La disciplina normativa
E’ noto che la L. n. 92/2012 ha modificato l’art. 18 della L. n. 300/1970 introducendo quattro distinti regimi di tutela, ciascuno destinato a trovare applicazione in diverse ipotesi di illegittimità dell’atto di recesso datoriale. Più in particolare, e soffermandosi su quelli che maggiormente rilevano ai fini della riflessione sull’ordinanza qui commentata, nel caso di un licenziamento disciplinare per cui sia stata accertata la non ricorrenza della causale di licenziamento addotta dal datore di lavoro a fondamento del medesimo, è previsto che il giudice dichiari risolto il rapporto di lavoro e condanni il datore di lavoro a corrispondere al lavoratore un’indennità risarcitoria ricompresa tra le 12 e le 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Ove tuttavia, oltre alla non ricorrenza della causale di recesso perché la gravità dell’addebito non è tale da integrare la nozione legale di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, il giudice accerti l’insussistenza del fatto contestato o la riconducibilità di esso alle “condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”, allora dovrà essere disposta la reintegrazione nel posto di lavoro con un risarcimento del danno che, nell’ammontare massimo, non potrà essere superiore a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Le soluzioni offerte dalla giurisprudenza di legittimità.
L’ordinanza qui annotata (che rimette la causa alla sezione semplice avendo evidentemente ritenuto insussistenti le ipotesi contemplate dall’art. 375, 1° co. n. 1 e 5 c.p.c. per decidere in camera di consiglio)ripercorre analiticamente gli orientamenti espressi dalla Suprema Corte, fin dal 2015, con riferimento all’ipotesi in cui la reintegrazione sia stata disposta dal giudice perché il fatto contestato al lavoratore, la cui gravità non è tale da poter essere qualificato in termini di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, rientra tra le condotte punibili dal contratto collettivo con una sanzione di tipo conservativo.
Più nel dettaglio, le pronunce su cui la Suprema Corte si sofferma sono quelle relative alle ipotesi in cui la fattispecie disciplinare contestata dal lavoratore è sì punita dal contratto collettivo con una sanzione conservativa, ma è descritta ed individuata facendo ricorso a “nozioni elastiche” o norme di chiusura, quali sono, solo per fare qualche esempio, quelle che descrivono gli addebiti come l’“insubordinazione” o la “negligente esecuzione del rapporto”. Si tratta di addebiti disciplinari che sono ex se espressione di concetti indeterminati, o comunque dai contorni non esattamente definiti e che dunque pongono all’interprete il problema di stabilire quando la fattispecie concreta contestata al lavoratore possa dirsi effettivamente integrata.
In tali casi, afferma la Corte di Cassazione, ad un iniziale orientamento che ha ritenuto che in presenza di fattispecie disciplinari descritte mediante “nozioni elastiche” sia compito del giudice di merito compiere un’attività di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta, ne è seguito un altro, di segno opposto, che, a partire da Cass. n. 12365/2019, ha invece ritenuto che “solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamnete contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con una sanzione conservativa, il licenziamento sarà non solo illegittimo ma anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dal comma 4 dell’art. 18 novellato. Coerentemente non può dirsi consentito al giudice, in presenza di una condotta accertata che non rientri in una di quelle descritte dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari punibili con una sanzione conservativa, applicare la tutela reintegratoria operando una estensione non consentita, per le ragioni suesposte, al caso non previsto sul presupposto del ritenuto pari disvalore disciplinare”. Secondo tale orientamento, il ricorso da parte del giudice di merito ad un’interpretazione della clausola elastica che ne allarghi i contorni oltre i casi espressamente contemplati, “sarebbe contraria alla ratio della nuova disciplina in cui la tutela reintegratoria presuppone l’abuso consapevole del potere disciplinare, che implica una sicura e chiaramente intellegibile conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoro, della illegittimità del provvedimento espulsivo derivante o dalla insussistenza del fatto contestato oppure della chiara riconducibilità del comportamento contestato nell’ambito della previsione della norma collettiva fra le fattispecie ritenute dalla parti sociali inidonee a giustificare l’espulsione”. Al fine di stabilire se il licenziamento non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo soggettivo debba esser sanzionato con il rimedio reintegratorio o con quello indennitario, sarebbe pertanto preclusa al giudice una valutazione comparativa tra il disvalore disciplinare dell’addebito contestato con quello di altre fattispecie del contratto collettivo, le quali tuttavia, a differenza del primo, sono espressamente tipizzate dal CCNL come addebiti da sanzionare con misure disciplinari di tipo conservativo. Ciò perché non sarebbe consentito al giudice avvalersi del principio di proporzionalità per determinare, in sostituzione delle parti collettive, un assetto pattizio che sia espressione di maggiore ragionevolezza, in quanto “il rischio di una disparità di trattamento in tema di tutela applicabile, connessa alla tipizzazione o meno operata dalle parti collettive delle condotte di rilievo disciplinare, costituisce…espressione di una libera scelta del legislatore, fondata sulla valorizzazione e il rispetto dell’autonomia collettiva in materia” (in questi termini Cass. n. 13533/2019).
