Con l’ordinanza del 07/03/2023 n. 6838 la Corte di Cassazione torna a ribadire principi importanti in materia di onere della prova nel caso di licenziamento motivato dall’intento ritorsivo del datore di lavoro.

1. - I fatti oggetto di causa

Nell’ambito di un procedimento instaurato ai sensi della L. 92/2012, una lavoratrice, dipendente dell’Associazione Albergatori di V., aveva impugnato il proprio licenziamento ritenendolo ritorsivo e non sorretto da giusta causa.

Ritenendo fondato il ricorso, il Tribunale di Savona, accertata la nullità del licenziamento, ordinava all’Associazione la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro.

La Corte di Appello di Genova confermava la pronuncia di primo grado, ritenendo non sorretto da giustificato motivo oggettivo il licenziamento intimato e che la scelta di licenziare la lavoratrice era da "interpretarsi come una reazione al suo rifiuto di rinunciare al superminimo".

Qualificato il recesso come animato da intento ritorsivo, la Corte d’appello al fine di ordinare la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro, ribadiva il principio per cui “la tutela reale si applica anche alle cd. organizzazioni di tendenza nel caso di licenziamenti nulli "in quanto discriminatori o determinati da motivo di ritorsione o rappresaglia” (stabilito da Cass. 19695 del 2016).

Contro la sentenza di secondo grado, l’Associazione proponeva ricorso per cassazione affidato a vari motivi.

2. – I motivi di ricorso per cassazione

La ricorrente ha censurato la sentenza d’appello denunciando il mancato riconoscimento della natura di ‘organizzazione di tendenza’ e la conseguente applicazione della tutela reale per la nullità del licenziamento.

Tra gli altri motivi, la sentenza veniva impugnata per violazione delle regole in materia di onere di specifica contestazione delle allegazioni avversarie, nonché quelle in materia di onere e valutazione della prova.

La sentenza veniva altresì criticata per l'erronea applicazione delle norme che individuano i requisiti della prova presuntiva e la sua valutazione giudiziale in relazione all'affermazione della natura ritorsiva del licenziamento.

3. – La decisione della Cassazione

La Cassazione nella sentenza in commento ha ricordato che in forza di un orientamento consolidato[1] per accogliere la domanda di accertamento della nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito “occorre che l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (Cass. n. 14816 del 2005; Cass. n. 3986 del 2015; Cass. n. 9468 del 2019), dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento (Cass. n. 5555 del 2011)”.

In altre parole, la domanda di nullità di un licenziamento ritorsivo può essere accolta dimostrando che l’intento ritorsivo abbia determinato in via esclusiva la volontà del datore di recedere dal rapporto di lavoro. E ciò anche alla presenza di altri fatti rilevanti che avrebbero di per sé potuto rilevare quale giusta causa o giustificato motivo di licenziamento.

È il lavoratore che deve dimostrare, in base alla regola generale posta dall'art. 2697 c.c., la prevalenza dell’intento ritorsivo, non operando l'art. 5 della l. n. 604 del 1966.

Tale onere può essere assolto dal lavoratore anche mediante presunzioni (Cass. n. 20742 del 2018; Cass. n. 18283 del 2010), potendo il giudice del merito “valorizzare a tal fine tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo di recesso, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso (Cass. n. 23583 del 2019)”.

In ogni caso, la Corte, ricordato che l'allegazione del carattere ritorsivo del licenziamento da parte del lavoratore non esonera il datore di lavoro dall'onere di provare, ai sensi dell'art. 5 della l. n. 604 del 1966, l'esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso, ha precisato che “ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita, incombe sul lavoratore l'onere di dimostrare l'intento ritorsivo e, dunque, l'illiceità del motivo unico e determinante del recesso (Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 27325 del 2017; Cass. n. 26035 del 2018)”.

Nel caso di specie, la situazione di crisi (con conseguente necessità di ridurre i costi del personale) dedotta dall’Associazione a fondamento del recesso non è stata provata dalla datrice di lavoro, sulla quale ricadeva il relativo onere.

