La l. n. 104/1992, come recita espressamente il suo art. 2, detta i principi dell’ordinamento in materia di diritti, integrazione sociale e assistenza della persona ‘handicappata’.
Si tratta, nella sostanza, di una serie di norme che hanno quale finalità, tra le altre (cfr. art. 1), quella di garantire il pieno rispetto della dignità umana e di diritti di libertà e di autonomia della persona disabile, promuovendone la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società.
In quest’ottica, è evidente l’importanza che il soggetto invalido possa essere assistito da un parente o affine.
In particolare, l’art. 33 della l. n. 104/1992 sopra citata, oltre a prevedere i permessi disciplinati ai commi 3 - 4, dispone che il lavoratore che assiste una persona invalida, “ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede”.
Ma si tratta di un diritto assoluto?
In realtà, la giurisprudenza di legittimità ha interpretato l’inciso della norma ‘ove possibile’ quale necessario bilanciamento degli interessi in conflitto: da un lato, vi è, infatti, l’interesse al trasferimento del dipendente, dall’altro quello economico – organizzativo del datore di lavoro.
A questo riguardo, la Corte di Cassazione ha più volte ribadito che il diritto di scelta della sede più vicina al domicilio della persona invalida da assistere non è un diritto soggettivo assoluto ed illimitato, ma è assoggettato al potere organizzativo del datore che, in base alle proprie esigenze organizzative, potrà rendere il posto disponibile tramite un provvedimento di copertura del posto vacante.
L’esercizio del diritto in commento non può ledere le esigenze economiche, produttive od organizzative del datore di lavoro e, soprattutto nei casi di rapporto di lavoro pubblico, non può tradursi in un danno per l’interesse della collettività (Cass., Sez. Un., n. 7945 del 2008).
Tali principi sono stati ribaditi anche recentemente dalla Suprema Corte (ordinanza n. 22885/2021 pubblicata il 13 agosto 2021).
Nel caso affrontato dalla Corte, il ricorso era stato presentato da una dipendente del Ministero della Giustizia, in servizio presso l’Ufficio del Giudice di Pace di Torino, alla quale era stato negato il trasferimento presso gli Uffici Giudiziari di Catania, chiesto per poter assistere la madre portatrice di handicap grave al 100%.
Secondo la Suprema Corte, la Corte territoriale aveva correttamente applicato i suddetti principi, avendo affermato che il diritto al trasferimento ai sensi dell’art. 33, co. 5 l. 104/92 sussiste ove ricorra il requisito della ‘vacanza’ del posto e ove il posto sia anche reso ‘disponibile’ dalla decisione organizzativa della P.A. di coprire il posto vacante.
In effetti, nel solco di quanto si è sopra accennato, nell’ambito dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche, il diritto al trasferimento non potrebbe assumere quale esclusivo presupposto la vacanza del posto al quale il lavoratore richiedente aspira.
L’adeguato bilanciamento degli interessi in conflitto richiesto dalla norma ha come effetto che, in caso di trasferimento, l’esigenza familiare è considerata recessiva rispetto a quella di servizio (si è espressa in questo senso Cass. 14 maggio 2018, n. 11651), essendo necessario, per esempio, per scongiurare un danno per la collettività, garantire la copertura e la continuità del servizio stesso.
Va da sé che un trasferimento in posizione soprannumeraria sarebbe inammissibile, dovendo sussistere, innanzitutto, la vacanza del posto nella sede in cui il lavoratore aspira ad essere trasferito, che costituisce, dunque, condizione necessaria, ma non sufficiente.
La Corte ha poi evidenziato che il presupposto della ‘vacanza’ esprimerebbe una mera potenzialità, che diviene attualità soltanto con la decisione organizzativa della Pubblica Amministrazione la quale, infatti, deve esprimere l’interesse, concreto ed attuale, di procedere alla sua copertura.
Del resto, le determinazioni dell’Amministrazione devono sempre rispettare i principi costituzionali d’imparzialità e di buon andamento, dovendo rispondere a finalità ed esigenze che prescindono dall’interesse dell’aspirante e che, invece, vanno commisurate anche all’interesse alla corretta gestione della finanza pubblica.
Nel caso concreto esaminato dalla Corte di Cassazione nella pronuncia sopra citata, presso gli uffici giudiziari richiesti dalla ricorrente a Catania non vi erano posti ‘disponibili’.
Il ricorso della lavoratrice è stato così rigettato.