Con la sentenza n. 28975 del 5 ottobre 2022 le Sezioni Unite hanno affermato importanti principi di diritto con riferimento alla disciplina del rito sommario di cognizione. In particolare, dopo un’attenta ricostruzione della normativa applicabile, la sentenza, risolvendo un contrasto giurisprudenziale sorto sul tema, è giunta alla conclusione che il termine di impugnazione dell’ordinanza ai sensi dell’art. 702-ter, comma 6, c.p.c. decorre, per la parte costituita, dalla sua comunicazione o notificazione e non dal giorno in cui essa sia stata eventualmente pronunciata e letta in udienza e che, in mancanza delle suddette formalità, l’ordinanza può essere impugnata nel termine di sei mesi dalla sua pubblicazione, a norma dell’art. 327 c.p.c.

1. – I fatti di causa

Con la sentenza in commento è stato accolto il ricorso di un cittadino straniero avverso la sentenza di secondo grado che aveva dichiarato, nell’ambito di un procedimento per la protezione internazionale e umanitaria, la tardività dell’impugnazione proposta ai sensi dell’art. 702-quater c.p.c.

L'impugnazione, secondo il giudice di secondo grado, era da considerarsi tardiva essendo stata notificata oltre il termine di trenta giorni prescritto dall'art. 702-quater c.p.c. dalla data di lettura in udienza dell'ordinanza impugnata.

In seguito alla proposizione del ricorso, la questione riguardante la decorrenza del termine di impugnazione di cui all’art. 702-quater c.p.c., nonché quella riguardante l’appellabilità o meno dell’ordinanza di cui all’art. 702-ter, comma 6, c.p.c. nel termine di cui all’art. 327 c.p.c., sono state devolute allo scrutinio delle Sezioni Unite, avendo rilevanza generale e non solo limitata all’ambito della protezione internazionale.

2. - Le questioni sottoposte all’esame delle Sezioni Unite

Nella sentenza in commento, le Sezioni Unite dirimono un contrasto sorto in giurisprudenza che ha posto il seguente dubbio interpretativo: se il termine di impugnazione dell’ordinanza ai sensi dell’art. 702-quater c.p.c., anche quando la cancelleria abbia provveduto alla comunicazione integrale dell’ordinanza, decorra, per la parte costituita nelle controversie regolate dal rito sommario, dal giorno in cui la stessa sia stata pronunciata e letta in udienza, senza alcuna rilevanza delle circostanze dell'avvenuta lettura alla fine dell'udienza, in assenza della parte e non contestualmente alla trattazione della singola causa, né di alcun avviso previo ai difensori.

Secondo un certo orientamento “il termine per proporre appello avverso l'ordinanza resa in udienza e inserita a verbale decorre, pur se questa non sia stata comunicata o notificata, dalla data dell'udienza stessa, equivalendo la pronuncia in tale sede a "comunicazione" ai sensi degli artt. 134 e 176 c.p.c.; neppure essendo applicabile, limitatamente all'appello, l'art. 327, comma 1 c.p.c., poiché la decorrenza del termine per proporre tale mezzo di impugnazione dal deposito dell'ordinanza è logicamente e sistematicamente esclusa dalla previsione, contenuta nell'art. 702-quater c.p.c., di decorrenza dello stesso termine, per finalità acceleratorie, dalla comunicazione o dalla notificazione dell'ordinanza medesima” (cfr. Cass., 6 giugno 2018, n. 14478).

Secondo altra giurisprudenza, la decorrenza del termine breve di impugnazione dell'ordinanza, a norma dell'art. 702-quater c.p.c., dalla comunicazione o dalla notificazione dell'ordinanza medesima deve essere esclusa, per la parte costituita, dalla data dell'udienza in cui l’ordinanza sia stata eventualmente resa mediante lettura in udienza ed inserimento a verbale “in quanto inapplicabile la diversa disciplina dell'art. 281sexies c.p.c.” (Cass., 18 maggio 2021, n. 13439).

In altra sentenza, con riferimento all’art. 281-sexies c.p.c., la Corte di Cassazione ha chiarito che “la lettura della sentenza in udienza e la sottoscrizione, da parte del giudice, del verbale che la contiene, non solo equivalgano alla pubblicazione prescritta nei casi ordinari dall'art. 133 c.p.c., ma anche esonerino il cancelliere dall'onere della comunicazione: sull'assunto che la lettura del provvedimento in udienza debba ritenersi conosciuta, con presunzione assoluta di legge, dalle parti presenti o che avrebbero dovuto essere presenti” (v. Cass., 5 aprile 2017, n. 8832).

Il contrasto, rilevano le Sezioni Unite, si registra anche in relazione alla diversa questione riguardante la possibilità o meno di proporre appello contro l’ordinanza di cui all'art. 702-ter, comma 6, c.p.c. nel termine semestrale stabilito dall'art. 327 c.p.c. (Cass., 6 giugno 2018, n. 14478 esclude tale possibilità, mentre Cass., 27 giugno 2018, n. 16893 la ritiene ammissibile).

3. - La questione riguardante la decorrenza del termine ‘breve’ di impugnazione

Dopo un’approfondita ricostruzione della disciplina e delle caratteristiche principali del rito sommario di cognizione, le Sezioni Unite hanno rilevato come sia il procedimento sommario di cognizione che il modello decisorio previsto dall'art. 281-sexies c.p.c. costituiscano “rimedi preventivi”, ex artt. 1 – bis ed 1 – ter L. 89/2001 a fronte  della violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sotto il profilo della  durata non ragionevole del processo.

La comunicazione dell’ordinanza ai sensi dell’art. 702-quater c.p.c., così come la trattazione ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c., avendo funzione acceleratoria del giudizio, sottraggono alle parti la decisione (tramite la notificazione, a norma dell'art. 326 c.p.c.) sull'applicazione del termine breve di impugnazione, in quanto effetto automatico della conoscenza del provvedimento.

Sul punto le Sezioni Unite ricordano altresì che la questione della legittimità costituzionale dell’art. 702-quater c.p.c., “per asserita violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui stabilisce che l'ordinanza conclusiva del procedimento sommario di cognizione è appellabile entro il termine breve di trenta giorni dalla sua comunicazione ad opera della cancelleria, è stata ritenuta manifestamente infondata, trattandosi di una scelta discrezionale del legislatore, ragionevolmente in linea con la natura celere del procedimento, né lesiva del diritto di difesa, in quanto il detto termine decorre dalla piena conoscenza dell'ordinanza, che si ha con la comunicazione predetta ovvero con la notificazione ad istanza di parte”.

