Libertà di espressione e rapporto di lavoro: la Cedu ricorda la necessità dell’equilibrio tra gli interessi in gioco

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo torna ad evidenziare l’importanza della libertà di espressione e la necessità del bilanciamento tra gli interessi sottesi nel caso in cui tale diritto si eserciti, in particolare, nell’ambito di un rapporto di lavoro (sentenza dell’8 ottobre, Aghajanyan c. Armenia).

Nella specifica vicenda affrontata dalla pronuncia, il ricorrente (che aveva lavorato come ricercatore senior presso una fabbrica di prodotti chimici di proprietà per il 90 % di una società privata e per il 10 % del governo) aveva lamentato che il licenziamento intimatogli dalla datrice di lavoro a seguito della pubblicazione di una sua intervista aveva violato il suo diritto alla libertà di espressione come tutelato dall’articolo 10 della Convenzione.

Nel richiamare i principi generali, la Corte ha premesso di aver già più volte dichiarato che la protezione di cui all’art. 10 della Convenzione si estende anche al luogo di lavoro in generale, sia pubblico che privato. Infatti – ricorda la Corte – l’esercizio effettivo della libertà di espressione non dipende solo dal dovere dello Stato di non interferire, ma può richiedere misure positive di tutela anche nell’ambito dei rapporti tra le persone. In alcuni casi, lo Stato ha l’obbligo positivo di tutelare il diritto alla libertà di espressione, anche contro l’ingerenza di privati.

Come si è accennato, nel caso di specie, il ricorrente era stato licenziato per il fatto di aver divulgato asserite informazioni sensibili riguardanti il datore di lavoro in un’intervista giornalistica.

La Corte, al fine di verificare se le autorità giudiziarie armene, nel respingere la domanda del ricorrente, avessero adeguatamente garantito il suo diritto alla libertà di espressione, ha richiamato, in primo luogo, i principi generali poc’anzi citati.

In via preliminare, la Corte ha ritenuto che le sentenze nazionali fossero molto poco motivate, nonostante il lavoratore avesse presentato numerosi argomenti per contestare la legittimità del licenziamento.

In particolare, sebbene, secondo il provvedimento di licenziamento e le sentenze dei tribunali, il ricorrente avesse violato determinate norme, rivelando segreti commerciali, lo stesso licenziamento affermava che il lavoratore aveva divulgato informazioni "infondate" e "false". E, secondo la Corte, tale contraddizione non era stata affrontata dai giudici nazionali.

Ancora più importante, secondo la Corte, era il fatto che i giudici nazionali non avessero valutato il caso alla luce dei principi elaborati dalla giurisprudenza in relazione all’articolo 10 della Convenzione. Infatti, né il provvedimento di licenziamento né le sentenze nazionali avevano specificato quali, tra le dichiarazioni pubblicate sul giornale, fossero inesatte o diffamatorie; né erano stati analizzati gli argomenti del ricorrente relativi ai ripetuti tentativi svolti dal medesimo lavoratore di sollevare le proprie preoccupazioni nei confronti dei superiori gerarchici.

Sebbene sia incontestabile l’importanza del dovere di lealtà e discrezione dei lavoratori nei confronti del datore, “che richiede che la diffusione di informazioni, anche accurate, sia effettuata con moderazione e correttezza”, questo dovere – si legge nella sentenza - non può prevalere sull’interesse che il pubblico può avere per una determinata informazione. Nell’intervista citata il ricorrente aveva sollevato una questione di interesse generale molto delicata ed importante riguardante, in particolare, la tutela dell'ambiente, i danni alla salute umana e la sicurezza sul luogo di lavoro. Tuttavia, il rapporto tra il dovere di lealtà del ricorrente e l'interesse pubblico ad essere informati sulle questioni ambientali e sui presunti illeciti nella vasta fabbrica chimica dell'Armenia nella quale lavorava il ricorrente non era stato affatto esaminato dai giudici nazionali.

Inoltre, le sentenze interne, nel confermare il licenziamento del ricorrente, non contenevano alcuna menzione di danni in ipotesi subiti dalla fabbrica a seguito dell’intervista del ricorrente.

Pertanto, la Corte ha ritenuto che, nel valutare la proporzionalità di una misura grave come il licenziamento senza preavviso, i giudici nazionali avrebbero dovuto prendere in considerazione e fornire un'analisi completa di “elementi chiave del caso” – in alcun modo affrontati - quali la natura e la veridicità delle dichiarazioni rese dal ricorrente, i motivi che lo avevano spinto a rilasciare l'intervista, la possibilità di sollevare efficacemente il proprio punto di vista dinanzi ai suoi superiori, nonché il danno causato alla fabbrica a seguito dell’intervista.

La Corte è così giunta a concludere che i giudici nazionali non avevano raggiunto un giusto equilibrio tra gli interessi in gioco e non avevano fornito una motivazione “pertinente e sufficiente” delle proprie decisioni.

Di conseguenza, vi è stata una violazione dell’articolo 10 della Convenzione.

In argomento, si veda anche Il diritto di critica sindacale: quali limiti?

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Maria Santina Panarella
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