La Cassazione, con la recente ordinanza 23850 del 24 settembre 2024, è tornata ad occuparsi della questione dei limiti del diritto di critica nel rapporto di lavoro, ed in particolare delle espressioni critiche utilizzate dal lavoratore sindacalista nei confronti del datore di lavoro.
Nel caso di specie – a quanto è dato desumere dall’antefatto processuale – il dipendente, nella sua qualità di rappresentante sindacale e coordinatore nazionale Responsabile dei Lavoratori per la Sicurezza ex art. 50 D.Lgs. 81/2008, aveva riportato a un portale on line una serie di dati (in parte poi rettificati) circa i danni subiti dalla clientela e gli infortuni occorsi ai lavoratori. In altro frangente aveva reso una dichiarazione di solidarietà in favore di lavoratori di altra azienda, rivolgendo espressioni critiche nei confronti dell’Amministratore della medesima.
La Cassazione ribadisce il principio secondo cui “il lavoratore che sia anche rappresentante sindacale se, quale lavoratore subordinato, è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti, si pone, in relazione all'attività di sindacalista, su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione, giacché detta attività, espressione di una libertà costituzionalmente garantita dall'art. 39 Cost., in quanto diretta alla tutela degli interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro, non può essere subordinata alla volontà di quest'ultimo; l'esercizio, da parte del rappresentante sindacale, del diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro, garantito dagli artt. 21 e 39 Cost., incontra i limiti della correttezza formale, imposti dall'esigenza, anch'essa costituzionalmente assicurata (art. 2 Cost.), di tutela della persona umana; solo ove tali limiti siano superati con l'attribuzione all' impresa datoriale o a suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati, il comportamento del lavoratore può essere legittimamente sanzionato in via disciplinare” (in motivazione sono richiamati, tra in numerosi precedenti di legittimità, Cass. n. 7471/2012; Cass. n. 19176/2018; e, in precedenza, Cass. n. 11436/1995).
Giova peraltro rammentare che l'apprezzamento in ordine al superamento dei limiti di continenza e pertinenza stabiliti per un esercizio lecito della critica rivolta dal lavoratore nei confronti del datore costituisce valutazione rimessa al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità ove congruamente motivato (in questi termini, Cass. civile, sez. lav., 18 gennaio 2019, n. 1379).
L’ordinanza in commento, applicando i principi di cui sopra, ritiene sorrette da congrua motivazione le conclusioni della Corte d’Appello di Roma, la quale aveva escluso che il lavoratore avesse attribuito comportamenti apertamente disonorevoli o riferimenti denigratori ai dirigenti della società ricorrente, riconducendo le dichiarazioni oggetto di addebito al legittimo esercizio del diritto di critica sindacale.
La Corte esclude poi che la solidarietà espressa nei confronti di lavoratori di altra azienda esorbiti dal ruolo sindacale. Infatti, al diritto di critica sindacale, purché sempre non esorbitante i limiti del principio di continenza formale, è connaturata l’espressione di opinioni personali e, in ipotesi, sgradite al datore di lavoro, “dovendosi bilanciare l'interesse che si assume leso con quello a che non siano introdotte limitazioni alla libera espressione del pensiero costituzionalmente garantito”.