Il tenore letterale del testo dell’art. 702-quater, affermano le Sezioni Unite, è insuscettibile di un'interpretazione ricalcata sul modello decisorio dell'art. 281-sexies c.p.c. che invece ammette la decorrenza del termine per proporre appello avverso l'ordinanza resa in udienza e inserita a verbale, pur se questa non sia stata comunicata o notificata, dalla data dell'udienza stessa, equivalendo la pronuncia in tale sede a "comunicazione" ai sensi degli artt. 134 e 176 c.p.c.

Ciò premesso, le Sezioni Unite nella sentenza in commento ribadiscono che, ai fini della decorrenza del termine di trenta giorni previsto dall'art. 702-quater c.p.c.,la comunicazione di cancelleria debba avere ad oggetto il testo integrale della decisione, comprensivo del dispositivo e della motivazione; con la conseguenza che, ai detti fini, occorra fare riferimento alla data di notificazione del provvedimento ad istanza di parte, ovvero, se anteriore, alla comunicazione di cancelleria in forma integrale, ossia comprensiva di dispositivo e motivazione” (Cass. 23 marzo 2017, n. 7401; Cass. 16 febbraio 2022, n. 5079).

Non è dunque possibile far decorrere il termine breve d'impugnazione dalla sola notizia del dispositivo, per evidenti esigenze di difesa della parte soccombente, la quale deve avere la necessaria conoscenza della motivazione per poter predisporre i motivi di gravame.

La comunicazione dell’ordinanza nel procedimento sommario di cognizione ha un evidente carattere di specialità rispetto a quella della sentenza ordinariamente prevista dall'art. 133, comma 2, c.p.c., in quanto produttiva di uno specifico effetto (decorrenza del termine di appellabilità).

Al contrario l’art. 133 c.p.c. esclude espressamente tale effetto disponendo che “…La comunicazione non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all'art. 325”.

Preso atto dell’essenzialità della comunicazione nel sistema impugnatorio istituito dall'art. 702-quater c.p.c., in funzione della stabilizzazione degli effetti di cui all'art. 2909 c.c. della decisione, la stessa è pertanto necessaria anche laddove l'ordinanza sia stata pronunciata in udienza, perché, continuano le Sezioni Unite, “dire che l'ordinanza pronunciata in udienza è conosciuta dalle parti e quindi si ha per pubblicata è... cosa diversa dall'affermare che tale pronuncia è idonea a soddisfare il requisito della comunicazione, prescritto dall'art. 702quater c.p.c. per il decorso del termine breve".

La comunicazione deve essere intesa ai fini dell’art. 702-quater c.p.c. come "completezza e certezza della notizia sulla possibilità di accedere al provvedimento e come disponibilità del suo testo".

4. – Sull’applicabilità del termine ‘lungo’ di impugnazione previsto dall'art. 327 c.p.c.

Secondo le Sezioni Unite risulta applicabile all'ordinanza ai sensi dell'art. 702-ter, comma 6, c.p.c., qualora essa non sia stata comunicata, il termine semestrale di impugnazione “in corrispondenza coerente all'esigenza di stabilizzazione della decisione, in funzione di certezza dei rapporti giuridici”.

L'introduzione di una norma specifica per regolare il termine breve di impugnazione, cioè l'art. 702-quater, non può essere intesa come manifestazione di una voluntas legis escludente il termine lungo (“l'introduzione di una specifica disciplina attinente al termine breve e agli effetti del suo decorso non può quindi assorbire in modo meramente implicito la via dell'art. 327”).

Le Sezioni Unite ritengono che al rito sommario di cognizione ben possano applicarsi le disposizioni di ordine generale, poste a chiusura del sistema, quale è l’art. 327 c.p.c. in discussione (con la sua decorrenza dalla data di pubblicazione dell'ordinanza, che, come noto, si effettua con il deposito del provvedimento in cancelleria).

5. - Il richiamo ai principi di diritto affermati dalle Sezioni Unite sulla decorrenza del termine di riassunzione del giudizio interrotto (S.U. 12154/2021).

Il tema dell'esigenza di una conoscenza effettiva e non di una conoscenza legale, che si risolva in una conoscibilità mera, ricorda la sentenza in commento, è stato già affrontato dalle Sezioni Unite con la sentenza del 7 maggio 2021, n. 12154 in riferimento alla necessità di ancorare ad una conoscenza effettiva la decorrenza del termine di riassunzione del giudizio interrotto (v. sul tema un nostro precedente commento “Le Sezioni Unite sull’individuazione del dies a quo per la riassunzione del processo interrotto per intervenuta dichiarazione di fallimento di una delle parti”), ancorché automaticamente, per effetto della dichiarazione di fallimento di una delle parti, ai sensi dell'art. 43 L. Fall.

In quel caso, si è ritenuto che “la conoscenza dell'evento interruttivo debba attingere la parte interessata nello specifico processo, in cui i suoi effetti siano esplicitati mediante una dichiarazione, una notificazione o una certificazione rappresentative di esso, assistite da fede privilegiata e che non sia sufficiente una conoscenza altrimenti acquisita: con attribuzione così di rilievo non soltanto al mezzo di diffusione della notizia, ma anche alla sua fonte. Come è stato osservato, una tale istanza esprime nel suo nucleo irriducibile il principio costituzionale del giusto processo (artt. 24 e 111, primo e comma 2 Cost.), che esige il suo effettivo inveramento nel processo, con il pieno rispetto delle sue regole”.

Anche alla luce di tali principi, la conoscenza del momento di decorrenza del termine di appellabilità dell'ordinanza emessa ai sensi dell'art. 702-ter, comma 6 c.p.c. deve essere certa e “derivare da un mezzo di diffusione della notizia, garantito nella sua fonte, così da essere assistita da una fede privilegiata, nell'insufficienza di una conoscenza altrimenti acquisita”.

Una tale certezza di individuazione del momento rilevante (decorrenza del termine di trenta giorni per l'appellabilità dell'ordinanza) è stata posta dal legislatore con una norma positiva ("dalla sua comunicazione o notificazione").

Sicché, affermano le Sezioni Unite, “il rispetto dell'art. 3 Cost. sarebbe negato da un regime di decadenza dall'impugnazione, dipendente dalla scelta del singolo ufficio giudiziario di modalità processuali ed operative”.

6. – Il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite

Dalle superiori argomentazioni le Sezioni Unite, accogliendo il ricorso proposto, hanno enunciato il seguente principio di diritto: "Il termine (di trenta giorni) di impugnazione dell'ordinanza ai sensi dell'art. 702-quater c.p.c. decorre, per la parte costituita nelle controversie regolate dal rito sommario, dalla sua comunicazione o notificazione e non dal giorno in cui essa sia stata eventualmente pronunciata e letta in udienza, secondo la previsione dell'art. 281sexies c.p.c. In mancanza delle suddette formalità, l'ordinanza può essere impugnata nel termine di sei mesi dalla sua pubblicazione, a norma dell'art. 327 c.p.c.”.

