È valido il patto di non concorrenza che vieta per 12 mesi l’attività di private banker in una regione e lo storno dei clienti, a fronte di un corrispettivo annuo pari al 10% della R.A.L.
In questi termini si è espressa la Corte d’Appello di Firenze, con sentenza del 4 giugno 2021.
1. La natura del patto di non concorrenza
Il patto di non concorrenza è un contratto a titolo oneroso e a prestazioni corrispettive, in forza del quale il datore di lavoro si obbliga a corrispondere una somma di danaro o altra utilita al lavoratore e questi si obbliga, per il tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, a non svolgere attivita concorrenziale con quella del datore (Cass. civ. Sez. lavoro Ord., 01/03/2021, n. 5540).
L’art. 2125 c.c. dispone che “Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell'attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo”.
2. La determinabilità del corrispettivo
Come di recente ribadito dalla Corte di Cassazione, il patto di non concorrenza è una fattispecie negoziale autonoma, dotata di una causa distinta rispetto al contratto di lavoro (cfr. Cass. n. 16489/2009). Pertanto, il corrispettivo con esso stabilito, essendo diverso e distinto dalla retribuzione, deve possedere ex se i requisiti previsti in generale per l'oggetto della prestazione dall'art. 1346 c.c., deve essere cioè “determinato o determinabile”.
Opera invece su un diverso piano, rispetto a quello generale dell’oggetto del contratto, la necessaria previsione di un corrispettivo posta dall’art. 2125 c.c.
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che “un requisito di adeguatezza sia implicito nella formulazione dell'art. 2125, e risponda alla stessa ratio sottesa alla imposizione di limiti di oggetto, tempo e luogo” così che “salva sempre la possibilità di invocare … le norme di cui agli artt. 1448 e 1467 c.c. – l’espressa previsione di nullita va riferita alla pattuizione non solo di compensi simbolici ma anche di compensi manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore” (così, Cass. n. 5540/2021).
Applicando questi principi, la Corte d’Appello di Firenze ha concluso che il corrispettivo, da pagarsi in costanza di rapporto, “fosse senz’altro determinabile, in quanto variabile in relazione a elementi oggettivi quali la durata del rapporto e l’entità della raccolta riferibile all’odierno appellante”. Peraltro, nel caso di specie, l’indeterminatezza del corrispettivo era esclusa dal riconoscimento al lavoratore – come sempre più spesso avviene nella prassi contrattuale – di un importo minimo garantito per il caso la relazione negoziale avesse avuto una durata inferiore a un limite pure predeterminato
3. Il contenuto dell'attività vietata
La sentenza ha poi ritenuto il patto di non concorrenza conforme al paradigma dell’art. 2125 c.c., sia sotto il profilo della attività preclusa (riconducibile all’attività d’intermediazione finanziaria, oltre, che allo storno della clientela gestita in corso di rapporto per conto dell’ex datrice di lavoro) che della estensione territoriale del vincolo assunto dal lavoratore (nel caso di specie, l’obbligo era esteso alla Regione di ultima assegnazione del lavoratore e alle province fuori regione rientranti nel raggio di 250 km dalla sede di lavoro).
In particolare, secondo la Corte d’Appello di Firenze è perfettamente ragionevole l’estensione dell’obbligo di non concorrenza alla clientela seguita per conto del datore di lavoro, “proprio in quanto diretta specificamente in primis a tutelare il patrimonio immateriale dell’azienda nella sua consistenza attuale”. Se infatti “l’interesse perseguito dal datore di lavoro (e tutelato dall’ordinamento nei limiti già detti) nella conclusione di accordi del genere è quello di evitare di perdere quote di mercato in conseguenza dell’impiego della professionalità del lavoratore in favore di concorrenti, è di una certa evidenza che il primo rischio che simili patti intendono fronteggiare sia quello di perdere clienti già acquisiti e che un tale rischio sia ragionevolmente più grave in relazione alla clientela già affidata al lavoratore”.
E, d’altro canto, il lavoratore avrebbe potuto lavorare in qualunque attività bancaria diversa dall’intermediazione finanziaria su tutto il territorio nazionale e svolgere attività di intermediazione finanziaria fuori dalla regione di ultima assegnazione, seppure con clienti diversi da quelli da lui curati alle dipendenze della Banca di provenienza. È dunque fatta salva l’esigenza di assicurare al lavoratore un margine di attività idoneo a procurargli un guadagno adeguato alle esigenze di vita proprie e della famiglia.
4. La congruità del corrispettivo
La sentenza in commento, dunque, sulla base di una valutazione complessiva del patto ha concluso che è valido il patto di non concorrenza che vieta per 12 mesi l’attività di private banker in una regione e lo storno dei clienti, a fronte di un corrispettivo annuo pari al 10% della R.A.L.
5. La presunta 'minaccia' al fine della sottoscrizione del patto di non concorrenza
La Corte d’Appello ha, quindi, disatteso l’eccezione di annullabilità per violenza del patto di non concorrenza sottoscritto dal lavoratore a fronte della prospettazione di un cambio di mansioni in caso di mancata sottoscrizione del medesimo, sulla base del rilievo che la (eventuale) rimozione dal ruolo di private banker del dipendente che rifiuti di sottoscrivere un patto di non concorrenza “non sarebbe stato un fatto ingiusto, bensì l’esercizio, astrattamente legittimo (che è quanto rileva giacché nessun provvedimento fu di fatto preso dalla banca) dello jus variandi a fronte del diniego, ex se pure legittimo, della controparte di sottoscrivere una pattuizione dal datore ritenuta essenziale per lo svolgimento di talune specifiche mansioni, in considerazione del suo proprio interesse a evitare sviamenti di clientela successivi alla cessazione del rapporto”.
E allora, la prospettazione di un cambio di ruolo non appare “esorbitante ed iniqua” – in ossequio ai principi desumibili dall’art. 1438 c.c. (minaccia di far valere un diritto) - rispetto all’oggetto dello jus variandi di cui si è minacciato l’esercizio (e, ovviamente, nei limiti di cui all’art. 2103 c.c.), essendo la correlazione tra le mansioni di private banker e la sottoscrizione di un patto di non concorrenza giustificata dall’esigenza della banca di tutelare il mantenimento del portafoglio clienti, bene primario dell’attività di intermediazione finanziaria. La sentenza, accertata la violazione del patto di non concorrenza, ha confermato la condanna del consulente finanziario alla corresponsione della penale pattuita, di cui ha escluso l’eccessività, atteso che “l’interesse della banca all’adempimento del patto, al momento della sua sottoscrizione come pure all’atto della cessazione del rapporto … (era) più che rilevante”.