L'andamento economico negativo dell'azienda, continua la Corte, non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro deve necessariamente provare, "ove, però, il recesso sia motivato dall'esigenza di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli o a spese di carattere straordinario, ed in giudizio se ne accerti, in concreto, l'inesistenza, il licenziamento risulterà ingiustificato per la mancanza di veridicità e la pretestuosità della causale addotta"; invero, resta "saldo il controllo sulla effettività e non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall'imprenditore a giustificazione del recesso", ovviamente affidato al prudente apprezzamento del giudice del merito”.

Pertanto, una volta esplicitata la ragione organizzativa o produttiva posta a giustificazione causale della risoluzione del rapporto, anche ove il licenziamento sia motivato dall'esistenza di una crisi aziendale o di un calo del fatturato, ed in giudizio si accerta invece che la ragione indicata non sussiste, “il recesso può essere dichiarato illegittimo dal giudice del merito non per un sindacato su di un presupposto in astratto estraneo alla fattispecie del giustificato motivo oggettivo, bensì per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità o sulla pretestuosità della ragione addotta dall'imprenditore; ovverosia l'inesistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento così come giudizialmente verificata rende in concreto il recesso privo di effettiva giustificazione (cfr. Cass. n. 25201 del 2016 e Cass. n. 10699 del 2017)”.

Una volta acclarata l'insussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, la Corte d’appello ha ritenuto che non concorresse, nella determinazione del licenziamento, un motivo lecito ed ha considerato provata la natura ritorsiva del recesso sulla scorta di una serie di elementi che, costituendo un accertamento di fatto, non potevano essere riesaminati in sede di legittimità.

Infine, in relazione alla questione dell’applicabilità alle organizzazioni di tendenza della tutela reale, la Corte ha ribadito il principio secondo cui “la norma della L. n. 108 del 1990, art. 3, sull'estensione ai licenziamenti nulli in quanto discriminatori di cui alla L. n. 604 del 1966 e alla L. n. 300 del 1970, art. 15, delle conseguenze sanzionatorie previste dalla medesima L. n. 300 del 1970, art. 18, a prescindere dal numero dei dipendenti ed anche a favore dei dirigenti, deve intendersi applicabile in genere ai licenziamenti nulli per illiceità del motivo e, in particolare, a quelli che siano determinati in maniera esclusiva da motivo di ritorsione o rappresaglia" (in termini: Cass. n. 5635 del 2006, che cita, in motivazione, Cass. n. 4543 del 1999, Cass. n. 14982 del 2000, n. 3837 del 1997); tale principio più di recente è stato ribadito da Cass. n. 19695 del 2016, esplicitamente richiamata dalla Corte territoriale, secondo cui: "In tema di licenziamento, l'art. 4 della l. n. 108 del 1990, nel riconoscere alle cd. organizzazioni di tendenza il privilegio dell'inapplicabilità dell'art. 18 st.lav., fa salva l'ipotesi regolata dall'art. 3 sull'estensione della tutela reale ai licenziamenti nulli in quanto discriminatori o determinati da motivo di ritorsione o rappresaglia, sicché, in tale evenienza, va ordinata, anche nei confronti di dette associazioni, la reintegra del lavoratore (nella specie, avente la carica di dirigente sindacale), restando privo di rilievo il livello occupazionale dell'ente e la categoria di appartenenza del dipendente" (v. anche, in motivazione, Cass. n. 17999 del 2019); stante l'applicazione di detto principio di diritto, risulta del tutto irrilevante l'accertamento o meno della qualità di organizzazione di tendenza nell'Associazione ricorrente”.

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[1] Tra le più recenti v. Cass. n. 26399 del 2022; Cass. n. 26395 del 2022; Cass. n. 21465 del 2022.

Nella sentenza del 15 novembre 2022 il Tribunale di Torino, ricostruite nel dettaglio le modalità di svolgimento delle prestazioni del rider, ha accertato, con riferimento al rapporto di lavoro instaurato da quest’ultimo con la società di food delivery, i caratteri propri della subordinazione.

