La prolungata inerzia dello Stato italiano ha messo a rischio la vita dei residenti della Terra dei Fuochi.
Secondo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (causa Cannavacciuolo ed altri c. Italia, 51567/14), che si è espressa all’unanimità, vi è stata la violazione dell’art. 2 della Convenzione (diritto alla vita) (decisione del 30 gennaio 2025). La decisione è stata condivisa all’unanimità (il Giudice Serghides ha formulato un’opinione parzialmente dissenziente che non ha riguardato, infatti, la violazione dell’art. 2 della Convenzione).
La vicenda, ben nota anche al di là dei nostri confini nazionali, è stata ricostruita dalla Corte: il fenomeno Terra dei Fuochi, riguardante il territorio compreso tra la provincia di Napoli e l’area sud-occidentale della provincia di Caserta nella quale risiedono 2,9 milioni di persone, si riferisce allo scarico abusivo, all’interramento e/o abbandono incontrollato di rifiuti pericolosi, speciali e urbani, spesso abbinati al loro incenerimento.
1. I principi applicati
L’art. 2 della Convenzione – si legge nella pronuncia – contiene anche un obbligo positivo per gli Stati di adottare tutte le misure appropriate per salvaguardare la vita di coloro che si trovano sotto la loro giurisdizione. Tale articolo, letto nel suo insieme, riguarda non solo le situazioni in cui una determinata azione o omissione dello Stato ha portato ad un decesso, ma anche quelle in cui esisteva chiaramente un rischio per la vita del ricorrente sopravvissuto.
Si tratta di un obbligo applicabile nel contesto di qualsiasi attività, pubblica o meno, e, a maggior ragione, in relazione a quelle attività che possono comportare un rischio per la vita umana a causa del loro carattere intrinsecamente pericoloso.
La giurisprudenza della Corte aveva già evidenziato che, per poter invocare l’art. 2, vi deve essere un rischio reale per la vita, inteso come esistenza di una minaccia grave, reale e sufficientemente accertabile. Una volta verificato tale presupposto, il compito della Corte è quello di “stabilire se, tenuto conto delle circostanze del caso, lo Stato abbia fatto tutto ciò che gli sarebbe stato richiesto per evitare che la vita del ricorrente fosse messa in pericolo in modo evitabile”.
La Corte ha poi ribadito che l’obbligo positivo di adottare tutte le misure appropriate per salvaguardare la vita ai fini dell’art. 2 comporta, in primo luogo, un dovere primario per lo Stato di porre in essere “un quadro legislativo e amministrativo volto a fornire un efficace deterrente contro le minacce al diritto alla vita”.
Vi è, poi – ricorda la pronuncia – il diritto del pubblico all’informazione: in relazione all’art. 8 della Convenzione, esiste un obbligo positivo per gli Stati di fornire l’accesso alle informazioni essenziali che consentano agli individui di valutare i rischi per la propria salute.
2. Sull’obbligo per le autorità di proteggere la vita dei ricorrenti
Alla luce di tali principi, la Corte ha precisato, prima di tutto, che la causa affrontata si differenziava da quelle ambientali che avevano riguardato un’unica fonte di inquinamento o un’unica attività, identificata e circoscritta, e un’area geografica più o meno limitata. Nel caso di specie, ci si trovava, infatti, di fronte ad una “forma di inquinamento particolarmente complessa e diffusa che si verifica principalmente, ma non esclusivamente, su terreni privati”. La vicenda non riguardava attività pericolose, come le attività industriali, svolte nel contesto di un quadro normativo esistente, bensì attività esercitate da privati, gruppi criminali organizzati, industrie, imprese e privati, al di là dei limiti di qualsiasi forma di legalità o di regolamentazione giuridica. La Corte ha espressamente precisato di tener conto di tali considerazioni nel valutare se, nel caso di specie, fossero sorti obblighi di tutela ai sensi dell’art. 2. A questo proposito, ha ribadito che l’approccio all’interpretazione di tale disposizione “è guidato dall’idea che l’oggetto e la finalità della Convenzione quale strumento di protezione della persona esigono che le sue disposizioni siano interpretate e applicate in modo da rendere le sue garanzie pratiche ed efficace”.
