferirla solo alle azioni derivanti da contratto o da legge, posto che l’esigenza di evitare aggiramenti si porrebbe anche nel caso in cui sia stata rigettata una domanda basata su una clausola generale.
In questo contesto si inserisce la sentenza in commento che individua la giustificazione della «natura sussidiaria dell'azione in esame (è stata) riposta (in via alternativa, ma talvolta anche congiuntamente): a) nell'esigenza di evitare che, attraverso il cumulo delle azioni, possano aversi duplicazioni di tutela; b) nella necessità di evitare che l'avente diritto, mediante l'esercizio dell'azione di ingiustificato arricchimento, possa sottrarsi alle conseguenze del rigetto della diversa azione contrattuale che l'ordinamento gli concede a tutela del diritto; c) nella esigenza di evitare che colui che ha fondato il suo diritto su un contratto, che è risultato nullo (per contrarietà a norme imperative o di ordine pubblico), possa comunque coltivare la sua pretesa sia pure attraverso altro titolo». Ed è proprio vagliando la situazione controversa attraverso il prisma delle diverse, possibili spiegazioni del requisito della sussidiarietà, che la sentenza in esame perviene ad individuare l’ambito entro il quale può essere ammissibilmente esperita l’azione di arricchimento ingiustificato nei casi in cui «l’azione contrattuale è stata rigettata per inesistenza del titolo». Infatti, «sarebbe contraddittorio sostenere che la proposizione di una azione, che presuppone la non esistenza di un contratto, possa essere impedita da una pronuncia che abbia per l'appunto dichiarato la non esistenza di un contratto». Tanto più che «se al rigetto del rimedio contrattuale, determinato dall’inesistenza del titolo, potesse conseguire l’improponibilità del rimedio sussidiario, costituito dall’azione di arricchimento, l’avente diritto sarebbe privato di qualsiasi strumento processuale per ottenere il rimborso del pregiudizio subito».
Muovendo da questa premessa, la pronuncia in commento decide la controversia sulla base del seguente principio di diritto: «La sentenza, che abbia dichiarato l’inesistenza del contratto, se in negativo esclude che l'avente diritto possa nuovamente esercitare l’azione contrattuale, in positivo accerta la sussistenza del presupposto della sussidiarietà (cioè dell’indisponibilità di un rimedio alternativo a quello contrattuale), che deve ricorrere per l’esperibilità dell'azione di ingiustificato arricchimento: in tal caso, l’azione ex art. 2041 è proponibile proprio in quanto il danneggiato, non esistendo il contratto, ha a disposizione soltanto detta azione per far valere il suo diritto all’indennizzo per il pregiudizio subito» (nello stesso senso, Cass. ord. 13 giugno 2018 n. 15496 e Cass. ord. 25 maggio 2011 n. 11489).
Né, precisa la sentenza, la decisione adottata si risolve in un contrasto con i principi accreditati da altre pronunce, nelle quali era stata negata l’ammissibilità dell’azione di arricchimento, dopo il rigetto della domanda contrattuale per nullità del relativo titolo, perché, in quei casi, «veniva in rilievo l’esigenza di evitare la frode alla legge e comunque l'aggiramento di norme indisponibili, poste a tutela di interessi generali, mentre nel caso di specie, nel quale l’azione contrattuale è stata rigettata (non per nullità, ma) per inesistenza del titolo contrattuale, per come sopra rilevato, detta esigenza non ricorre neppure astrattamente: nel caso di specie, l'azione ex art. 2041, ben lungi dal configurarsi come strumento per aggirare l’operatività di norme imperative, si configura anzi come unico strumento, a disposizione dell'odierno ricorrente, per eliminare il pregiudizio, che asserisce di aver subito» (in questa prospettiva, Cass. ord. 7 luglio 2020 n. 14120 e Cass. 28 marzo 2019 n. 8683).
Non è naturalmente possibile prevedere se la attesa decisione delle Sezioni Unite si limiterà a confrontarsi con la questione specificamente sottopostale dall’ordinanza interlocutoria oppure se la Cassazione coglierà l’occasione per una messa a punto, in prospettiva più ampia e comprensiva, dell’azione di arricchimento ingiustificato e del suo statuto applicativo. In questa prospettiva, la sentenza in commento offre senz’altro un contributo utile.