Al fine di individuare il confine tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, il Tribunale ha richiamato il consolidato orientamento della Corte di Cassazione secondo cui “l'elemento essenziale di differenziazione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato consiste nel vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, da ricercare in base ad un accertamento esclusivamente compiuto sulle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. In particolare, mentre la subordinazione implica l'inserimento del lavoratore nella organizzazione imprenditoriale del datore di lavoro mediante la messa a disposizione, in suo favore, delle proprie energie lavorative (operae) ed il contestuale assoggettamento al potere direttivo di costui, nel lavoro autonomo l'oggetto della prestazione è costituito dal risultato dell'attività (opus)” (v. Cass. n. 23324/2021).

Nella sentenza in commento è stata accertata la messa a disposizione da parte del rider delle proprie energie in favore dell’organizzazione imprenditoriale della società di food delivery e l’esercizio da parte di quest’ultima dei tre poteri caratterizzanti la subordinazione: potere direttivo, potere di controllo e potere disciplinare.

In relazione al potere direttivo, il Tribunale ha accertato la mancanza di autonomia del rider in relazione alla scelta del se e quando lavorare.

Invero, i rider sono risultati essere assoggettati nello svolgimento dell’attività lavorativa a puntuali indicazioni sotto ogni profilo. Tali indicazioni, per il Tribunale, “rendono il lavoro di ciascuno di essi completamente standardizzato, identico a quello degli altri e, come tale, del tutto fungibile. Pertanto è esclusa ogni autonomia al riguardo”.

La fase di affidamento della consegna è assoggettata a precise direttive. La stessa può avvenire solo utilizzando l’app scaricata sul cellulare, occorre trovarsi nella zona di consegna ed avere la batteria del cellulare carica almeno al 20%.

La scelta dell’ordine da consegnare viene fatta esclusivamente dall’algoritmo senza alcuna facoltà di scelta da parte del rider.

Anche per la fase esecutiva della consegna vi sono precise indicazioni da seguire sempre stabilite dall’app il cui utilizzo anche per tale fase risulta obbligatorio.

Lo stesso percorso da seguire per raggiungere il punto di ritiro e poi quello di consegna è stabilito dall’app. Il compenso, per la parte parametrata in km percorsi, viene calcolato in base al percorso suggerito dall’app.

Il mancato rispetto delle predette direttive impedisce di procedere nella sequenza presente sull’app stessa e, dunque, di formalizzare la conclusione della consegna e creare così le condizioni per ricevere l’ordine seguente.

Da ciò il Tribunale ha ritenuto che “tali direttive – specifiche, relative ad ogni singolo passaggio e sostanzialmente vincolanti – costituiscono indubbia espressione di una pesante eterodirezione dell’attività del ricorrente da parte della convenuta che la distingue nettamente dall’attività di consegna svolta da un lavoratore autonomo, il quale scelga personalmente come concretizzare ogni suo passaggio come, ad esempio, per quale esercente effettuare i trasporti e/o in quale zona effettuare le consegne, come orientarsi e quale percorso seguire, l’ordine con cui effettuare plurime consegne”.

Sotto il profilo dell’esercizio del potere di controllo è emerso che la società di food delivery, sempre attraverso la piattaforma digitale, è in grado di esercitare un controllo altrettanto esteso e pervasivo. Il sistema informatico registra per ogni rider gli slot prenotati, le informazioni del profilo del corriere, tutte le consegne accettate ed evase etc.

Infine, sotto il profilo del potere disciplinare, il Tribunale, ricordando l’orientamento della Corte di Cassazione, sent. n. 9343/2005, ha affermato “come la forte standardizzazione delle modalità della prestazione ed il suo assoggettamento a ‘continui controlli e diretti interventi di correzione’ riduca alquanto il possibile spazio di concreta presenza di un vero e proprio potere disciplinare”.

È la stessa piattaforma a ricondurre il rider al comportamento corretto rendendo ad es. automaticamente impossibile per quest’ultimo effettuare il check-in per lo slot prenotato se la batteria è sotto il 20% o se si trova fuori dalla zona di consegna.

I ricordati interventi di diretta correzione, avendo l’effetto di impedire al rider di lavorare e guadagnare, possono essere comparati alla sanzione disciplinare della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione.

