Una lavoratrice viene assunta con la qualifica di ‘hotel manager’ e con patto di prova di sei mesi. Dopo appena dieci giorni dall’instaurazione del rapporto, a causa dell’emergenza epidemiologica da covid – 19, la struttura alberghiera, datrice di lavoro, è costretta a chiudere temporaneamente al pubblico e chiede l’attivazione del Fondo di integrazione salariale, anche per la lavoratrice in patto di prova.
Resasi conto di tale erronea inclusione, la datrice pone allora la lavoratrice in questione in smart working per poi comunicare, dopo appena quarantasei giorni dall’instaurazione del rapporto di lavoro, la propria volontà di sciogliere il rapporto.
Si tratta di un provvedimento legittimo?
Questa è la vicenda che è stata sottoposta alla valutazione del Tribunale di Roma, Sezione Lavoro, il quale ha dichiarato la nullità del licenziamento (Trib. Roma, 25 marzo 2021).
L’eccezionalità del momento storico, derivante dall’epidemia tuttora in corso, ha determinato, come è noto, l’introduzione di una normativa di emergenza, compresa la previsione del cd. blocco dei licenziamenti (“La stabilità del mercato del lavoro ed il "blocco" dei licenziamenti per ragioni economiche, produttive ed organizzative” https://www.studioclaudioscognamiglio.it/la-stabilita-del-mercato-del-lavoro-ed-il-blocco-dei-licenziamenti-per-ragioni-economiche-produttive-ed-organizzative/).
Il caso sopra citato, e il tempismo (sfortunato) dell’assunzione della lavoratrice, come si inseriscono in tale contesto?
In primo luogo, come il Giudice ha coerentemente premesso, la lettera di licenziamento, nel caso di specie, faceva riferimento ad una risoluzione del rapporto di lavoro durante il periodo di prova, e non per mancato superamento del medesimo periodo di prova.
E, a questo riguardo, è stata reputata rilevante la dimostrazione da parte della ricorrente di aver brillantemente superato il pur irrisorio periodo di prova, limitatamente all’attività effettivamente dalla stessa espletata, alla luce dell’onere della prova che sulla medesima (cfr., in argomento,“L’onere della prova nell’ambito del licenziamento intimato al termine del periodo di prova”, https://www.studioclaudioscognamiglio.it/lonere-della-prova-nellambito-del-licenziamento-intimato-al-termine-del-periodo-di-prova/).
Anche alla luce di ciò, il Giudice ha ritenuto esistente un motivo illecito, del tutto estraneo al patto di prova e all’esito dello stesso, che avrebbe determinato l’illegittima risoluzione del rapporto di lavoro.
In particolare, sulla base dell’insegnamento reso dalla Corte di Cassazione in tema di licenziamento ritorsivo (per un approfondimento sul punto, si veda “Quando il licenziamento può dirsi ritorsivo?”, https://www.studioclaudioscognamiglio.it/bozza-automatica-determinante/), il Tribunale ha individuato alcuni indizi gravi, precisi e concordanti a conforto della tesi che il licenziamento sarebbe stato deciso dalla Società per motivi economici e non per motivi legati all’espletamento della prova, avendo il datore la necessità di eliminare una posizione di lavoro costosa.
Dunque, a detta del Giudice, l’estromissione dal contesto aziendale di una dipendente “divenuta troppo onerosa” trova un limite insormontabile nel divieto dei licenziamenti previsto dall’art. 46 d.l. n. 18/2020, che, al fine di contenere gli esiti negativi della pandemia sui lavoratori, ha disposto, il divieto, più volte prorogato, di licenziare i dipendenti per motivi economici e/o organizzativi, a prescindere dalla dimensione occupazione dell’azienda e dal numero dei dipendenti.
Da qui la declaratoria di nullità del recesso datoriale, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1418 e 1345 c. c., “essendo stato il reale motivo che ha giustificato il provvedimento espulsivo violativo dell’art. 46 D. L. 18/2020”.
La lavoratrice dovrà allora essere reintegrata nel posto di lavoro precedentemente occupato, con diritto al risarcimento del danno ed alle retribuzioni maturate e non pagate.
Assunta, licenziata, e reintegrata. Il tutto in nemmeno dodici mesi.