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Sullo stesso tema leggi anche

Le Sezioni Unite sull’individuazione del dies a quo per la riassunzione del processo interrotto per intervenuta dichiarazione di fallimento di una delle parti.

Con la sentenza del 12 gennaio 2023 il Tribunale di Bologna ha respinto l’opposizione proposta dalla società Deliveroo Italy s.r.l., ai sensi dell’art. 28, co. 3, L. 300/70, contro il decreto di accoglimento del ricorso delle organizzazioni sindacali (Nidil Cgil di Bologna, Filt Cigl di Bologna e Filcams Cgil di Bologna) con cui era stata lamentata l’antisindacalità della condotta della società successivamente alla stipula di un CCNL tra Assodelivery e la sigla sindacale UGL Rider.

Il caso è del tutto sovrapponibile a quello affrontato dalla sentenza del Tribunale di Firenze del 24 novembre 2021 oggetto di un nostro precedente commento (v. per approfondimenti “Condotta antisindacale di Deliveroo Italy srl. Il Tribunale di Firenze condanna alla rimozione degli effetti”).

Le organizzazioni sindacali ricorrenti, così come nel caso affrontato dal Tribunale di Firenze, avevano contestato il comportamento di Deliveroo Italy s.r.l., che, con una comunicazione inoltrata a tutti i rider il 2 ottobre 2020, aveva imposto a questi ultimi, come condizione per continuare a lavorare, l’accettazione del contratto collettivo sottoscritto da UGL Rider, soggetto non qualificato avendo ricevuto un sostegno illegittimo, anche di natura finanziaria, da parte della stessa Deliveroo.

Il comportamento di Deliveroo aveva determinato la lesione del diritto delle ricorrenti alla consultazione, informazione e coinvolgimento in qualità di organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, nonché del loro ruolo e della loro immagine nei confronti dei lavoratori iscritti.

1. – Sull’incompetenza del Tribunale di Milano

Il Tribunale, sulla scorta delle medesime motivazioni contenute nel decreto in data 9 febbraio 2021 del Tribunale di Firenze (relativo ad una causa ‘gemella’ proposta dalle medesime organizzazioni sindacali contro Deliveroo per analoghe condotte), ha ritenuto infondata l’eccezione di incompetenza sollevata dalla società opponente.

Il Tribunale di Bologna ha ritenuto sussistente la propria competenza e non quella del Tribunale di Milano, luogo della sede degli organi direttivi della società.

Nel decidere in tal senso ha richiamato quanto affermato nella sentenza n. 781 del 24 novembre 2021 dal Tribunale di Firenze e cioè: “Sussiste la competenza del giudice adito alla luce dell'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui ai fini della determinazione della competenza per territorio in tema di repressione di condotta antisindacale ai sensi dell'art. 28 della legge n. 300 del 1970 è rilevante il luogo di commissione del comportamento denunciato, non già il luogo in cui tale comportamento è stato deliberato. (Cfr tra le altre Cass Sez. 6 - L, Ordinanza n. 8938 del 19/04/2011, la quale ha affermato il principio, ai sensi dell'art. 360 bis, primo comma, cod. proc. civ. nonché Cass Sez. L, Ordinanza n. 23895 del 23/12/2004 e tutta la giurisprudenza ivi richiamata)”.

2. – Sull’ammissibilità del ricorso ex art. 28, co. 3, L. 300/70

Il Tribunale di Bologna, nella sentenza in commento, ha concluso per il rigetto dell’eccezione di inammissibilità del ricorso per inapplicabilità alla fattispecie in esame dell’art. 28, co. 3, L. 300/70.

Secondo la difesa di parte opponente lo strumento di cui all’art. 28 potrebbe essere azionato esclusivamente nei confronti di un datore di lavoro subordinato e non invece nei confronti di un committente di lavoro autonomo, parasubordinato o eterorganizzato, qual è Deliveroo.

Tale conclusione si desumerebbe, sempre secondo l’impostazione ermeneutica adottata dalla società di food delivery, da molteplici elementi quali la lettera della norma, che fa espresso riferimento al “datore di lavoro”, dal naturale ambito dell’azione sindacale e dall’area di applicazione della L. 300/1970, nonché dalla giurisprudenza di legittimità richiamata (Cass. 18975/2015). Sempre secondo la società il carattere eccezionale del rimedio previsto dall’art. 28, co. 3, L. 300/70 escluderebbe una sua applicazione analogica o estensiva al di fuori dello stretto contesto della subordinazione.

Il Tribunale, come già anticipato, non ha condiviso gli assunti di parte opponente e, a tal proposito, ha richiamato nella motivazione quanto affermato già dal Tribunale di Milano nel decreto n. 889/2021 e cioè che: “la disposizione di cui all’art. 28 St. Lav. si colloca in un momento temporale e storico non recente e che, dal 1970, vi sono stati numerosi interventi legislativi, da ultimo l’art. 2, dlgs 81/15. (…) La disposizione si colloca all’interno di una serie di interventi legislativi (decreti attuativi del JOB Act) con i quali si è inteso prendere consapevolezza delle numerose innovazioni, anche di carattere tecnologico che, negli ultimi anni, hanno caratterizzato il mondo del lavoro introducendo figure di lavoratori prima sconosciuti e forme di rapporti diversi da quelli tradizionali. Riprendendo la disposizione in esame, laddove la stessa estende la disciplina del rapporto subordinato ai rapporti di collaborazione, l’estensione non può che riguardare ogni profilo, sia di carattere sostanziale che processuale.

Riduttivo sarebbe, invero, se il legislatore avesse riconosciuto ai collaboratori un diritto privo della possibilità di tutela. A tale conclusione, si potrebbe replicare asserendo che i diritti estesi anche ai collaboratori potrebbero trovare sufficiente protezione attraverso la tutela ordinaria. L’azione prevista dall’art. 28 st. lav. è uno strumento d’urgenza finalizzato ad offrire alle associazioni sindacali un rimedio immediato, quindi diverso da quello di cui all’art. 414 c.p.c.”

Alla luce di ciò, l’espressa menzione del ‘datore di lavoro’ nell’art. 28 della L. 300/70 non costituisce argomento sufficiente per sottrarre alle organizzazioni, che operano nel quadro di rapporti di collaborazione, la tutela d’urgenza proprio alla luce del disposto del nuovo art. 2 del d.lgs. 81/2015.