Anche l’articolato meccanismo di attribuzione di premi e punizioni conseguenti al come e il quando il rider lavora rientrano in tale schema non dissimile dall’esercizio di un potere disciplinare. La performance del rider è valutata in forza di vari parametri tutti connessi o alle modalità con cui lo stesso svolge la prestazione o alla sua produttivita nel tempo.

Secondo il Tribunale, “il sistema di reazioni al mancato rispetto da parte del rider delle numerose indicazioni che deve seguire nell’effettuare la consegna, così come la valorizzazione in termini di punteggio della sua produttività, lo collocano invece in una situazione analoga a quella del lavoratore subordinato”.

In tale contesto, l’attività che la società di food delivery svolge è ben diversa dall’attività di intermediazione tra esercenti e consumatori. La piattaforma, dice il Tribunale, “non si limita effettivamente a mettere in contatto gli uni con gli altri in uno spazio virtuale in cui i primi promuovono i loro prodotti e i secondo scelgono ciò che vogliono acquistare”, ma “offre un servizio aggiuntivo di ‘consegna ai consumatori’ … che realizza attraverso una complessa organizzazione incentrata sui rider e sulla loro gestione da parte della piattaforma”.

Con la conseguenza che nel caso di specie si è realizzata l’essenza stessa della subordinazione.

Per il testo integrale della sentenza clicca qui:

https://www.wikilabour.it/wp-content/uploads/2023/02/20221115_Trib-Torino.pdf

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Con la sentenza n. 5657 del 23 febbraio 2023 le Sezioni Unite della Cassazione si sono espresse in merito alla meritevolezza ai sensi dell’art. 1322 c.c. di un contratto di leasing immobiliare con clausola di ‘rischio cambio’ in valuta estera, escludendone la natura di strumento finanziario derivato.

I fatti di causa

Il caso esaminato dalla Corte riguarda la validità o meno di un contratto di leasing immobiliare in valuta estera (franco svizzero) con clausola di ‘rischio cambio’.

In primo grado, in seguito all’opposizione a decreto ingiuntivo promossa dalla soc. utilizzatrice, il Tribunale di Udine aveva ritenuto che la clausola in cui era prevista la variazione del canone in funzione sia del tasso LIBOR che del tasso di cambio tra l'Euro ed il franco svizzero contenesse in realtà due strumenti finanziari derivati, autonomi rispetto al contratto di leasing. Pertanto, il contratto doveva ritenersi nullo a causa della violazione degli obblighi di informazione precontrattuale prescritti dal d.lgs. 58/98.

L’impugnazione proposta dalla concedente è stata rigettata dalla Corte d’appello di Trieste, seppur con motivazione diversa da quella del Tribunale.

Secondo la Corte d'appello l'intero contratto sottoposto al suo esame era da configurare come “una sorta di swap”, da qualificarsi come un contratto ‘aleatorio’ e rientrante nel genus delle scommesse.

La Corte ha poi aggiunto che “la clausola di ancoraggio del canone al tasso di cambio tra franco svizzero ed Euro era "astrusa, macchinosa, complessa e oscura", e provocava uno "squilibro nelle prestazioni", in quanto la formula di calcolo del "rischio cambio" differiva a seconda che la variazione fosse favorevole o sfavorevole al concedente; che il contratto era stato qualificato come "contenente elementi riconducibili a strumenti finanziari derivati" anche dal consulente d'ufficio nominato in primo grado; che al momento della stipula - sempre ad avviso del c.t.u. - era "prevedibile un apprezzamento del franco" rispetto all'Euro”.

Ciò premesso, la Corte d'appello accoglieva l'opposizione al decreto ingiuntivo sulla base del fatto che la clausola di rischio cambio era “invalida ex art. 1322, comma 2, c.c.”, e non già perché il contratto fosse nullo a causa della violazione degli obblighi di informazione precontrattuale prescritti dal d. lgs. 58/98, come invece aveva ritenuto il Tribunale.

