Il caso
Un lavoratore assunto con il contratto di lavoro a tutele crescenti, occupato in un’impresa dalle ridotte dimensioni organiche, a cui pertanto non si applica l’art. 18 L. n. 300/1970, viene intimato un licenziamento per giusta causa che però non è stato preceduto dalla preventiva contestazione disciplinare ex art. 7 L. n. 300/1970.
Ferma l’illegittimità del licenziamento, si pone il problema di individuare la disciplina applicabile al caso specifico.
La decisione del Tribunale di Roma
Il Tribunale, innanzi tutto, muove dalla specificazione di “fatto contestato” operata dalla giurisprudenza della Cassazione. Secondo Cass. n. 4879/2020 il “fatto contestato”, la cui sussistenza fenomenica deve essere verificata in giudizio, deve essere delineato esattamente nella preventiva contestazione disciplinare. Quanto sopra, aggiunge la Cassazione, è coerente con l’esigenza di garantire idonee garanzie di difesa al lavoratore, posto che quest’ultimo non sarebbe in grado poter presentare le proprie giustificazioni se non gli venisse contestato esattamente e precisamente un fatto, le quali giustificazioni, “ove esaustive e dirimenti, potrebbero indurre il datore anche a desistere dal proseguire nel procedimento disciplinare ed a non irrogare la sanzione espulsiva rispetto alla quale la contestazione dell'addebito era funzionale”.
Il Tribunale procede, poi, ad una ricognizione della disciplina di cui al D. Lgs. n. 23/2015.
L’art. 2 del D. Lgs. n. 23/2015 disciplina il licenziamento discriminatorio o comunque nullo perché riconducibile agli altri casi di nullità previsti dalla legge, prevedendo che in tali casi debba trovare applicazione la reintegrazione.
L’art. 3 del D. Lgs. n. 23/2015, invece, disciplina le ipotesi in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore o (per effetto di quanto statuito da Corte Cost. n. 128/2024) del fatto materiale addotto dal datore a fondamento del licenziamento per g.m.o.: anche in tali casi trova applicazione la reintegrazione, ma l’indennizzo risarcitorio che la accompagna è limitato nell’ammontare massimo a 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo dell’indennità di fine rapporto.
L’art. 4 prevede che nell’ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito della motivazione o della procedura di cui all’art. 7 L. n. 300/1970, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria che non può essere inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, “a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del presente decreto”.
In questo contesto, come noto, ove le dimensioni dell’impresa non superino una certa soglia organica, è escluso che trovi applicazione la disciplina dell’art. 3: nelle imprese di minori dimensioni, quindi, è precluso il rimedio della reintegrazione. Al contrario, anche nelle imprese di minori dimensioni si applica la disciplina dell’art. 2 D. Lgs. n. 23/2015, sempre che, come ovvio, si sia in presenza di un licenziamento discriminatorio o nullo perché riconducibile agli altri casi di nullità previsti dalla legge.
Già in passato la Cassazione aveva affermato la nullità di una sanzione disciplinare che non fosse stata proceduta dall’espletamento della procedura di cui all’art. 7 Stat. Lav. (Cass. 17286/2015); trattasi di una nullità c.d. “di protezione”, con tale espressione intendendosi le nullità che possono farsi valere solo dal soggetto nel cui interesse la nullità è prevista. Esse, tuttavia, si caratterizzano altresì per la coesistenza di una legittimazione ristretta (potendo essere fatte valere solo dai soggetti nel cui interesse sono previste) e dalla rilevabilità d’ufficio. Viene quindi richiamata dal Tribunale Cass. 9530/2023, a mente della quale “poiché le fasi del procedimento disciplinare non possono essere omesse o concentrate, e, di conseguenza, la nullità di una sanzione disciplinare, per tale tipo di violazione, rientra nella categoria delle nullità di protezione, in quanto fondata sullo scopo di tutela del contraente debole del rapporto, tale violazione non è assimilabile a quelle procedurali (di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42”.
Conseguentemente, il Giudice ritiene che in una fattispecie di licenziamento che non sia stata preceduta dalla contestazione disciplinare, “si sia in presenza, non già di una mera deviazione formale dallo schema procedimentale della norma disciplinare, bensì di una vera e propria nullità”.
Se a ciò si aggiunge che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 22 del 22 febbraio 2024, ha recentemente dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 D. Lgs. n. 23/2015 nella parte in cui il decreto limitava le ipotesi di reintegrazione ai casi di nullità “espressamente” previsti dalla legge, il Tribunale giunge alla conclusione per cui, per effetto di tale pronuncia della Consulta, “l’art. 2, comma 1 comprenda, tra le ipotesi meritevoli di tutela reintegratoria, anche quelle derivanti da nullità virtuali, da quelle cioè che, pur in mancanza di tale espressa previsione, costituiscano ipotesi di contrarietà a norme imperative ai sensi del primo coma dell’art.1418 c.c. “salvo che la legge disponga diversamente”. Nel caso di specie, afferma il Tribunale, non vi è dubbio che la prescrizione di cui all’art. 7 Stat. Lav. che impone che l’irrogazione di una sanzione disciplinare debba essere preceduta dalla preventiva contestazione dell’addebito sia contenuta in una norma imperativa; conseguentemente, all’ipotesi del licenziamento che non sia stato preceduto dalla contestazione disciplinare, anche se irrogato in un’impresa dalle dimensioni organiche ridotte, trova applicazione l’art. 2 comma 1 D. Lgs. 23/2015 e dunque la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro senza alcuna limitazione quantitativa della correlativa indennità risarcitoria.