Passando alla valutazione della vicenda, la Corte ha ritenuto che non fosse in dubbio che lo scarico illegale, anche accompagnato da incenerimento, e l’interrimento di rifiuti pericolosi fossero attività intrinsecamente pericolose e che “la gravità del potenziale danno per la salute umana derivante da tali attività, che colpiscono tutti gli elementi ambientali come il suolo, l’acqua e l’aria, sembra essere indiscussa tra le parti”. Il Governo italiano, in particolare, non aveva contestato il fatto che l’esposizione a sostanze tossiche, come quelle rilasciate nell’ambiente e che includevano agenti cancerogeni come diossine e metalli pesanti, comportasse un rischio per la vita e la salute. Piuttosto, il Governo aveva concentrato le proprie argomentazioni sull’assenza di un nesso causale scientificamente provato tra l’esposizione all’inquinamento e l’insorgenza di una malattia specifica per quanto riguardava i singoli ricorrenti o i parenti deceduti.
Ciò premesso, secondo la Corte, numerosi elementi suggerivano che le autorità nazionali fossero a conoscenza dell’esistenza delle attività pericolose descritte almeno dai primi anni ’90, se non prima. Da diversi documenti del fascicolo risultava, infatti, che le indagini penali relative a tali pratiche erano state avviate già in quegli anni, che nel 1997 un collaboratore di giustizia aveva confermato al Parlamento italiano l’esistenza di pratiche di interramento sistematiche e scarico illegale di rifiuti pericolosi, in diverse parti della Campania, che avevano avuto inizio alla fine degli anni ’80. La prima commissione parlamentare d’inchiesta che aveva segnalato discariche abusive nelle province di Napoli e Caserta, del resto, risaliva al 1996; la stessa Commissione era stata informata dell’aumento dei tassi di cancro ed aveva rilevato che il fenomeno dell’interramento e dello scarico di rifiuti pericolosi era in aumento in alcune aree.
Sulla base di questi elementi, la Corte ha ammesso “l’esistenza di un rischio sufficientemente grave, reale e accertabile per la vita da far valere l’articolo 2 della Convenzione e far sorgere un obbligo di agire da parte delle autorità” e che “il rischio può essere considerato imminente nei termini stabiliti dalla giurisprudenza della Corte tenuto conto della residente dei ricorrenti, per un periodo di tempo considerevole, in comuni identificati dalle autorità statali come interessati dal fenomeno dell’inquinamento che era in corso, onnipresente e ineludibile da decenni”.
Avendo accertato che i ricorrenti erano esposti a un rischio così descritto, la Corte ha ritenuto irrilevante che questi avessero dimostrato o meno un nesso tra l’esposizione ad un tipo identificabile di inquinamento o di sostanza nociva e l’insorgenza di una malattia specifica.
In linea con un approccio precauzionale, dato che il rischio era noto da molto tempo, il fatto che non vi fosse alcuna certezza scientifica circa gli effetti precisi che l’inquinamento poteva aver avuto sulla salute di un determinato ricorrente – secondo la Corte - “non può negare l’esistenza di un obbligo di protezione, in cui uno degli aspetti più importanti di tale obbligo è la necessità di indagare, identificare e valutare la natura e il livello del rischio” atteso che “concludere diversamente, nelle specifiche circostanze, implicherebbe che le autorità statali possano invocare un inadempimento o un ritardo nell’adempimento di un obbligo al fine di negarne l’esistenza, rendendo così inefficace la protezione dell’art. 2”.