L’ordinanza interlocutoria

In seguito al ricorso per cassazione promosso dalla società concedente, con ordinanza interlocutoria 16 marzo 2022 n. 8603 la Terza Sezione civile della Cassazione ha rimesso gli atti al Primo Presidente, affinché fosse valutata l'opportunità di assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

Nella predetta ordinanza, ravvisata l'esistenza di contrastanti decisioni circa la validità di clausole come quella in esame, è stato sollecitato l’intervento delle Sezioni Unite in merito alle seguenti questioni:

  • a) se la clausola di cui si discorre sia un mero meccanismo di indicizzazione, oppure costituisca una "scommessa", o comunque abbia una finalità speculativa”;
  • b) se la suddetta clausola muti la causa del contratto di leasing, "inquinandola", ed in questo caso con quali effetti”;
  • c) se la relativa pattuizione, a causa della sua oscurità, violi i doveri di correttezza e buona fede da parte del predisponente”.

Il giudizio di meritevolezza e lo ‘scopo pratico’ del contratto

Le Sezioni Unite hanno ritenuto fondato il secondo motivo di ricorso con cui il ricorrente aveva censurato la sentenza impugnata per violazione dell’art. 1322 c.c.

Il giudizio di “meritevolezza” di cui all'art. 1322, comma 2, c.c., dicono le Sezioni Unite, richiamando un orientamento consolidato (S.U. 4222/2017), è un giudizio che deve investire non il contratto in sé, ma il risultato che con esso hanno avuto di mira le parti (cioè lo scopo pratico, la causa concreta).

La causa concreta del contratto è immeritevole solo quando sia contraria “alla coscienza civile, all'economia, al buon costume od all'ordine pubblico”.

Tali principi, già affermati nella Relazione al Codice Civile, risultano oggi consacrati agli artt. 2, secondo periodo, 4, comma 2, e 41, comma 2 Cost.

Nella sentenza in commento, le Sezioni Unite hanno altresì precisato che affinché un patto atipico possa dirsi “immeritevole”, ai sensi dell'art. 1322 c.c., non è sufficiente che il contratto sia poco conveniente per una delle parti, ma “è necessario accertare la contrarietà (non del patto, ma) del risultato cui esso mira con i principi di solidarietà, parità e non prevaricazione che il nostro ordinamento pone a fondamento dei rapporti privati”.

Le argomentazioni della Corte d’appello sono state considerate, come vedremo, irrilevanti ai fini del giudizio di meritevolezza della clausola ‘rischio cambio’ contenuta nel contratto di leasing immobiliare in valuta estera.

Il contratto con clausola ‘astrusa’

La presenza nel contratto di una clausola contrattuale “astrusa” non rende il contratto nullo o “immeritevole” ex 1322 c.c., ma impone al Giudice di fare ricorso agli strumenti legali di ermeneutica (“la clausola oscura andrà dunque interpretata, in mancanza di altri criteri, almeno in modo che le si possa dare un senso (artt. 1371 c.c.), oppure contra proferentem (art. 1370 c.c.)”.

Il contratto con clausola ‘macchinosa’

Neppure la presenza di una clausola contrattuale “macchinosa” è idonea a fondare il giudizio di non meritevolezza. Al più la stessa potrà rendere il contratto annullabile laddove abbia inciso sulla formazione del consenso del contraente (consenso dato per errore o carpito con dolo) o potrà influire sulla violazione del dovere di fornire tutte le necessarie informazioni precontrattuali, ove imposte dalla legge o dalla buona fede.

Le Sezioni Unite ricordano come siano stati elaborati dalla prassi commerciale numerosi contratti che prevedono necessariamente clausole articolate e complesse (ad es. i contratti di handling aeroportuale, le assicurazioni dei rischi agricoli, il noleggio di piattaforme off-shore, il project financing di opere pubbliche, ma anche i contratti di massa come quelli di somministrazione di energia elettrica), ma non per questo gli stessi devono essere considerati immeritevoli di tutela.

Il contratto aleatorio

Secondo la Corte d’appello, la clausola di ‘rischio cambio’ nel contratto in esame era caratterizzata da “aleatorietà e squilibrio”, in quanto prevedeva una differente base di calcolo dell’indicizzazione a seconda che l’euro si fosse apprezzato o deprezzato rispetto alla valuta di riferimento.

