La «tolleranza» del datore di lavoro non esclude l’antigiuridicità della condotta del lavoratore

Stefano Guadagno
16 Aprile 2025

La «tolleranza» del datore di lavoro della violazione da parte del lavoratore del divieto di fumo nelle zone comuni non esclude l'antigiuridicità della condotta e la legittimità del licenziamento.

Questo il principio affermato dalla Cassazione nell’ordinanza n. 7826 del 24 marzo 2025.

Al lavoratore era stato contestato di aver fumato nell’area air-side, nonostante il divieto di fumo, e ne era stato dunque disposto il licenziamento.

Come si evince dall’antefatto processuale dell’ordinanza in commento, la Corte territoriale aveva ritenuto illegittimo il licenziamento sulla base della considerazione che, pur essendo il dipendente consapevole del divieto di fumo, la «tolleranza» del datore di lavoro “rispetto all'abitudine dei dipendenti di fumare in quella zona, ove neppure era apposto un cartello recante il divieto, fosse sintomatica di una valutazione di quella prassi come non illecita”. Da ciò aveva desunto l'assenza di rilievo disciplinare dell'addebito contestato ed affermato quindi l'insussistenza del fatto, con applicazione della tutela reintegratoria.

La Corte di Cassazione ritiene fondato il motivo di ricorso a mezzo della quale il datore di lavoro ha censurato la sentenza d’appello per avere valorizzato la mancata adozione da parte della società di provvedimenti diretti a far rispettare il divieto di fumo come idonea a elidere l'illiceità della condotta del dipendente.

In particolare, l’ordinanza muove dall’assunto che “in ipotesi di tolleranza di condotte illegittime si è affermato come non basti la mancata reazione del soggetto deputato al controllo a far venire meno l'illiceità della condotta e che l'esclusione di responsabilità dell'autore della violazione in tanto è configurabile in quanto ricorrano elementi ulteriori, capaci di ingenerare nel trasgressore la incolpevole convinzione di liceità della condotta, sì che non possa essergli mosso neppure un addebito di negligenza”.

La giurisprudenza di legittimità, con riguardo alle violazioni amministrative – con principi ritenuti estensibili alla responsabilità disciplinare del lavoratore – ha già affermato che “per integrare l'elemento soggettivo dell'illecito, è sufficiente la semplice colpa e che l'errore sulla liceità della relativa condotta, correntemente indicato come buona fede, può rilevare in termini di esclusione della responsabilità solo quando esso risulti inevitabile”. A tal fine, “occorre un elemento positivo, estraneo all'autore dell'infrazione, idoneo ad ingenerare nello stesso la convinzione della sopra riferita liceità, senza che il medesimo sia stato negligente o imprudente”.È anzi necessario che “il trasgressore abbia fatto tutto quanto possibile per osservare la legge e che nessun rimprovero possa essergli mosso, così che l'errore risulti incolpevole, non suscettibile cioè di essere impedito dall'interessato con l'ordinaria diligenza” (in questi termini, Cass.  11253 del 2004).

Dunque, anche il comportamento dell’organo preposto al controllo di quell’attività rileva ai fini dell’ignoranza incolpevole dell’illiceità della condotta, ma solo se l’affidamento che esso ingenera sia tale da escludere ogni incertezza sulla legittimità della condotta del privato.

Applicando tali principi al caso di specie, la Corte, premesse:

  • la pacifica esistenza del divieto di fumo in quella zona;
  • la conoscenza di tale divieto da parte del lavoratore,

ritiene errata l’attribuzione alla tolleranza datoriale, nel reprimere le violazioni dei lavoratori, dell’effetto di “escludere l'antigiuridicità della condotta del dipendente, senza indagare su presenza di elementi ulteriori, atti a ingenerare nel lavoratore l'incolpevole convinzione di liceità della condotta e senza verificare se il dipendente avesse, in buona fede, fatto il possibile per rispettare il divieto di fumo sì che nessun rimprovero poteva essergli mosso oppure avesse unicamente profittato della mancata reazione di parte datoriale fino a quel momento”.

Su questa base la Corte cassa la sentenza di merito nella parte in cui ha affermato l’insussistenza del fatto contestato, inteso come fatto antigiuridico.

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