Versamento in eccesso delle ritenute fiscali da parte del datore di lavoro: da quando decorre il termine di prescrizione?

Il quesito ha ricevuto una chiara risposta della Cassazione. Con l’ordinanza n. 16889, pubblicata il 19 giugno 2024, la Suprema Corte, orientata da principi dalla stessa elaborati in precedenti pronunce, ha deciso tale questione mediante una articolata motivazione

La vicenda in fatto

Con ricorso ex art. 702 bis c.p.c., una società era stato convenuta in giudizio da una ex dipendente che aveva riferito di vantare un diritto di credito in virtù di una sentenza della Corte di Cassazione con la quale era stato riconosciuto, a favore della stessa società, il diritto alla restituzione di ritenute indebitamente operate e versate sulle quote del fondo di previdenza gestito dallo stesso istituto, liquidate nel 1999 al proprio personale.

La società si era costituita in giudizio, eccependo, tra le altre cose, la prescrizione del diritto asseritamente vantato, sostenendo che il dies a quo non potesse essere individuato nel giudicato tributario, bensì nel momento in cui si era verificata l’erronea trattenuta e, dunque, nel 1999.

La Corte d’Appello, in riforma della decisione di primo grado che aveva dichiarato prescritto il diritto azionato, aveva accolto la domanda della originaria ricorrente. La società aveva così impugnato la sentenza di appello sottoponendo alla Suprema Corte anche la questione relativa alla decorrenza del termine di prescrizione dell’azione.

Il quadro giurisprudenziale di riferimento

La Corte ha dapprima rammentato di essersi già espressa in relazione all’ipotesi di versamento in eccesso, da parte del datore di lavoro, delle ritenute fiscali, sia pure in relazione alla differente ipotesi di trattenute operate sulla retribuzione dovuta al lavoratore. A questo riguardo, la Cassazione ha ribadito che:

- il datore di lavoro, in qualità di sostituto di imposta, svolge sostanzialmente funzioni di esattore dell'amministrazione finanziaria versando direttamente a quest’ultima gli acconti d'imposta per conto del contribuente sostituito, nel caso di specie del lavoratore subordinato; provvede, cioè - sia pure in adempimento di un preciso obbligo di legge (e non in esecuzione di un mandato negoziale o come gestione di affari altrui) - ad adempiere ad un'obbligazione altrui, quella, appunto, del sostituito nei confronti dell'amministrazione finanziaria;

- l'obbligato principale nei confronti del Fisco è, dunque, sempre il percettore del reddito, indipendentemente dal fatto che l'esazione del tributo avvenga (in tutto o in parte) mediante il sistema della ritenuta alla fonte;

- tuttavia, benché il soggetto passivo dell’obbligazione tributaria sia il sostituito, l’adempimento della stessa grava sul sostituto, perché così stabilisce l'art. 64, comma 2, D.P.R. nr. 600 del 1973 (Cass., sez. un., n. 10378 del 2019). Resta fermo, però, che l’obbligazione è soddisfatta con il denaro del sostituito. Pertanto, in caso di successivo accertamento di insussistenza del debito fiscale, vi è l'obbligo del datore di lavoro di restituire al lavoratore “la quota di retribuzione trattenuta e non versata (o non più versata) al Fisco, in modo analogo a quanto accade in relazione alle somme trattenute sulla retribuzione, a titolo di contribuzione previdenziale, per le quali sia successivamente accertata l'inesistenza del debito contributivo” (Cass. 14502/2019).

Questo orientamento (confermato anche da Cass. n. 31035 e n. 31699 del 2019 nonché, più di recente, tra le tante, da Cass. n. 34723 del 2021, Cass. nn. 30828 e 30829 del 2022) – ha precisato la Corte - si pone in linea con gli arresti più risalenti delle Sezioni Unite che, in ordine alla giurisdizione (Cass., sez. un., n. 8312 del 2010), già avevano statuito che le controversie tra sostituto di imposta e sostituito, in ordine al corretto esercizio del diritto di rivalsa delle ritenute alla fonte versate dal sostituto, rientravano nella giurisdizione del giudice ordinario, in quanto relative al diritto del sostituito verso il sostituto nell'ambito di un rapporto di tipo privatistico, cui resta estraneo l'esercizio della potestà impositiva propria del rapporto tributario.

La questione sottoposta alla Corte

I principi ora richiamati sono stati espressamente utilizzati dalla Corte anche per la soluzione delle questioni controverse nel caso deciso con la pronuncia in esame. In particolare, la Cassazione ha reputato non corrette le conclusioni della Corte d’appello in punto di qualificazione giuridica dei fatti di causa e, di conseguenza, della individuazione del dies a quo dell’azione esercitata.

Nel caso di specie, le somme di cui la lavoratrice aveva chiesto la restituzione – ha precisato la Corte – riguardavano le ritenute d’acconto operate al momento di liquidazione forzosa del Fondo previdenziale integrativo della Società. Vi era stato, cioè, un pagamento in eccesso all’Erario, a titolo di tassazione, della capitalizzazione del trattamento pensionistico integrativo, originato dalla non corretta applicazione di aliquote fiscali. Questa circostanza, secondo la Corte, non muterebbe comunque la natura del rapporto tra la lavoratrice e il datore di lavoro, quanto al profilo dell’obbligazione fiscale e delle responsabilità che ne conseguono.

Anche in questo caso, come in quello della retribuzione versata in misura ridotta per effetto di trattenute non dovute, verrebbe in rilievo un’azione di inesatto adempimento del debito sia pure in relazione al trattamento pensionistico integrativo aziendale che era stato decurtato di una somma maggiore di quella dovuta.

In sede di qualificazione del fondo, la Società aveva effettuato un pagamento solo parzialmente satisfattivo della pretesa creditoria, “producendo così un danno nella sfera patrimoniale della lavoratrice ed è questo il momento in cui è iniziato a decorrere il termine ordinario di prescrizione per l’azione volta a recuperare le somme indebitamente trattenute”.

E l’impossibilità di agire?

La Cassazione ha escluso la possibilità di invocare il principio racchiuso nell’art. 2935 c.c.,evidenziando che l’impossibilità di agire, alla quale la legge attribuisce rilevanza quale causa che osta al decorso del termine di prescrizione, “è solo quella che deriva da impedimenti legali e non abbraccia l'ignoranza in cui versi il titolare del diritto in ordine al fatto generatore del suo diritto, né il dubbio soggettivo sull'esistenza di tale diritto o il ritardo indotto dalla necessità del suo accertamento”. Su tali premesse, è stato reputato irrilevante, ai fini dello spostamento del termine di decorrenza della prescrizione, il procedimento tributario di accertamento dell’erronea applicazione delle aliquote fiscali in sede di ripartizione del Fondo, trattandosi di evento non impeditivo dell’azione.

La conclusione

In conclusione, la Corte ha affermato che l’azione di restituzione delle somme indebitamente trattenute a titolo di ritenute d'acconto, in sede di capitalizzazione del fondo previdenziale integrativo, “si prescrive con il decorso dell’ordinario termine decennale, che decorre dal momento di ripartizione delle quote”.

Il ricorso è stato accolto, con rinvio alla Corte territoriale in diversa composizione.

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Maria Santina Panarella
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