Per le Sezioni Unite un contratto aleatorio non può dirsi, per ciò solo, immeritevole di tutela: “la sentenza impugnata mostra di confondere l'alea economica, insita in ogni contratto, con l'alea giuridica, che del contratto forma invece oggetto e ne è elemento essenziale: e cioè la susceptio periculi. E nel caso di specie causa del contratto era il trasferimento della proprietà di un immobile, non il trasferimento di un rischio dietro pagamento di un prezzo”.

La vendita del raccolto futuro, l'assicurazione sulla vita a tempo determinato per il caso di morte, la rendita vitalizia, ricordano le Sezioni Unite, sono tutti contratti aleatori previsti dalla legge.

Allora se è la stessa legge a consentire la stipula di contratti aleatori, la stessa aleatorietà non può ritenersi di per sé caratteristica idonea a rendere il contratto ‘immeritevole’ ai sensi dell’art. 1322, co. 2, c.c.

Non solo la legge, ma anche l’autonomia negoziale consente alle parti di stipulare contratti aleatori atipici non espressamente previsti dalla legge (v. il caso del vitalizio atipico di cui è stata affermata in giurisprudenza la liceità e la meritevolezza).

Lo squilibrio delle prestazioni

Per le Sezioni Unite, lo “squilibrio” delle prestazioni, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte d’appello, non è idoneo a fondare un giudizio di immeritevolezza contrattuale.

La clausola di ‘rischio cambio’, secondo il giudice di secondo grado, determinava uno squilibrio tra le obbligazioni dei contraenti non essendo simmetrica la variazione del saggio degli interessi tra il concedente e l’utilizzatore.

Le Sezioni Unite non concordano sul fatto che il concetto di ‘equilibrio delle prestazioni’ in un contratto sinallagmatico debba consistere in una paritaria e perfetta equipollenza tra le contrapposte obbligazioni.

Evocando in modo suggestivo l’immaginedel ‘letto di Procuste’, le Sezioni Unite sostengono che ogni minimo disallineamento della predetta parità non possa essere sindacato dal giudice “amputando parti del contratto per ricondurlo all’equità”.

La ragione è che “il diritto dei contratti… non impone l'assoluta parità tra le parti quanto a condizioni, termini e vantaggi contrattuali”.

Un’interpretazione diversa si porrebbe in contrasto con il principio cardine del nostro ordinamento della libertà negoziale.

Nello svolgimento della libera iniziativa economica, ciascuno ha il diritto di pianificare in piena libertà le proprie scelte imprenditoriali e commerciali pur sempre nel rispetto delle regole e della buona fede.

Alla luce di ciò lo squilibrio tra prestazione e controprestazione, laddove sia la conseguenza di una decisione assunta in piena libertà ed autonomia, non determina l’immeritevolezza del contratto.

Contro lo squilibrio (economico) tra le prestazioni, precisano le Sezioni Unite, quando lo stesso è genetico, è ammesso come rimedio il ricorso alla rescissione per lesione, quando è sopravvenuto il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.

Il giudizio di meritevolezza va formulato in concreto ed ex post

La valutazione circa la validità o la meritevolezza di un patto contrattuale - in forza del principio per cui cum nulla subest causa, constare non potest obligatio - non può mai limitarsi all'esame del suo contenuto, senza apprezzarne gli effetti, e senza valutare se essi siano sorretti da una giusta causa.

Il giudizio sulla meritevolezza, affermano le Sezioni Unite, non può essere formulato in astratto ed ex ante, ma va compiuto in concreto ed ex post, ricercando lo scopo perseguito dalle parti.

