Atteggiamenti ostruzionistici del lavoratore: mera insubordinazione o giusta causa di licenziamento?

Il lavoratore che pone in essere un atteggiamento volutamente ostruzionistico, costituente una grave negazione del vincolo fiduciario, può essere legittimamente licenziato.

Lo ha confermato in una recente pronuncia (ordinanza 4 luglio 2024, n. 18296) la Corte di Cassazione. In tale occasione, la Suprema Corte ha rammentato quali siano i contorni dei concetti di insubordinazione e di giusta causa elaborati dalla giurisprudenza di legittimità.

Si legge, infatti, nell’ordinanza che la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, dovendo ricomprendere qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento delle suddette disposizioni nel quadro dell’organizzazione aziendale.

La giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c., invece, deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, di quello della fiducia che deve necessariamente sussistere fra le parti. Questo – precisa la Cassazione - va stabilito con riferimento “non al fatto astrattamente in sé considerato, bensì agli aspetti concreti di esso, afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva del fatto stesso, cioè alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi ed all'intensità dell'elemento intenzionale o di quello colposo, in quanto, trattandosi della più grave delle sanzioni applicabili al lavoratore, ad essa può procedersi solo quando, attraverso una attenta considerazione di tutte le circostanze del caso concreto, qualsiasi altra sanzione risulti insufficiente a tutelare l'interesse dell'azienda, rispetto al comportamento del lavoratore medesimo”.

Va comunque precisato – seguendo il ragionamento della Corte – che la previsione, in sede di contrattazione collettiva, di specifiche inadempienze del lavoratore subordinato come giusta causa di licenziamento, non esime il giudice dalla necessità di accertare, anche d’ufficio, in concreto la reale gravità del comportamento del lavoratore, in relazione al disposto dell’art. 2119 c.c., che impone di valutare se tale comportamento appaia idoneo a ledere gravemente e irrimediabilmente la fiducia che il datore di lavoro deve riporre nel proprio dipendente.

Nel caso di specie, secondo la Cassazione, il comportamento del lavoratore, dipendente con mansioni di autista addetto al conferimento dei rifiuti con mezzi di grossa portata, non poteva essere considerato alla stregua di una semplice insubordinazione diretta a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento delle disposizioni dei superiori. Si tratterebbe, piuttosto, a dire della Corte, di un grave e consapevole inadempimento dei compiti assegnati, “caratterizzato da un comportamento ostruzionistico del lavoratore al momento della commissione del fatto e successivamente tentato di giustificare con problematiche di salute non idoneamentedimostrate, il tutto nell'assolvimento di funzioni particolarmente delicate per l'attività svolta dall'impresa datrice di lavoro, esposta peraltro a violazioni civili ed amministrative in tema di tracciabilità e di conferimento di un ingente carico di rifiuti”.

Il Collegio ha così affermato che, nella vicenda esaminata, sarebbe individuabile, sotto il profilo soggettivo, un comportamento articolato e complesso, di natura commissiva ed omissiva, che non potrebbe inquadrarsi nel mero rifiuto ad adempiere alle direttive dell’impresa, bensì “in un atteggiamento volutamente ostruzionistico, non ragionevole e non disponibile, potenzialmente foriero di conseguenze pregiudizievoli e pericolose per la salute pubblica: in quanto tale, costituente senza dubbio una grave negazione del vincolo fiduciario”.

La pronuncia in esame va segnalata anche nella parte in cui ha accolto il ricorso incidentale mediante il quale la Società aveva lamentato che la Corte d’appello avesse compensato le spese processuali nonostante l’esito integralmente favorevole per la stessa.

La Cassazione, nel ritenere condivisibili le argomentazioni di Cass. n. 6424/2024, ha sottolineato che la Società, all’esito del giudizio di appello, era risultata totalmente vittoriosa e che i giudici di seconde cure avevano ritenuto di dovere compensare integralmente le spese di giudizio ritenendo che costituissero ‘ragioni sufficienti’ l’esito complessivo del giudizio ed il netto contrasto tra le valutazioni compiute in primo e secondo grado.

Tuttavia – rammenta la Corte - la compensazione delle spese (oltre che per soccombenza reciproca) è prevista, in virtù di quanto disposto dall’art. 92 c.p.c., solo ‘nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti’, ovvero in presenza di ‘analoghe’ gravi ed eccezionali ragioni. Queste altre gravi ed eccezionali ragioni sarebbero da ravvisare, secondo la Corte, “nelle ipotesi di sopravvenienze relative a tali questioni” (cioè, quelle trattate in giudizio) “di assoluta incertezza che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità delle situazioni tipiche espressamente previste dall'art. 92, comma 2, cod. proc. civ.” A tali ipotesi, però, non sono in alcun modo riconducibili – secondo la Corte – l’esito complessivo del giudizio, né il contrasto netto tra le valutazioni compiute in primo grado e secondo grado.

Il ricorso principale del lavoratore è stato così rigettato. In accoglimento di quello incidentale, la sentenza è stata cassata con rinvio alla Corte territoriale, in diversa composizione.

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Maria Santina Panarella
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