La Corte di Cassazione ha recentemente accolto il ricorso che era stato proposto da un lavoratore che aveva impugnato il licenziamento intimatogli per aver pubblicato una recensione negativa sul proprio datore di lavoro su un sito on line (Cass., 28 febbraio 2025, n. 5331).
La vicenda in esame ha fornito alla Corte l’occasione per ricordare quali sono gli spazi, e i confini, del diritto di critica del lavoratore nell'ambito del rapporto di lavoro.
I principi elaborati al riguardo dalla giurisprudenza di legittimità possono dirsi, in effetti, ormai consolidati.
Come ha ricordato la Cassazione, il diritto di critica trova fondamento nella Costituzione: l'art. 21, riconosce a tutti il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. L’art. 10 della Cedu ribadisce, poi, che "Ogni persona ha diritto alla libertà d'espressione". L'art. 1 dello Statuto dei lavoratori, a sua volta, riafferma “il diritto dei lavoratori, nei luoghi in cui prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero”, e la necessità di contemperare tale libertà col rispetto dei principi della Costituzione e delle norme dello Statuto medesimo.
Il diritto di critica si esercita attraverso la esternazione di un giudizio o, più genericamente, di un'opinione che, per sua natura, è frutto di un'interpretazione soggettiva e personale di fatti e comportamenti. La manifestazione del pensiero in chiave critica reca con sé, di regola, un giudizio negativo, di disapprovazione dei comportamenti altrui o di dissenso e possiede, quindi, “una incomprimibile potenzialità lesiva nei confronti del destinatario, del suo onore e della sua reputazione”. Qualunque critica rivolta ad una persona – si legge nella pronuncia - è idonea ad incidere sulla sua reputazione e, tuttavia, “escludere il diritto di critica ogniqualvolta leda, sia pure in modo minimo, la reputazione altrui, significherebbe negare il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero”.
Da qui la necessità di un contemperamento del diritto di critica con il diritto, di pari rilevanza costituzionale, all'onore e alla reputazione che impone l'osservanza di determinati limiti.
La giurisprudenza ha individuato i limiti del legittimo esercizio del diritto di critica nella continenza formale e sostanziale, nonché nel requisito di pertinenza.
In relazione alla continenza formale, è stato specificato che l'esposizione della critica deve avvenire nel rispetto dei canoni di correttezza, misura e rispetto della dignità altrui.
Il limite della continenza sostanziale, poi, esige che, quando la critica consista in un giudizio su fatti o condotte ascritti alla persona criticata, questi fatti siano veri, anche solo putativamente, e cioè sulla base di un'incolpevole convinzione del dichiarante.
Sotto il profilo della pertinenza, si è osservato che la critica deve rispondere ad un interesse meritevole di tutela.
Proprio in tema di esercizio del diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro – ricorda la Corte – la giurisprudenza ne ha affermato la legittimità ove il prestatore si sia limitato a difendere la propria posizione soggettiva, senza travalicare, con dolo o colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva, con modalità e termini tali da non ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro o del proprio superiore gerarchico e determinare un pregiudizio per l'impresa.
Nella vicenda affrontata nella pronuncia citata, secondo la Cassazione, la Corte territoriale non aveva correttamente applicato i principi ora riassunti.
La sentenza impugnata aveva ravvisato un eccesso, rispetto al limite della continenza formale, nell’espressione utilizzata dal lavoratore e pubblicata sul sito Google My Business (“perdete ogni speranza”) ed aveva rilevato che, alla luce dell’essenzialità dell'elemento fiduciario alla base del contratto di lavoro subordinato, qualsiasi fondata esternazione del lavoratore alla parte datoriale dovesse essere finalizzata esclusivamente a sollecitare un approccio autocritico ed una ragionata revisione, da parte della datrice di lavoro, delle adottate politiche di gestione aziendale. Aveva poi ritenuto che i toni pungenti e le immagini chiaramente evocative di contesti penalizzanti (quale “l’Inferno di dantesca memoria”) fossero sintomatici di un intento denigratorio e di rappresaglia fine a sé stesso.
Secondo i giudici di appello la frase incriminata aveva oltrepassato i limiti della continenza formale ed anche della pertinenza; ogni critica, nell'ambito del rapporto di lavoro, secondo la Corte territoriale, dovrebbe essere costruttiva e, perciò, dovrebbe essere formulata in maniera idonea a sollecitare un ripensamento nel destinatario, risultando, in mancanza di ciò, gratuita.
Tuttavia, secondo la Cassazione, tale ricostruzione non trova alcun sostegno nella giurisprudenza di legittimità.
In particolare, non rivestirebbe particolare rilievo, nel caso in esame, il mezzo adoperato, il sito Google My Business, aperto alle recensioni di qualsiasi persona, nessuna esclusa, nei confronti della società, quindi clienti, fornitori, aziende concorrenti ed anche lavoratori dipendenti.
Ai fini della continenza formale, occorre considerare che “la critica è per definizione espressione di dissenso, di disapprovazione, di giudizi negativi sull'altrui operato e per sua stessa conformazione è astrattamente idonea a mettere il destinatario, che sappia ascoltare, in condizione di interrogarsi sulla veridicità o meno dei rilievi mossi e sulla eventuale possibilità di modificare le condotte espressamente o implicitamente censurate”. La critica, dunque, “può anche consistere in uno sfogo, nella espressione di una disillusione o di uno sconforto perché anche tali modalità sono teoricamente idonee ad innescare l'altrui ripensamento”.
Neppure, in linea generale, conclude la Corte, la volgarità o l'infamia delle espressioni adoperate può essere misurata solo sulle immagini che esse evocano, “specie ove si tratti di citazioni tratte dalla letteratura, come in tal caso, oppure dal patrimonio storico e culturale che accomuna le persone, dovendo ogni frase essere letta cercando di cogliere il significato concreto della critica espressa, al di là della citazione o della assimilazione a cui si fa ricorso, risultando altrimenti la latitudine del diritto in parola dipendente da fattori del tutto estranei alla fattispecie concreta e alla volontà dell'autore della critica”.
Il ricorso del lavoratore, come detto, è stato accolto e la sentenza cassata con rinvio alla Corte d’Appello in diversa composizione.
In tema di limiti del diritto di critica nel rapporto di lavoro si segnala anche Il post del lavoratore sindacalista su Facebook legittima il licenziamento se diffamatorio nonché Il diritto di critica sindacale: quali limiti?