“Mi piace”, “condivi”, “commenta”.
Quando, nel lontano 4 novembre 1950, i Paesi membri del Consiglio d’Europa firmarono la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali non potevano certo immaginare che la libertà di espressione, enunciata nell’art. 10, sarebbe stata abbinata anche a tali espressioni, ed azioni, in un mondo virtuale che è per noi ora ben più che familiare.
Eppure, questo è quanto ha affermato recentemente la Corte Europea dei diritti dell’uomo (CEDU, 15 giugno 2021) la quale, nell’affrontare un caso di licenziamento intimato per alcuni “like”, ha evidenziato, nella sostanza, quale sia la portata della libertà di espressione nell’epoca dei social network.
Una lavoratrice, dipendente del Ministero dell’istruzione della Turchia, con mansioni di addetta al servizio di pulizia, aveva messo un “like” ad un post su facebook che aveva criticato le scelte dell’autorità pubblica e, per questo motivo, era stata licenziata. Dopo aver tentato tutti i rimedi interni di impugnazione del licenziamento, reputato legittimo dai giudici nazionali, la lavoratrice si è rivolta alla Corte di Strasburgo al fine di rivendicare il proprio diritto di espressione.
Si tratta di una decisione senz’altro interessante, alla luce, in particolare, dell’attualità della questione affrontata.
La libertà di espressione, come si è anticipato, è tutelata dall’art. 10 della Convenzione[1] e, secondo la Corte, la sua protezione si estende alla sfera professionale in generale e si applica anche alle relazioni tra soggetti privati. In effetti, il reale ed effettivo esercizio della libertà di espressione non dipende solamente dal dovere dello Stato di astenersi da ogni ingerenza, ma può esigere misure positive di protezione all’interno dei rapporti e, in alcuni casi, lo Stato ha altresì l’obbligo ‘positivo’ di tutelare il diritto alla libertà di espressione, anche di fronte ad attacchi di privati.
Nella decisione in commento, la Corte ha esaminato la vicenda prendendo le mosse proprio dagli obblighi positivi posti a carico dello Stato, alla luce dell’art. 10 della Convenzione.
In particolare, secondo la Corte, la questione principale posta nel caso di specie è se lo Stato fosse tenuto a garantire il rispetto della libertà di espressione della lavoratrice ricorrente, annullando il licenziamento. Da qui la valutazione della proporzionalità, o meno, della sanzione.
Di particolare interesse è la premessa in fatto svolta dalla Corte: nella decisione viene precisato che, nella fattispecie concreta, la lavoratrice era stata licenziata per aver premuto il pulsante ‘mi piace’ su alcuni contenuti pubblicati da terze parti sul sito web del social network Facebook. Secondo la Corte, l’utilizzo delle parole ‘mi piace’ sui social network, che può essere considerato un mezzo per mostrare il proprio interesse o la propria approvazione ad un contenuto, costituisce “una forma corrente e popolare di esercizio della libertà di espressione on line”.
Ciò posto, secondo la valutazione della Corte, i giudici nazionali non avrebbero svolto un esame sufficientemente approfondito del contenuto dei post controversi né del contesto in cui questi si inserivano. Si trattava, in particolare, di post contenenti aspre critiche politiche delle presunte pratiche repressive delle autorità, appelli a manifestare e protestare, denunce di presunti abusi degli alunni che avrebbero avuto luogo negli stabilimenti posti sotto il controllo delle autorità nonché una reazione aspra a una dichiarazione, giudicata sessista, di una personalità religiosa nota al pubblico.
Sulla premessa secondo la quale tali contenuti posti alla base della sanzione espulsiva erano stati pubblicati su facebook, la Corte ha rammentato quanto aveva avuto già modo di affermare in relazione ai social network nell’ambito di precedenti decisioni.
In particolare, secondo la Corte di Strasburgo, la possibilità di esprimersi su internet deve essere vista come uno strumento senza precedenti di esercizio della libertà di espressione (Delfi AS c. Estonia [GC], n. 64569/09, §§ 110 e 133, CEDU 2015).
In effetti, grazie alle loro accessibilità e capacità di conservare e diffondere grandi quantità di dati, i siti internet contribuiscono notevolmente a facilitare la comunicazione dell'informazione, tanto che internet è oggi diventato uno dei principali mezzi di esercizio della libertà di espressione.
La Corte, pur dando atto dell’esistenza dei rischi che accompagnano i vantaggi di questo mezzo di comunicazione (si pensi alle dichiarazioni illecite o diffamatorie, a quelle che incitano all'odio o alla violenza e che possono essere diffuse in pochi secondi), ha evidenziato che una dichiarazione pubblicata on line per un piccolo numero di lettori non potrebbe certamente avere la stessa portata e le stesse conseguenze di una dichiarazione pubblicata su siti molto visitati.
Applicando tali principi al caso di specie, la Corte ha – coerentemente - rilevato che la ricorrente in questione non aveva “creato” i contenuti controversi, ma si era limitata a cliccare sul tasto “like” (il nostro “mi piace”).
È stata poi reputata rilevante la circostanza secondo la quale, in virtù del ruolo lavorativo ricoperto, la ricorrente potesse disporre di una notorietà e di una rappresentatività limitata sul luogo di lavoro e che le sue attività su Facebook non potevano avere un impatto significativo sugli studenti, sui genitori, sugli insegnanti o su altri dipendenti.
In sintesi, secondo la Corte, i giudici nazionali non avrebbero tenuto conto di tutte le circostanze al fine di concludere nel senso della idoneità dell’atto a “perturbare la pace e la tranquillità del luogo di lavoro dell'interessata”.
La conclusione alla quale è pervenuta la Corte – all’unanimità - è allora severa: in mancanza di motivi pertinenti e sufficienti a giustificare il licenziamento, i giudici non avrebbero applicato norme conformi all’art. 10 della Convenzione e, in ogni caso, nella vicenda di specie, non sussisterebbe un rapporto di “proporzionalità ragionevole” tra l’ingerenza nell’esercizio del diritto della lavoratrice alla libertà di espressione e lo scopo legittimo perseguito dalle autorità nazionali.
In un’epoca in cui le opinioni vengono condivise (quasi esclusivamente) sui social network, la libertà di espressione (anche) dei lavoratori richiede una rinnovata tutela.
Perché, come diceva il filosofo Spinoza, “il diritto di pensare e di esprimersi liberamente non è trasferibile, né può essere soppresso dal potere politico (…) Qualsiasi Stato che non riconosce la libertà di pensiero e di espressione è destinato all’instabilità” (B. Spinoza, La libertà di pensiero e di espressione, GoWare, Collana di Filosofia 2017, p. 35).
[1] Articolo 10 – Libertà di espressione “1. Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive.2. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”.