Il Tribunale di Bologna ha poi richiamato quanto stabilito dalla Cassazione con la sentenza n. 1663/2020 secondo cui l’intenzione del legislatore con la norma sopra citata sarebbe stata proprio quella di selezionare, in un’ottica sia di prevenzione che rimediale, “taluni elementi ritenuti sintomatici ed idonei a svelare possibili fenomeni elusivi delle tutele previste per i lavoratori” e che “quando l'etero-organizzazione, accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione, è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente, si impone una protezione equivalente e, quindi, il rimedio dell'applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato”. Si tratta dunque di una “scelta di politica legislativa volta ad assicurare al lavoratore la stessa protezione di cui gode il lavoro subordinato”. Tale intento del legislatore, continua la Corte, “appare confermato dalla novella del 2019, “la quale va certamente nel senso di rendere più facile l'applicazione della disciplina del lavoro subordinato, stabilendo la sufficienza - per l'applicabilità della norma - di prestazioni "prevalentemente" e non più "esclusivamente" personali, menzionando esplicitamente il lavoro svolto attraverso piattaforme digitali e, quanto all'elemento della "etero-organizzazione", eliminando le parole "anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro", così mostrando chiaramente l'intento di incoraggiare interpretazioni non restrittive di tale nozione”.

Il Tribunale di Bologna, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale in materia, ha ritenuto che l’intera disciplina della subordinazione e, in particolare, la disciplina in tema di repressione delle condotte antisindacali debba essere estesa anche ai rider, a prescindere dal nomen iuris attribuito dalle parti al contratto di lavoro.

Altresì privo di pregio è stato ritenuto l’argomento, svolto dalla società opponente, secondo il quale l’art. 28, co. 3, L. 300/70 farebbe riferimento alla sola disciplina sostanziale del rapporto di lavoro subordinato e non anche a quella processuale. L’art. 28 in verità non può considerarsi norma meramente processuale in quanto, secondo quanto affermato dal Tribunale di Bologna, “individua beni giuridici da tutelare, di rilevanza costituzionale (libertà ed attività sindacale e diritto di sciopero) e mira a reprimere, mediante uno strumento processuale di particolare efficacia (soprattutto considerata l’epoca in cui fu ideato!), qualunque comportamento, non tassativamente individuato, che leda i beni tutelati. Inoltre, i comportamenti da reprimere hanno sovente natura plurioffensiva, in quanto i beni tutelati non pertengono esclusivamente all’organizzazione sindacale, ma anche al singolo lavoratore. Appare innegabile che il diritto alla libertà e all’attività sindacale ed il diritto di sciopero siano diritti propri anche del singolo lavoratore e proprio per tale tipologia di diritti è stata individuata la fattispecie del diritto individuale ad esercizio collettivo. Ed invero, l’intreccio fra diritto processuale e diritto sostanziale e la possibile plurioffensività dei comportamenti antisindacali appare particolarmente evidente nel caso di azione ex art. 28 esercitata al fine della caducazione di un licenziamento antisindacale, appalesandosi in tal caso l’intreccio fra diritto del sindacato e diritto del singolo. L’interpretazione qui accolta sembra a questo giudicante avere anche il pregio di corrispondere al criterio ermeneutico di interpretazione della legge ordinaria secondo i principi costituzionali, atteso il particolare rilievo assegnato dalla Costituzione ai diritti sindacali (v.art.39 e 40 della Costituzione)”.

3. - La sussistenza dei requisiti di cui all’art. 2 d.lgs. n. 81/2015

Dopo aver affermato l’utilizzabilità in astratto dello speciale strumento di tutela previsto dall’art. 28, co. 3, L. 300/70 nell’ambito delle collaborazioni individuate dall’art. 2 D.Lgs 81/2015, il Tribunale ha verificato, con esito positivo, la sussistenza nel caso di specie dei presupposti di cui al predetto art. 2.

Secondo il Tribunale, le attività svolte dai rider in favore di Deliveroo “hanno natura prevalentemente personale, perché consistono nella prestazione di una attività lavorativa individuale e strettamente personale (senza ausilio di collaboratori) consistente nella consegna di cibo a domicilio”.

Nella sentenza in commento, il Tribunale specifica inoltre che il carattere della personalità della prestazione non può essere escluso per il fatto che le consegne vengono effettuate con l’uso di un mezzo di trasposto, come una bicicletta o un motociclo, nella disponibilità del rider. A tal proposito è stato richiamato l’orientamento della Corte di Cassazione in forza del quale il requisito della personalità della prestazione “non può escludersi “sulla base di una comparazione meramente quantitativa del capitale impiegato…. utilizzato per il servizio, rispetto all'apporto lavorativo in questione” e rilevando che nella comparazione del bene "capitale" rispetto al bene "lavoro", quest'ultimo va apprezzato non solo in termini quantitativi, di "tariffa", o corrispettivi, ma anche in termini qualitativi, di esclusività e di continuatività dell'attività prestata, in maniera stabile, senza ausilio di collaboratori, e in stretta dipendenza funzionale delle esigenze del committente (così già Cassazione civile sez. lav., 05/05/1999, n.4521 e molteplici successive conformi)”. Il Tribunale di Bologna ha dunque ritenuto che l’attività resa dai rider in favore di Deliveroo fosse “..sicuramente personale, non prevedendo la possibilità di avversi di collaboratori, nonché in stretta dipendenza funzionale con le esigenze del committente (che, senza riders, non potrebbe offrire alcun servizio) e viene prestata mediante l’impiego di mezzi modesti per consistenza e valore (una bicicletta o un motociclo e uno smartphone), di tal che, anche a voler procedere ad una comparazione “meramente quantitativa” (che la giurisprudenza di legittimità ha più volte dichiarato non corretta) comunque non potrebbe certo ritenersi la prevalenza del fattore “capitale” sul fattore lavoro”.

Quanto poi alla continuatività della prestazione, il Tribunale ha ritenuto che “se è vero (e pacifico) che il rider può rifiutare la singola proposta d’ordine così come può non prestare la propria attività lavorativa anche per lunghi periodi, è altrettanto vero che il rapporto tra Deliveroo e i suoi riders è strutturato come potenzialmente continuativo (tant’è che il contratto standard prevede una durata a tempo indeterminato, con recesso possibile a seguito di preavviso di 30 giorni) e che le prestazioni, nel loro concreto manifestarsi, risultano continuative, nel senso che non sono occasionali (cfr Corte appello Torino n. 26/19) e sono svolte in maniera reiterata nel tempo al fine di soddisfare un interesse duraturo del committente al continuativo adempimento… D’altro canto, la stessa incontestata previsione, in passato (fino al 2.11.2020), di un sistema di prenotazione basato sui parametri della “affidabilità” e “partecipazione” porta ad escludere la natura meramente occasionale della prestazione: che senso avrebbe infatti “premiare” i rider più attivi nelle fasce di picco di attività e più affidabili nello svolgimento della prestazione, se l’attività fosse strutturata come episodica o occasionale?”.