3. Sull’adozione da parte delle autorità di misure adeguate alle circostanze
Il Governo aveva richiamato quasi esclusivamente le misure introdotte dopo l’emanazione del d.l. n. 399/2013.
Pur accogliendo con favore gli sforzi descritti dal Governo, la Corte ha soggiunto di non poter trascurare il fatto che lo strumento che prevedeva la valutazione ambientale è stato emanato in modo intempestivo e, anche dopo la sua emanazione, i progressi sono stati lenti.
Inoltre, sulla base delle osservazioni e dei documenti presentati dallo stesso Governo, la Corte ha concluso che quanto è stato fatto o previsto in termini di accertamento della contaminazione del suolo, delle acque e dell’aria, al di là delle attività descritte nell’ambito del d.l. del 2013 (riguardante solo i terreni agricoli dei comuni ufficialmente designati Terra dei Fuochi), “era alquanto frammentato”.
Quello che è emerso dalle informazioni presentate, in termini generali, è “un lento progresso complessivo negli sforzi di decontaminazione, con molte delle zioni descritte dal governo che hanno comportato solo fasi preliminari”.
La Corte neppure si è detta convinta che, quantomeno prima del 2013, le autorità avessero adottato misure adeguate dirette ad indagare gli impatti sulla salute connessi al fenomeno. Già nel 1998 la seconda commissione parlamentare d’inchiesta, rilevando un aumento di tumori nella provincia di Caserta, aveva esortato le autorità ad indagare su eventuali legami tra tale aumento e lo scarico illegale di rifiuti pericolosi. Eppure, il primo tentativo di un approccio coordinato, sistematico e globale per il controllo sanitario e la sorveglianza epidemiologica della popolazione residente nella zona interessata era stato presentato quasi due decenni dopo.
La Corte ha espresso analoghi dubbi circa l’efficacia del quadro normativo nella prevenzione dei reati ambientali (almeno fino all’entrata in vigore della l. n. 68/2015). Fino al 2015 la risposta legislativa “sembra essere stata non solo poco convincente in termini di efficacia, ma anche lenta e frammentaria, con singoli reati gravi creati nel tempo, ma senza alcun tentativo di rivisitare, in modo olistico, le carenze del sistema penale”.
Per quanto riguarda, poi, il diritto del pubblico all’informazione, la Corte ha constatato che un fenomeno di tale portata, complessità e gravità richiedeva, come risposta da parte delle autorità, una strategia di comunicazione globale e accessibile, al fine di informare il pubblico in modo proattivo sui rischi potenziali o effettivi per la salute e sulle azioni intraprese per gestire tali rischi.
4. Le conclusioni della Corte
In conclusione, secondo la Corte, il primo strumento di carattere generale, diretto ad accertare la portata del fenomeno e ad affrontarne le componenti, è stato adottato solo nel 2013, nonostante le autorità fossero a conoscenza di alcuni aspetti significativi del fenomeno sin dall’inizio degli anni ’90, e della sua interezza, quantomeno a partire dai primi anni 2000.
Da qui la conclusione della Corte: considerata la natura del problema e i rischi connessi, e reputato “inammissibile un siffatto ritardo nell’agire”, le autorità italiano non hanno affrontato il problema Terra dei Fuochi con la diligenza giustificata dalla gravità della situazione, facendo tutto il necessario per proteggere la vita dei ricorrenti.
La Corte ha così dichiarato, all’unanimità, che vi è stata una violazione dell’art. 2 della Convenzione. Entro due anni, lo Stato italiano dovrà introdurre, senza indugio, e sotto la supervisione del Consiglio dei Ministri, misure generali in grado di affrontare, in modo adeguato il fenomeno dell’inquinamento della Terra dei Fuochi.
L’Italia, intanto, potrà chiedere il riesame dal caso. Ai sensi dell’art. 44 della Carta, la sentenza diverrà definitiva tre mesi dopo la sua pronuncia se non sarà richiesto il rinvio del caso alla Grande Camera.