Una recente pronuncia della Corte di Cassazione contiene un interessante approfondimento circa la legittimità o meno del ricorso da parte del datore di lavoro alle agenzie investigative (Cass. 2 aprile 2025, sent. n. 8707).
La vicenda affrontata prendeva le mosse dall’impugnazione del licenziamento di un lavoratore (operatore ecologico) che aveva fruito di frequenti e prolungate pause presso alcuni bar dei comuni dove lavorava durante l’orario di lavoro. I fatti erano emersi da una relazione investigativa e dall’analisi dei gps installati sui mezzi utilizzati dal lavoratore.
Nel respingere le censure sollevate dal lavoratore, la Corte ha dapprima ricordato che, come già più volte affermato, le disposizioni degli artt. 2 e 3 dello Statuto dei lavoratori, nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non precludono a quest'ultimo di ricorrere ad agenzie investigative, purché queste non sconfinino nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria riservata dall'art. 3 dello Statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori. Tale intervento è giustificato non solo per l'avvenuta prospettazione di illeciti e per l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione.
I controlli del datore di lavoro, anche a mezzo di agenzia investigativa, sono legittimi ove siano finalizzati a verificare comportamenti del lavoratore che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo, non potendo, invece, avere ad oggetto l'adempimento (o inadempimento) della prestazione lavorativa, in ragione del divieto previsto dagli artt. 2 e 3 della legge n. 300 del 1970.
Tra le altre, anche Cass. 23985/2024 (sul punto si rinvia anche a Le risultanze dei controlli effettuati mediante agenzia investigativa sono utilizzabili ai fini disciplinari? ) aveva precisato come la nozione di ‘patrimonio aziendale’ tutelabile in sede di esercizio del potere di controllo dell'attività dei lavoratori vada intesa in una accezione estesa. Si è così riconosciuto “il diritto del datore di lavoro di tutelare il proprio patrimonio, (...) costituito non solo dal complesso dei beni aziendali, ma anche dalla propria immagine esterna, così come accreditata presso il pubblico”.
Sul controllo mediante agenzie investigative si veda, da ultimo, anche Cass. n. 17004 del 2024 (ne abbiamo parlato in L’agenzia investigativa può controllare il lavoratore?) che ha ribadito che la tutela del patrimonio aziendale può riguardare la difesa datoriale “dalla lesione all'immagine e al patrimonio reputazionale dell'azienda, non meno rilevanti dell'elemento materiale che compone la medesima”.
Nella fattispecie esaminata nella sentenza in esame, secondo la Suprema Corte, il convincimento della Corte territoriale si era basato sull'esito di un'attività investigativa, oggetto anche di prova testimoniale degli investigatori, rientrante nei poteri di controllo datoriale, in quanto esercitata in luoghi pubblici; era stato così accertato che, per alcuni giorni, il lavoratore aveva adottato un comportamento illecito, suscettibile altresì di rilievo penale o, comunque, idoneo a raggirare il datore di lavoro e a ledere non solo il patrimonio aziendale, ma anche l'immagine e la reputazione dell'azienda all'esterno.
Era dunque corretto – a dire della Cassazione - il riferimento dei giudici di seconde cure al fatto che, nel caso in esame, il controllo non era diretto a verificare le modalità di adempimento dell'obbligazione lavorativa, bensì il compimento di atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione contrattuale.
Infine, la Corte ha confermato la legittimità del licenziamento nonostante il lavoratore avesse eccepito la mancata affissione del codice disciplinare. La Corte ha precisato, al riguardo, che la pubblicizzazione del Codice disciplinare mediante affissione non è condizione indefettibile dell'azione disciplinare, allorquando vi sia violazione del c.d. minimo etico, in quanto la funzione della pregressa previsione in un testo che sia affisso o pubblicato nelle forme del caso non è quella di fondare in assoluto il potere disciplinare (in sé basato sul disposto dell'art. 2106 c.c. e sul richiamo di esso alle norme, di formulazione ampia e generale, di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c.), ma è invece quella di “predisporre e regolare le sanzioni rispetto a fatti di diversa caratura, la cui mancata previsione potrebbe far ritenere che la reazione datoriale risponda a criteri repressivi che inopinatamente valorizzino ex post e strumentalmente taluni comportamenti del lavoratore”. Questa esigenza – secondo la Cassazione - non ricorre nei casi in cui la gravità assoluta derivi dal contrasto con il predetto minimo etico proprio perché il lavoratore non può non percepire ex ante che il proprio comportamento sia illecito e tale da pregiudicare anche il rapporto di lavoro.
In argomento si veda anche, sempre sul nostro sito, Quando il controllo sul lavoratore mediante agenzia investigativa è illegittimo?