Infine, ha altresì ritenuto sussistente il carattere della etero-organizzazioneatteso che Deliveroo, tramite la piattaforma, organizza le attività di consegna e coordina il lavoro dei suoi riders. …una volta sottoscritto il contratto, il rider riceve delle credenziali che gli consentono di accedere alla applicazione (cd app) dal proprio smartphone; una volta fatto accesso alla app ed effettuato il log in, il rider riceve delle proposte d’ordine, che può accettare o meno (in precedenza, in particolare fino al 2.11.2020, era in vigore un sistema di prenotazione delle sessioni di lavoro, denominato SSB, ossia self service booking, che consentiva al rider di prenotare in anticipo una sessione di lavoro); una volta accettata la proposta d’ordine, il rider riceve l’indirizzo esatto dove deve recarsi per il ritiro del cibo da consegnare; durante la consegna, può essere contattato dalla società ma solo in casi eccezionali; il programma suggerisce il percorso da seguire per la consegna e monitora la prestazione attraverso una predeterminata scansione di fasi..”.

A conclusione di tale ragionamento, il Tribunale ha ritenuto sufficiente a legittimare l’utilizzo dello strumento processuale previsto dall’art. 28, co. 3, L. 300/70 la riconducibilità del rapporto alle collaborazioni eterorganizzate di cui all’art. 2, co. 1, l. 81/15 senza che fosse necessario a tal fine indagarne anche l’eventuale natura subordinata.

4. – Le condotte antisindacali poste in essere da Deliveroo Italy s.r.l.

4.1. - L’insussistenza in capo a Ugl Rider del requisito della maggiore rappresentatività.

Il Tribunale ha ritenuto fondate le argomentazioni addotte dalle organizzazioni sindacali convenute che avevano lamentato l’illegittimità e l’antisindacalità delle condotte poste in essere da Deliveroo.

È risultato pacifico in giudizio che Deliveroo fosse receduta da tutti i contratti in essere con i propri rider procedendo poi alla conclusione di nuovi contratti individuali secondo il contratto collettivo sottoscritto da UGL Rider.

Secondo il Tribunale la società opponente non aveva assolto all’onere probatorio sulla stessa gravante circa la maggiore rappresentatività del sindacato UGL Rider al fine di dimostrare l’assenza di profili di antisindacalità nel proprio agire.

All’esito dell’istruttoria è risultato del tutto assente in capo a UGL Rider il requisito della maggiore rappresentatività comparata a livello nazionale non essendo stata tale organizzazione sindacale convocata al tavolo ministeriale per la stipula del contratto collettivo dei rider. Ma anche perché prima della sottoscrizione del contratto collettivo del settembre 2020, UGL non aveva promosso per i rider alcuna iniziativa, né in sede giudiziaria né in sede di autotutela collettiva, e non aveva sottoscritto alcun altro accordo collettivo prima della firma del CCNL oggetto di causa. Non è stata dimostrata la rappresentatività di UGL Rider nemmeno in relazione alla consistenza numerica dei suoi iscritti. Al contrario è risultata dimostrata in giudizio la promozione da parte delle organizzazioni sindacali parti in causa di significative azioni giudiziarie a tutela degli interessi dei rider, la partecipazione delle stesse ai tavoli ministeriali, nonché la sottoscrizione da parte di queste ultime di vari contratti collettivi nel settore.

Sul punto il Tribunale di Bologna ha richiamato la sentenza del Tribunale di Firenze n. 781/2021 nella quale era stata affermata la natura di sindacato di comodo di UGL. La 'vicinanza' di UGL Rider alle posizioni datoriali era emersa, secondo il Tribunale di Firenze, dai seguenti elementi: “A) le modalità di sottoscrizione dell'accordo e cioè nell'ambito di una trattativa non pubblicizzata e parallela rispetto a quella in atto presso il Ministero del Lavoro cui partecipavano le associazioni sindacali giudicate maggiormente rappresentative dal Ministero stesso, tra cui figuravano le odierne ricorrenti ma non UGL ..; B) l'omissione di qualunque forma di confronto tra il sindacato e i riders circa il contenuto dell'accordo che UGL rider intendeva firmare …; C) l'assenza di vertenze collettive o individuali portate avanti da UGL (sia prima che dopo la firma dell'accordo) in favore dei riders..;  D) il contenuto del contratto sottoscritto, che sostanzialmente riproduce la disciplina prevista nei contratti predisposti dalla odierna convenuta, (salvo le maggiorazioni previste per il lavoro notturno e festivo cfr tabella punto 78 del ricorso) e che, per la sua ritenuta non corrispondenza ad una tutela effettiva dei lavoratori, ha portato alla esclusione (con 87 voti a favore e 4 contro) dell'UGL dal Comitato Economico e Sociale Europeo..; E) l'arenamento (conseguente alla firma dell'accordo con UGL) delle trattative con le altre sigle sindacali per la firma di ulteriori e diversi contratti (ad oggi nessun altro accordo risulta firmato, nonostante l'attualità del problema e l'urgenza della disciplina del settore) che ha comportato, di fatto il riconoscimento dei diritti sindacali alla sola UGL”.

Tutto ciò premesso, secondo il Tribunale di Bologna il contratto collettivo sottoscritto nel settembre 2020 tra Assodelivery e UGL Rider, in assenza del requisito della maggiore rappresentatività comparata in capo a quest’ultima, non può essere idoneo a derogare alla disciplina di legge e quindi a produrre gli effetti di cui all’art. 47-quater, co. 1, del d.lgs. 81/2015.

4.2. -  Il recesso unilaterale da tutti i contratti.

Sulla base di queste argomentazioni, deve essere affermata, secondo la sentenza, “la illegittimità e la antisindacalità della successiva condotta di Deliveroo che ha sostanzialmente imposto ai suoi rider l’adesione a nuove condizioni di contratto, conformi alle previsioni di un CCNL inidoneo a dettare validamente una disciplina prevalente rispetto a quella legale in quanto appunto sottoscritto da un sindacato non rappresentativo”.

Altrettanto illegittima e antisindacale è risultata la condotta di Deliveroo “consistente nel recesso unilaterale e nella definitiva cessazione del rapporto con quei rider che hanno rifiutato la adesione alle nuove condizioni conformi alle previsioni di un CCNL concluso con una organizzazione sindacale priva del requisito della maggiore rappresentatività”.

Inoltre, per il tribunale di Bologna il fatto che Deliveroo sia iscritta alla associazione firmataria Assodelivery non elide la discriminatorietà ed antisindacalità della sua condotta, “poiché la società opponente è receduta unilateralmente da tutti i contratti in essere di fatto obbligando i suoi rider ad aderire alle condizioni della nuova contrattazione collettiva, sostanzialmente imponendo l’adozione di un determinato CCNL come condizione alla prosecuzione del rapporto”.

