Cass. civ. sez. lav., sent. n. 7480/2025 del 20 marzo 2025
La questione è stata affrontata da una recente pronuncia della Cassazione.
Il lavoratore ha sostenuto in giudizio che il licenziamento intimatogli era da ritenersi nullo per difetto di comunicazione del relativo atto; quest’ultimo, infatti, nel caso di specie era stato trasmesso via posta elettronica certificata al difensore del lavoratore.
E’ bene premettere che, nell’ambito del c.d. “pubblico impiego”, l’art. 55 bis del D. Lgs. 165/2001, nella versione vigente ratione temporis ai fatti di causa (quella, cioè, vigente prima delle modifiche apportate dal D. Lgs. n. 75/2017) prevedeva che “Ogni comunicazione al dipendente, nell’ambito del procedimento disciplinare, è effettuata tramite posta elettronica certificata, nel caso in cui il dipendente dispone di idonea casella di posta, ovvero tramite consegna a mano. Per le comunicazioni successive alla contestazione dell’addebito, il dipendente può indicare, altresì, un numero di fax, di cui egli o il suo procuratore abbia la disponibilità. In alternativa all’uso della posta elettronica certificata o del fax ed altresì della consegna a mano, le comunicazioni sono effettuate tramite raccomandata postale con ricevuta di ritorno. Il dipendente ha diritto di accesso agli atti istruttori del procedimento. E’ esclusa l’applicazione di termini diversi o ulteriori rispetto a quelli stabiliti nel presente articolo”.
La doglianza del lavoratore, quindi, si basa sul tenore letterale della norma applicabile ratione temporis ai fatti di causa, la quale prevedeva che le comunicazioni successive alla contestazione disciplinare potessero essere effettuate, oltre che a mani del dipendente, al suo indirizzo PEC, oppure, nel caso in cui questi ne fosse stato privo, presso “un numero di fax di cui egli o il suo procuratore abbia la disponibilità”, ma non anche all’indirizzo PEC dell’avvocato (facoltà che invece è stata prevista a seguito delle modifiche apportate all’articolo in questione dal D. Lgs. n. 75/2017).
La decisione
Con una motivazione che potremmo definire “composita”, che le ha consentito di prescindere dal tenore letterale della norma applicabile ai fatti di causa (che, come visto, in linea teorica non contemplava la possibilità di comunicare il licenziamento alla pec dell’avvocato), la Cassazione ha dichiarato inammissibile il motivo di ricorso del lavoratore.
In primo luogo, rileva la Corte, in atti vi era l’elezione di domicilio compiuta dal dipendente nel corso del procedimento disciplinare presso l’avvocato di sua fiducia (e, soprattutto, presso il relativo indirizzo PEC di quest’ultimo); in tal modo il lavoratore ha esplicitamente dichiarato al datore di lavoro che l’indirizzo PEC del suo avvocato “rientrava” nella sua disponibilità, in ragione del legame fiduciario che lo legava a quest’ultimo e che appunto era “cristallizzato” nella predetta elezione di domicilio.
Se a ciò si aggiunge la (doverosa) considerazione dello “statuto giuridico dell’avvocato, già come vigente ratione temporis”che “attribuisce specifico rilievo alla PEC dello stesso, quale domicilio privilegiato per le comunicazioni e notificazioni, atteso che ciascun avvocato è munito di un proprio ‘domicilio digitale’, conoscibile da parte dei terzi attraverso la consultazione dell’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (INI-PEC) e corrispondente all’indirizzo PEC che l’avvocato ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza e da questi è stato comunicato al ministero della giustizia per l’inserimento nel registro generale degli indirizzi elettronici ReGIndE”, ecco che, a prescindere dal tenore letterale dell’art. 55 bis D. Lgs. n. 165/2001, la comunicazione del licenziamento all’indirizzo PEC dell’avvocato è stata ritenuta idonea a determinare la conoscenza legale dell’atto di recesso datoriale (con conseguente individuazione del dies a quo del termine di decadenza per l’impugnazione dalla data in cui essa è stata effettuata).