L’assoluzione in sede penale esclude la legittimità del licenziamento disciplinare?

Stefano Guadagno
11 Dicembre 2024

L’assoluzione in sede penale del lavoratore non ha efficacia di giudicato nel giudizio di impugnativa della sanzione disciplinare, irrogata nell'ambito di un rapporto di lavoro di diritto privato, nel caso in cui non ricorra, ai sensi dell'art. 654 c.p.p., il presupposto della costituzione del datore di lavoro quale parte civile nel processo penale.

Questo il principio affermato dalla Cassazione, con ordinanza del 29 novembre 2024, n. 30748, che torna a occuparsi della questione della incidenza dell’assoluzione in sede penale sul procedimento disciplinare nei confronti del lavoratore dipendente da un privato.

In particolare, il Supremo Collegio era chiamato a pronunciarsi sulla sentenza resa dalla Corte d’Appello di Bologna che aveva dichiarato l’illegittimità di un licenziamento disciplinare alla luce del giudicato nel parallelo procedimento penale, recante l'assoluzione del lavoratore per insussistenza del fatto. Secondo la corte territoriale, tale statuizione spiegava effetti diretti ai sensi dell'art. 653 c.p.p.

La Cassazione, in accoglimento del secondo motivo di ricorso, ha ritenuto non pertinente il richiamo all'art. 653 c.p.p., che riguarda il rapporto di lavoro del dipendente pubblico, come si evince dal tenore letterale della norma che prevede, al primo comma, che “La sentenza penale irrevocabile di assoluzione (...) ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o (non costituisce illecito penale ovvero) che l'imputato non lo ha commesso”.

All’ipotesi degli effetti del giudicato penale sul procedimento disciplinare deve invece trovare applicazione, secondo il Supremo Collegio, l’art. 654 c.p.p. che, appunto, disciplina la “Efficacia della sentenza penale di condanna o di assoluzione in altri giudizi civili o amministrativi”. In forza di tale disposizione, “Nei confronti dell'imputato, della parte civile e del responsabile civile che si sia costituito o che sia intervenuto nel processo penale, la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, quando in questo si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall'accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale, purché i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa”.

Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, dunque, la "sentenza penale" di assoluzione in seguito a dibattimento “non ha efficacia di giudicato nel giudizio di impugnativa di una sanzione disciplinare irrogata nell'ambito di un rapporto di lavoro di diritto privato, nel caso in cui non ricorra, ai sensi dell'art. 654 c.p.p., il presupposto della costituzione del datore di lavoro quale parte civile nel processo penale”, in quanto “l'art. 653 comporta l'efficacia di giudicato di tale sentenza (quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso) solo relativamente ai rapporti di pubblico impiego, facendo riferimento al "giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità". (viene citata, Cass. Sez. Lav., 2 dicembre 1996, n. 10752; ancor più di recente, v. Cass. Sez. Lav., 17 luglio 2020, n. 15344).

L’ordinanza in commento, nel solco dell’insegnamento da ultimo richiamato, conclude che “il giudice del lavoro adito con impugnativa del licenziamento, ove pure irrogato in base agli stessi comportamenti che furono oggetto di imputazione in sede penale, non è affatto obbligato a tener conto dell'accertamento contenuto nel giudicato di assoluzione del lavoratore, ma ha il potere di ricostruire autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti materiali e di pervenire a valutazioni e qualificazioni degli stessi del tutto svincolate dall'esito del procedimento penale”.

Si deve poi rammentare, come la Cassazione non manca di fare, che – quand’anche si ritenessero accertati i fatti materiali contestati, sulla base delle statuizioni rese in sede penale – “la valutazione della gravità del comportamento del lavoratore, ai fini della verifica della legittimità del licenziamento per giusta causa, deve essere da quel giudice operata alla stregua della "ratio" degli artt. 2119 cod. civ. e 1 della legge 15 luglio 1966 n.604, e cioè tenendo conto dell'incidenza del fatto commesso sul particolare rapporto fiduciario che lega le parti nel rapporto di lavoro, delle esigenze poste dall'organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione, indipendentemente dal giudizio che del medesimo fatto dovesse darsi ai fini penali”.

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