Il recesso è stato esercitato, in palese violazione dei principi di buona fede e correttezza, come “strumento di coazione della volontà del rider per indurlo – con la esplicita e francamente brutale minaccia della immediata e definitiva risoluzione del rapporto –all’accettazione di condizioni negoziali non conformi a legge”.

4.3. – La violazione degli obblighi di informativa

Parimenti antisindacale è stata ritenuta la condotta di Deliveroo, consistente nella violazione degli obblighi di informativa.

Deliveroo ha proceduto alla risoluzione di massa dei rapporti contrattuali in essere con i suoi rider, senza far precedere tale condotta da alcuna procedura di consultazione sindacale e di informativa.

Poiché i rapporti di lavoro dei rider sono assoggettati 'alla disciplina del rapporto di lavoro subordinato', comprensiva delle norme previste in materia di recesso unilaterale di ciascuna delle parti, deve ritenersi applicabile anche il regime delle tutele previste dalla l. 223/91, ivi comprese le procedure stabilite  dall’art. 4 della predetta legge per l’ipotesi di licenziamento collettivo e che prevedono la comunicazione preventiva per iscritto alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale.

Il Tribunale di Bologna, dopo aver verificato che tale comunicazione era stata pacificamente omessa nei confronti delle organizzazioni ricorrenti, confermando il provvedimento di prime cure, ha ritenuto la condotta di Deliveroo lesiva delle prerogative sindacali.

Sullo stesso argomento leggi anche i seguenti articoli:

Il procedimento per la repressione della condotta antisindacale è applicabile ai soli rapporti di natura subordinata. La decisione del Tribunale di Firenze del 9 febbraio 2021

Condotta antisindacale di Deliveroo Italy srl. Il Tribunale di Firenze condanna alla rimozione degli effetti

La natura subordinata del rapporto di lavoro tra Uber Italy s.r.l. e i rider.

Con la sentenza del 1° dicembre 2022, n. 35416 la Corte di Cassazione ha espresso principi importanti in materia di danno biologico concentrando la sua attenzione sulle c.d. patologie ingravescenti.

1. - I fatti di causa

Il sig. Z.G. conveniva in giudizio l'Autorità di Sistema portuale del Mar Adriatico Settentrionale – Venezia al fine di ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a causa dell’inalazione di fibre di amianto durante lo svolgimento delle proprie mansioni presso il porto di Venezia, quale lavoratore portuale polivalente.

La predetta esposizione ad amianto, avvenuta presso il porto di Venezia dal 1963 fino al 1994, gli aveva causato un adenocarcinoma.

Contro la sentenza del Tribunale di Venezia che aveva accolto il ricorso e condannato l'Autorità al risarcimento del danno biologico temporaneo e permanente differenziale, ha proposto appello il sig. Z.G., chiedendo il riconoscimento del danno biologico temporaneo per il periodo 2012-2014, dell'invalidità a partire dal 9 gennaio 2014 e della liquidazione del danno non patrimoniale sulla base delle tabelle milanesi, nonché una nuova quantificazione delle spese di lite.

Il sig. Z.G. insisteva in particolare per una rideterminazione globale del quantum risarcibile sulla base di un dedotto aggravamento della patologia a partire dal 2016.

La Corte d'appello di Venezia accoglieva parzialmente l’appello.

L'Autorità ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza di secondo grado lamentando la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., nonché degli artt. 1226 e 2056 c.c. in quanto la corte territoriale aveva errato nel liquidare un danno da invalidità permanente, nonostante la patologia di Z.G. fosse ancora in atto, sul presupposto che la malattia fosse ormai stabilizzata.

2. – La ricostruzione giurisprudenziale in materia di invalidità temporanea e permanente

La Corte di Cassazione nella sentenza in commento ha ricordato che per danno biologico deve intendersi “la lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito (art. 138, comma 2, lett. a), ed D.Lgs. n. 209 del 2005 art. 139, comma 2)”.

All’interno di tale categoria la giurisprudenza (Cass., Sez. 3, n. 26303 del 17 ottobre 2019) ha distinto i postumi invalidanti dall’inabilità temporanea.

I postumi invalidanti si qualificano “come inemendabili per la loro natura permanente” e ciò in ragione “del loro collocarsi cronologicamente in un tempo successivo rispetto ad un pregresso diverso stato patologico”.

L’inabilità temporanea consiste in quel periodo di incapacità per il soggetto leso ad attenderealle attività della vita quotidiana. Si parla di inabilità ‘totale’ quando tale periodo di incapacità è riferito a qualsiasi attività della vita quotidiana. Si parla invece di inabilità ‘parziale’, quando è limitato soltanto ad alcune attività.

L’inabilità è una “situazione patita dal soggetto, a causa della lesione della salute, prima di essere ritenuto dai medici clinicamente guarito” e coincide “con il periodo di tempo occorrente per la somministrazione delle cure necessarie a ristabilire il paziente e per il suo completo recupero psicofisico, ed al quale consegue il ripristino della condizione di salute antecedente il sinistro (qualora dalla terapia non esitino condizioni menomative) ovvero la definitiva stabilizzazione delle condizioni invalidanti (qualora al termine delle terapie esitino menomazioni o condizioni peggiorative inemendabili)”.

Ai fini della liquidazione del danno biologico, la giurisprudenza ha più volte ribadito che sia il pregiudizio da invalidità permanente che quello da invalidità temporanea devono formare oggetto di autonoma valutazione.

Il pregiudizio da invalidità permanente decorre “dal momento della cessazione della malattia e della relativa stabilizzazione dei postumi”.

Il pregiudizio da invalidità temporanea deve essere riconosciuto “ove il danneggiato si sia sottoposto a periodi di cure necessarie per conservare o ridurre il grado di invalidità residuato al fatto lesivo o impedirne l’aumento, inteso come privazione della capacità psico-fisica in corrispondenza di ciascun periodo e in proporzione al grado effettivo di inabilità sofferto

La Suprema Corte nella sentenza n. 5197/2015 ha affermato che l'invalidità permanente “costituisce uno stato menomativo, stabile e non remissibile, che si consolida soltanto all'esito di un periodo di malattia” specificando che lo stesso “non può, quindi, sussistere prima della sua cessazione”.

L’invalidità permanente è dunque per insegnamento consolidato suscettibile di valutazione soltanto dal momento in cui, dopo il decorso e la cessazione della malattia, l'individuo non abbia riacquistato la sua completa validità con relativa stabilizzazione dei postumi con la conseguenza che “il danno biologico di natura permanente deve essere determinato dalla cessazione di quello temporaneo, giacché altrimenti la contemporanea liquidazione di entrambe le componenti comporterebbe la duplicazione dello stesso danno (Cass., Sez. 3, n. 26897 del 19 dicembre 2014)”.