La clausola di ‘rischio cambio’, affermano le Sezioni Unite, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice di secondo grado, avrebbe potuto avere varie giustificazioni (“Se infatti il franco svizzero si fosse apprezzato rispetto all'Euro, il concedente avrebbe ricevuto una prestazione (in Euro) di valore nominale inferiore a quella che gli sarebbe spettata in valore reale, e tale riduzione avrebbe riguardato l'intero credito: sia la parte pagata dall'utilizzatore a titolo di rimborso del finanziamento, sia la parte pagata a titolo di imposta. Il concedente, dunque, in tal caso avrebbe ricevuto un corrispettivo inferiore a quello preventivato, e ciò avrebbe alterato il suo piano finanziario: e questa sarebbe potuta essere teoricamente una valida ragione per porre a base del calcolo del conguaglio anche l'IVA. Se invece il franco svizzero si fosse deprezzato rispetto all'Euro, l'utilizzatore avrebbe versato (in Euro) una prestazione in valore nominale superiore a quella che avrebbe dovuto versare in valore reale. Ma degli importi versati dall'utilizzatore, però, il concedente doveva necessariamente stornarne un'aliquota a titolo di IVA, e di tale importo non sarebbe stato in potere del concedente pretenderne la restituzione dall'erario, per restituire l'eccedenza all'utilizzatore: e questa sarebbe potuta essere teoricamente una valida ragione per porre a base del calcolo del conguaglio anche l'IVA.”

In conclusione, le circostanze accertate dalla Corte di appello (aleatorietà, difficoltà di interpretazione, asimmetria delle prestazioni) sono irrilevanti ai fini del giudizio di meritevolezza previsto dall’art. 1322 c.c.

Sulle questioni poste dall’ordinanza di rimessione. La definizione di strumento finanziario derivato.

In relazione alle questioni poste dall’ordinanza interlocutoria e più sopra riassunte, le Sezioni Unite hanno escluso che la clausola inserita nel contratto di leasing che faccia dipendere gli interessi dovuti dall'utilizzatore dalla variazione di un indice finanziario insieme ad un indice monetario, costituisca uno strumento finanziario derivato o piuttosto un ‘derivato implicito’.

La clausola di ‘rischio cambio’ non rientra nella nozione di derivato contenuta dell’art. 1 del d.lgs. 58/1998 nè in base alla normativa vigente né in base a quella ratione temporis applicabile (anteriore alle modifiche operate dal d.lgs. 303/2006).

Secondo le Sezioni Unite la clausola in esame non costituisce derivato “per la semplice ragione che attraverso essa le parti non hanno scambiato nulla; né hanno inteso trarre frutto da uno scambio di valori comunque determinati”.

Per effetto del contratto, avente ad oggetto la locazione finanziaria dell'immobile, la società concedente ha assunto l'obbligo di acquistare l'immobile, la società utilizzatrice quello di goderne e restituire le rate.

Non era interesse delle parti, dicono le Sezioni Unite, concludere quel contratto “per lucrare sulle previste fluttuazioni valutarie, e tanto meno per coprire un rischio di credito”.

La clausola che àncora il saggio degli interessi dovuti dal debitore di un contratto di leasing ad un indice monetario non costituisce una compravendita né un'opzione, e tanto meno aveva lo scopo di coprire un certo rischio o "scommettere" sull'andamento dei cambi.

La clausola, continuano le Sezioni Unite, “si limitava ad agganciare il debito dell'utilizzatore ad un valore monetario, e questa Corte ha già stabilito che rientrano nella categoria degli "strumenti finanziari collegati alla valuta" soltanto quelli per mezzo dei quali le parti intendono speculare sull'andamento del mercato delle valute, e non quelli che si limitano a determinare il valore d'una prestazione rinviando ad un indice monetario, comunque determinato (Sez. 1, Sentenza n. 19226 del 04/09/2009, in motivazione)”.

Gli elementi fondanti uno strumento finanziario derivato sono principalmente tre (e sono stati individuati dalle S.U. Cass. 8770/2020):

  1. la c.d. "differenzialità", e cioè l'intento delle parti di trarre vantaggio dalla differenza di due valori variabili;
  2. l'esistenza di un "capitale nozionale", cioè la somma di denaro astrattamente assunta quale base di calcolo dei reciproci flussi finanziari tra le parti:
  3. la possibilità - tipica dei derivati - di sciogliersi da esso avvalendosi dell'opzione "mark to market".

I predetti tre requisiti non sussistono nel caso del leasing immobiliare in valuta estera con clausola di ‘rischio cambio’ in quanto l’oggetto del negozio è indubitabilmente l'acquisto di un immobile e non la speculazione su un titolo; il capitale produttivo dei flussi finanziari è reale e realmente dovuto, e non già nozionale; non è prevista la possibilità di sciogliersi avvalendosi dell’opzione.