In sintesi, l’orientamento giurisprudenziale che fino alla pronuncia in commento si stava consolidando era quello in base al quale, ai fini dell’applicabilità del rimedio reintegratorio, era necessario che il fatto contestato fosse stato preventivamente ed espressamente tipizzato dal contratto collettivo applicato al rapporto, a tal punto che per i contratti collettivi che contengono clausole generali e dunque privi di tipizzazioni si è giunti ad escludere in radice l’operatività del rimedio reintegratorio di cui all’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970.
Nel premettere innanzi tutto che, a parere di chi scrive, nell’ambito della pronuncia che qui si commenta la Suprema Corte sembrerebbe aver utilizzato il termine “clausole generali” per far in realtà riferimento alle “norme o clausole elastiche”[1], il Collegio muove dalla necessità di “chiarire se in presenza di fattispecie punite con misure conservative e descritte attraverso clausole generali, l’attività compiuta dal giudice abbia ad oggetto l’interpretazione della fonte negoziale e la sussumibilità del fatto contestato nella disposizione contrattuale oppure implichi o si esaurisca in una valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto all’addebito mosso”.
Ed a questo riguardo la Corte rileva che l’orientamento che richiede che il rimedio reintegratorio possa trovare applicazione solo nei casi in cui l’addebito contestato sia stato previamente tipizzato presenti profili di irragionevolezza, dato che “le fattispecie punitive contemplate dai contratti collettivi non sono definite secondo una rigorosa applicazione del principio di tassatività, ma hanno in prevalenza carattere indeterminato, in relazione alla indeterminatezza degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà del dipendente, alla cui violazione è connesso l’esercizio del potere disciplinare”. In linea con quanto sopra, viene rilevato dalla Corte che nell’ambito del potere disciplinare del datore di lavoro il principio di tassatività degli illeciti non può essere inteso in senso rigoroso, analogamente a quanto prevede l’art. 25 della Costituzione per gli illeciti di carattere penale. Poiché per la contrattazione collettiva è concretamente impossibile tipizzare tutte le condotte disciplinari di cui un lavoratore si potrebbe rendere responsabile, “non appare rispondente ad un criterio di ragionevolezza attribuire alla tipizzazione, ad opera dei contratti collettivi, delle condotte punibili con sanzione conservativa il ruolo di discrimine per la selezione, in ipotesi di illegittimità del licenziamento, tra la tutela reintegratoria e quella indennitaria”.
La tipizzazione degli illeciti disciplinari di cui frequentemente si rinviene traccia nei contratti collettivi, afferma la Corte, non è rigorosamente correlata alla diversa gravità degli illeciti ivi menzionati, non solo perché – frequentemente – essa non è stata concepita dalle parti sociali in vista del ruolo di discrimine tra tutela reintegratoria ed indennitaria che, a partire dal 2012, essa ha incominciato a svolgere, ma anche perché “non è realizzata secondo un criterio idoneo a dare ragione del fatto che solo alcuni illeciti disciplinari, e non altri, meritino la tutela reintegratoria”, con il corollario, definito appunto “irragionevole”, “di far ricadere sui lavoratori le lacune e la approssimazione della disciplina contrattuale collettiva”. Ancorare l’operatività del rimedio reintegratorio alla tipizzazione dello specifico illecito disciplinare contestato al lavoratore, afferma la Corte, realizza un’irrazionale disparità di trattamento tra casi di licenziamento fondati su illeciti disciplinari non gravi, tipizzati dal contratto collettivo, e licenziamenti fondati su altri illeciti disciplinari, di pari o minore gravità rispetto ai primi, che però, non essendo tipizzati dal CCNL applicato al rapporto, danno luogo esclusivamente all’applicazione del rimedio indennitario.
Verso una rimeditazione del contenuto precettivo dell’art. 18, co. 4° e 5°?
Sono proprio le considerazioni qui sintetizzate che inducono la Corte, chiamata a pronunciarsi sulla vicenda nell’ambito del procedimento in camera di consiglio previsto dall’art. 380 – bis c.p.c. (e, dunque, all’interno della sezione VI – Lavoro), a ritenere insussistenti i presupposti per la decisione con quella modalità ed a rimettere la causa alla sezione Lavoro ordinaria.
A questo punto, occorrerà attendere la pronuncia di quest’ultima, per verificare se le perplessità, sollevate dall’ordinanza che qui si è segnalata circa l’orientamento che si stava consolidando nella giurisprudenza di legittimità, si trasformeranno in un overruling del medesimo.
[1] Esempi di c.d. clausole generali sono la correttezza e la buona fede nell’esecuzione del contratto: esse contengono enunciazioni di criteri di valutazione “del comportamento delle parti” che vanno integrate in sede di interpretazione valutativa, conformandosi sia ai principi dell’ordinamento sia ad una serie di standards valutativi esistenti nella realtà sociale che unitamente a detti principi costituiscono “il diritto vivente”.
Esempi di norme o clausole elastiche sono la giusta causa ed il giustificato motivo di risoluzione del contratto, ovvero la proporzionalità della sanzione), che sono propriamente, invece, “norme complete (…) che contengono formulazioni idonee ad identificare non una precisa fattispecie ma una ipotesi-tipo, un modulo generico da applicare alla singola fattispecie concreta in via interpretativa”; così. Adalberto Perulli, Il controllo giudiziale dei poteri dell’imprenditore tra evoluzione legislativa e diritto vivente, RIDL, 2015, I, pag. 83 ss.