3. – Invalidità permanente da stabilizzazione del nuovo status caratterizzato dalla inemendabilità delle peggiorate condizioni di salute.

La Corte rileva poi come in secondo grado era stato riconosciuto il danno da lesione permanente della salute pur in presenza di una malattia (neoplasia polmonare) che non era ancora venuta meno e che si trovava in una fase di remissione clinica che corrispondeva ad una stabilizzazione meramente temporanea.

In seguito al decesso del sig. Z.G., si erano costituiti i suoi eredi, rilevando come l'accoglimento del ricorso proposto dall’Autorità avrebbe portato all’esito irragionevole per il quale “il malato non guarito non potrebbe ottenere il danno biologico successivo alla sua stabilizzazione e che, quindi, proprio la stabilizzazione dovrebbe essere equiparata alla guarigione, in presenza di malattie che, come le neoplasie polmonari dovute all'avere respirato particelle di amianto, possono definirsi ad evoluzione, con alta probabilità o con certezza, sfavorevole”.

La risoluzione della questione sottoposta alla Corte coinvolge il concetto di “malattia” e i suoi “esiti”.

La malattia consiste “nella lesione inferta alla integrità di una persona che determina un'alterazione in peius delle pregresse condizioni psicofisiche del soggetto”.

Tale nuovo stato, continua la Corte, all'esito del periodo di convalescenza, è destinato a cessare o perché si verifica la guarigione del malato (con conseguente “ripristino delle condizioni di salute anteriori o comunque senza reliquati invalidanti”) o perché si verifica la stabilizzazione del nuovo “status caratterizzato dalla inemendabilità delle peggiorate condizioni di salute (invalidità permanente)” o ancora perché vi è laperdita totale di capacità biologica del soggetto conseguente al decesso.

Ciò premesso, secondo la Corte l’affermazione in forza della quale si dice che “è possibile individuare un danno biologico permanente esclusivamente dopo il decorso e la cessazione della malattia” deve essere intesa nel senso che, “ad assumere rilievo, èla stabilizzazione del nuovo status caratterizzato dalla inemendabilità delle peggiorate condizioni di salute’ dopo il periodo di tempo occorrente per la somministrazione delle cure necessarie a ristabilire il paziente e per il suo completo recupero psicofisico”.

Nel caso invece di guarigione, quest’ultima può giustificare solo il risarcimento di un danno biologico temporaneo.

Nell’ultimo caso riguardante l’ipotesi del decesso, avvenuto senza stabilizzazione, risulta invece rilevante il c.d. danno terminale (“forma lessicale descrittiva di un danno biologico temporaneo che consiste nella incapacità del soggetto di attendere alle comuni attività quotidiane ed allo svolgimento delle relazioni sociali per un tempo limitato, in quanto destinato a cessare, in considerazione della natura letale della lesione, con l'exitus, ossia con la definitiva estinzione della persona fisica”).

In relazione al danno terminale, la Corte precisa che per la sua liquidazione può essere utilizzato o “il criterio equitativo puro o le apposite tabelle (in applicazione dei principi di cui alla sentenza Cass., Sez. 3, n. 12408 del 7 giugno 2011), ma con il massimo di personalizzazione in considerazione della entità e intensità del danno”.

Il danno biologico da postumi invalidanti di natura permanente deve essere tenuto distinto dal danno terminale in quanto quest’ultimo “esclude per antonomasia una guarigione e prelude al prossimo decesso”. Più in particolare, nel c.d. danno terminale “il termine finale della condizione patologica transeunte.. si identifica non nella intervenuta stabilizzazione delle minorate condizioni di capacità psicofisica, ma nell'evento-morte e prescinde da qualsiasi futura aspettativa di vita del soggetto danneggiato”.

Diversa ancora è l’ipotesi del c.d. danno catastrofale che consiste “nello stato di sofferenza spirituale per intima paura o patema d'animo sopportato dalla vittima nell'assistere alla progressiva distruzione della propria condizione esistenziale verso l'ineluttabile fine-vita. In questo caso, l'accertamento in fatto dell'an, ossia della esistenza del danno-conseguenza, presuppone la prova della cosciente e lucida percezione, da parte del soggetto leso, dell'ineluttabilità della propria fine”

Il risarcimento di tale danno deve essere escluso “laddove la morte sia sopraggiunta nella immediatezza delle lesioni inferte alla vittima, o sia pervenuta dopo un apprezzabile lasso di tempo ma con soggetto leso inconsapevole o che versava in stato di incoscienza (Cass., Sez. 3, n. 7126 del 21 marzo 2013Cass., Sez. 3, Sentenza n. 6754 del 24 marzo 2011)”.

4. – Il caso delle patologie ingravescenti

Dopo un’attenta analisi, la Corte arriva ad affrontare la questione in esame, concentrando la sua attenzione su quelle patologie in cui l’evento morte costituisce un esito astrattamente possibile, ma del tutto incerto nel suo accadimento al momento del perfezionamento della fattispecie illecita.

Vi sono patologie, chiarisce la Corte, che “dopo un primo evento lesivo, determinano ulteriori conseguenze pregiudizievoli, le quali, però, costituiscono un mero sviluppo ed un aggravamento del danno già insorto e non la manifestazione di una lesione nuova ed autonoma rispetto a quella manifestatasi con l'esaurimento dell'azione del responsabile. In simili situazioni, dopo la somministrazione delle cure necessarie a ristabilire il paziente, si è avuta "la stabilizzazione del nuovo status caratterizzato dalla inemendabilità delle peggiorate condizioni di salute", ma è incontestabile che il danno biologico permanente rimanga tale, ancorché gli effetti dell'illecito ben possono accentuarsi”.

Il fenomeno della menomazione, prevedibile, ma incerta nella sua verificazione futura, è specificamente considerato nei bare'mes della medicina-legale che determinano il grado di invalidità biologica.

Più semplicemente, “più alta è la probabilità di esito infausto, maggiore sarà il grado di invalidità”.

Siffatte patologie comportano per il paziente, in futuro, un maggiore rischio di peggioramento del suo stato di salute, rispetto a quelle patologie che, invece, determinano menomazioni stabilizzate.

Tale maggior rischio di aggravamento evolutivo della stessa patologia (anche alla morte), od anche di esposizione alla contrazione di altre malattie non costituisce una conseguenza-dannosa distinta rispetto a quelle pregiudizievoli per la salute riconducibili a quella medesima patologia, ma contribuisce ad integrare il "complessivo stato invalidante" che caratterizza la condizione biologica di quel soggetto e che si atteggia per il suo carattere ingravescente che "può" portare in futuro (secondo il giudizio di prevedibilità espresso dalle conoscenze medico-scientifiche del tempo) ad ulteriori complicanze od alla prematura morte”.