La clausola di rischio cambio non ‘inquina’ la causa del contratto di leasing

In relazione poi all’altra questione sollevata dall’ordinanza interlocutoria e cioè “se la clausola di rischio cambio snaturi la causa del contratto di leasing”, le Sezioni Unite hanno dato risposta negativa.

Per stabilire se un contratto, a causa di pattuizioni eterogenee rispetto al suo schema tipico, abbia mutato causa e natura, occorre attenersi a tre criteri:

  • la qualificazione del contratto come “atipico” deve dipendere dai suoi effetti giuridici, non da quelli economici” nel senso che occorre “avere riguardo all'intento negoziale delle parti, non al risultato economico di esso, e tanto meno alla sua convenienza per una delle parti”;
  • un contratto non muta natura e causa, sol perché uno dei suoi elementi presenti un'occasionale difformità rispetto allo schema legale tipico” nel senso che il rapporto deve divenire del tutto estraneo al tipo normativo;
  • le prestazioni atipiche poste a carico di una delle parti non mutano la causa tipica del contratto, se in questo permane la prevalenza degli elementi propri dello schema tipico”.

Ciò premesso, le Sezioni Unite giungono alla conclusione che “la previsione di maggiori o minori obblighi a carico di una delle parti, rispetto a quelli scaturenti dallo schema contrattuale tipico, non è di per sé sufficiente a concludere che quel contratto, merce' la pattuizione di quegli obblighi aggiuntivi, abbia mutato causa e natura”.

Alla luce dei predetti principi la presenza della clausola di rischio cambio nel contratto di leasing non consente di affermare “che, mercè essa, scopo dell'utilizzatore non fu acquisire un immobile, ma fu investire del denaro per realizzare un lucro finanziario invece che commerciale”.

La clausola di rischio cambio non è contraria a buona fede.

In merito all’ultima questione sollecitata dall’ordinanza interlocutoria, le Sezioni Unite hanno affermato che il giudizio di meritevolezza del contratto e quello riguardante il rispetto del dovere di buona fede servono a stabilire cose diverse.

Il giudizio di meritevolezza serve a stabilire se il contratto possa produrre effetti, mentre quello sul rispetto della buona fede serve a stabilire ad esempio, prima della stipula, se il consenso di una delle parti sia stato carpito con dolo o dato per errore, e, dopo la stipula, a stabilire come debba interpretarsi il contratto (art. 1366 c.c.). Ancora, dopo l'adempimento, può servire a stabilire se questo sia stato inesatto (art. 1375 c.c.).

Mentre il contratto immeritevole è improduttivo di effetti, il contratto eseguito senza buona fede fa sorgere il diritto alla risoluzione o al risarcimento del danno.

Alla luce di questi noti principi, le Sezioni Unite, hanno affermato che “la sola pattuizione di una clausola di rischio cambio come quella oggetto del presente giudizio non può costituire, da sola, violazione dei doveri di correttezza e buona fede da parte di un intermediario creditizio o finanziario”.

I principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite

A conclusione della disamina, le Sezioni Unite hanno affermato con la sentenza in commento i seguenti principi di diritto:

- “il giudizio di "immeritevolezza" di cui all'art. 1322, comma 2, c.c. va compiuto avendo riguardo allo scopo perseguito dalle parti, e non alla sua convenienza, né alla sua chiarezza, né alla sua aleatorietà";

- "La clausola inserita in un contratto di leasing, la quale preveda che: a) la misura del canone varii in funzione sia delle variazioni di un indice finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra la valuta domestica ed una valuta straniera; b) l'importo mensile del canone resti nominalmente invariato, e i rapporti di dare/avere tra le parti dipendenti dalle suddette fluttuazioni siano regolati a parte; non è un patto immeritevole ex art. 1322 c.c., né costituisce uno "strumento finanziario derivato" implicito, e la relativa pattuizione non è soggetta alle previsioni del d.lgs. 58/98".

Per leggere il contenuto integrale della sentenza delle Sezioni Unite clicca qui:

https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/5657_02_2023_civ_no-index.pdf

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