La rimozione del profilo senza giustificato motivo configura un inadempimento di Facebook. Su queste premesse, il Tribunale di Bologna, con ordinanza del 10 marzo 2021, ha condannato il gestore del social network a risarcire all’utente il danno di natura non patrimoniale subito dal medesimo.
La fattispecie trae origine dal ricorso di un professionista, iscritto al social network Facebook, con una pagina personale e due pagine collegate, e relative a temi di proprio interesse, che deduce l’illegittima rimozione dei predetti profili senza alcuna spiegazione. Secondo le prospettazioni dell’attore, la reale motivazione sarebbe stata da rinvenire nella ritorsione conseguente ad una iniziativa giudiziale intrapresa dallo stesso utente contro Facebook, nella sua qualità di avvocato difensore di altro utente.
Mediante l’iscrizione al servizio on line l’utente e Facebook stipulano un contratto a prestazioni corrispettive, in forza del quale il gestore offre, a titolo gratuito, un servizio, avente ad oggetto la fornitura di software che consentono agli utenti di connettersi fra loro e condividere contenuti multimediali, a fronte dell’autorizzazione dell’utente all’utilizzo dei dati personali, sfruttati per offerte commerciali calibrate sugli specifici interessi dei loro destinatari. Stante il valore economico e commerciale di tali dati, dunque, non è revocabile in discussione la patrimonialità della prestazione oggetto dell’obbligazione, ai sensi dell’art. 1174 c.c.
L’ordinanza in commento passa in rassegna le condizioni generali di contratto (c.d. Condizioni d’uso), rilevando che le stesse prevedono il diritto di recesso ad nutum, «soltanto per giuste cause indicate nel regolamento contrattuale, con obbligazione per il gestore di informare l’utente delle ragioni della rimozione», essendo peraltro previste «opzioni a sua disposizione per richiedere una revisione, a meno che ciò esponga Facebook o altri a responsabilità legale, danneggi la community di utenti Facebook, comprometta o interferisca con l'integrità o il funzionamento di servizi, sistemi o Prodotti di Facebook, siano presenti restrizioni dovute a limiti tecnici oppure ove sia vietato farlo per motivi legali».
Ne consegue che «la rimozione di un profilo personale o di una pagina a esso collegata in carenza di qualsiasi violazione delle regole contrattuali da parte dell’utente, e in carenza di qualsiasi informazione all’utente delle ragioni della rimozione, configura un inadempimento del gestore, inquadrabile ai sensi dell’art. 1218 c.c.».
Così ricostruita la fattispecie contrattuale, il Tribunale rileva come, a fronte dell’allegazione dell’utente dell’avvenuta rimozione del proprio profilo senza alcun motivo, e dunque in violazione delle obbligazioni assunte da Facebook con il perfezionamento del contratto, è onere del gestore, sulla base dei generali criteri di riparto dell’onere della prova, dimostrare la sussistenza di una ragione, riconducibile a quelle contrattualmente previste, tale da giustificare la rimozione del profilo.
Nel caso di specie, il Tribunale ha desunto l’assenza di una giusta causa di recesso dalla stessa condotta del gestore che, in violazione del canone di buona fede, ha «distrutto tutta la documentazione relativa al contratto», così rendendo impossibile la verifica dei motivi alla base della decisione di eliminare i profili del ricorrente.
Su queste premesse, l’ordinanza in commento ha quindi ritenuto accertato che «la resistente si sia resa oggettivamente inadempiente, senza che quest’ultima nel corso del giudizio abbia provato ai sensi dell’art. 1218 c.c. che tale inadempimento sia stato dovuto a una causa oggettiva a lei non imputabile o abbia allegato e dimostrato una motivata causa di recesso o di risoluzione del contratto, sicché è provata la responsabilità contrattuale della resistente».
Il Tribunale ha poi ritenuto provata, in assenza di specifica contestazione da parte della società convenuta, la natura discriminatoria del provvedimento assunto da Facebook, desumibile dalla connessione temporale tra l’assunzione da parte dell’utente, nella sua qualità di avvocato, del mandato defensionale in un giudizio contro la stessa Facebook, e comunque frutto di una valutazione arbitraria, da parte della medesima, del contenuto politico ed ideologico dei post pubblicati dal ricorrente.
Il gestore avrebbe così leso gravemente diritti fondamentali della persona, nella misura in cui i social network sono assurti a luogo nel quale nel quale si proietta l’identità personale dell’individuo, ed ove si intessono relazioni interpersonali e si esercita il diritto costituzionale all’espressione del proprio pensiero.
Pur incombendo sul danneggiato l’onere di provare il danno, il Tribunale ritiene, sulla base del principio di vicinanza della prova, che, nella fattispecie, tale onere debba essere invertito, «dal momento che tutte le prove erano nella piena disponibilità della (sola) resistente, mentre sono del tutto precluse al ricorrente, e che la resistente ha deciso di impedirne la produzione in giudizio».
Pertanto, il Giudice bolognese ha concluso che l’esclusione, immotivata, dal social network è suscettibile di cagionare «un danno grave, anche irreparabile, alla vita di relazione, alla possibilità di continuare a manifestare il proprio pensiero utilizzando la rete di contatti sociali costruita sulla piattaforma e, in ultima analisi, persino alla stessa identità personale dell’utente, la quale come noto viene oggi costruita e rinforzata anche sulle reti sociali. Tal danno non è facilmente emendabile creando un nuovo profilo personale e nuove pagine, atteso che resta la perdita della rete di relazioni, la quale viene costruita dagli utenti del social network con una attività di lungo periodo e non semplice».