La Corte poi specifica che è del tutto irrilevante se tale rischio si avveri o meno nel futuro in quanto tale incertezza “non fa venire meno la maggiore gravità della invalidità biologica accertata al tempo dell'evento lesivo della salute (Cass., Sez. 3, n. 29492 del 14 novembre 2019)”.

Nel caso esaminato cioè quello di patologie dette ingravescenti, in cui non può escludersi anche un possibile futuro esito letale della malattia, secondo la Corte, non viene in questione un danno terminale o un danno biologico da inabilità temporanea, ma “un danno biologico da invalidità permanente, atteso che i bare'mes considerano nella scala dei gradi di invalidità il maggiore rischio, cui è esposto il paziente, di subire anche a distanza di tempo - una ripresa e sviluppo del fattore patogeno, che potrebbe condurre al decesso, ovvero di incorrere in ulteriori complicanze incidenti peggiorativamente sullo stato di salute, eziologicamente riconducibili all'originaria patologia”.

L’aggravamento non determina la insorgenza di un nuovo diritto risarcitorio, ma “costituisce la mera concretizzazione di un rischio connesso alla patologia, la cui possibilità di accadimento era stata già considerata nella stima della ridotta validità biologica del soggetto residuata dopo la lesione”

Nella sentenza in commento si passa poi ad esaminare il diverso caso in cui al tempo dell'accertamento del danno, l'ulteriore evento dannoso (manifestatosi a distanza di tempo della lesione, anche se riconducibile eziologicamente alla stessa) non era prevedibile in quanto sconosciuto alla scienza medica, e quindi non considerato dai bare'mes.

In tale caso, afferma la Corte, l'evento dannoso successivamente verificatosi va ad “incidere sul perfezionamento di tutti gli elementi della fattispecie illecita.. rendendo solo successivamente conoscibile la relazione di derivazione causale del "nuovo" danno dalla originaria lesione della salute, legittima la proposizione di una distinta domanda risarcitoria”.

Dopo la predetta attenta ricostruzione giurisprudenziale della materia la Corte ritiene che nel caso del sig. Z.G. il giudice di merito abbia correttamente qualificato “il danno alla salute da esposizione all'amianto, derivato da patologia ingravescente, quale danno biologico permanente, liquidandolo applicando le corrispondenti tabelle milanesi”.

La Corte ha ritenuto irrilevante il decesso del danneggiato dopo la pronuncia di appello, dovendosi ritenere, in assenza di allegazione contraria, che il rischio dell'evento morte fosse già ricompreso nei bare'mes utilizzati.

5. – La contestazione sulla liquidazione del danno risarcibile.

In ultimo, il ricorrente ha contestato la misura del danno risarcibile essendo stato parametrato sulla speranza di vita media di un individuo della medesima età in Italia, mentre nel caso di specie, secondo l’Autorità, occorreva tenere conto del fatto che la speranza di vita di un paziente affetto da una grave patologia tumorale è inferiore e non paragonabile a quella di una persona comune.

Dopo aver premesso che i bare'mes tengono generalmente conto anche delle possibilità evolutive della patologia e della maggiore o minore prevedibilità delle complicanze in rapporto alla peculiare condizione di salute riscontrata nel soggetto al momento delle indagini diagnostiche, la Cassazione ha ritenuto di non dover accogliere la doglianza.

Il c.d. rischio latente (vale a dire la possibilità che i postumi, per la loro gravità, provochino un nuovo e diverso pregiudizio consistente in una ulteriore invalidità o nella morte ante tempus), secondo il giudice di legittimità, “costituisce una lesione della salute del danneggiato, da considerare nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente secondo le indicazioni della medicina legale”.

La Corte afferma che qualora il grado di invalidità sia stato determinato tenendo in conto detto rischio, allora il danno biologico va liquidato in relazione alla concreta minore speranza di vita del danneggiato e non della durata media della vita.

Se, invece, il rischio latente non è stato incluso nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente (o perché non contemplato dal bare'me utilizzato o per omissione del consulente), “il giudice deve tenerlo in considerazione maggiorando la liquidazione in via equitativa, anche scegliendo il valore monetario del punto di invalidità previsto per una persona della medesima età della vittima e, dunque, in base alla durata media nazionale della vita, anziché alla speranza di vita del caso concreto (Cass., Sez. 3, n. 26118 del 27 settembre 2021)”.

Con riferimento all'inabilità permanente, il giudice di secondo grado aveva seguito i principi di cui sopra ritenendo che il dato circa l'aspettativa di vita è in via generale considerato in dipendenza del fattore età e può essere valorizzato, "anche rispetto ad un quadro potenzialmente o probabilmente ingravescente della patologia", purché non siano elisi "i presupposti della risarcibilità della condizione invalidante". In particolare, a pagina 21, il giudice d'appello ha tenuto conto "della specifica situazione soggettiva indotta dalla persistenza della patologia la cui incidenza opera alla luce delle superiori considerazioni circa l'adeguamento del risarcimento all'aspettativa di vita in soggetto anziano e malato".

6. - I principi di diritto.

A conclusione della sentenza in commento la Corte di Cassazione ha pronunciato i seguenti principi di diritto:

  • "In tema di neoplasie polmonari causate da inalazione di amianto e, in generale, di malattie ingravescenti con evoluzione, con alta probabilità o con certezza, sfavorevole, l'incapacità biologica temporanea perdura in relazione alla durata della malattia e viene a cessare o con la guarigione (con pieno recupero delle capacità anatomo-funzionali dell'organismo) o con l'adattamento dell'organismo alle mutate e degradate condizioni di salute o, ancora, con la morte”;
  • “In tema di neoplasie polmonari causate da inalazione di amianto e, in generale, di malattie ingravescenti con evoluzione, con alta probabilità o con certezza, sfavorevole, una volta avvenuto l'adattamento dell'organismo alle mutate e degradate condizioni di salute (c.d. stabilizzazione), spetta il risarcimento del danno non patrimoniale, sub specie di danno biologico, il quale va liquidato come invalidità permanente, utilizzando o il criterio equitativo puro o le apposite tabelle”;
  • In tema di neoplasie polmonari causate da inalazione di amianto e, in generale, di malattie ingravescenti con evoluzione, con alta probabilità o con certezza, sfavorevole, la determinazione del danno biologico da invalidità permanente deve avvenire alla luce delle concrete condizioni di salute del singolo e del periodo di sopravvivenza prevedibile in relazione alla patologia diagnosticata, dovendosi tenere conto, però, che, qualora lo stato di invalidità del soggetto trovi espressione nei gradi percentuali definiti per ciascuna patologia dai bare'mes elaborati dalla comunità scientifica ed utilizzati in medicina legale, tali bare'mes considerano, nella scala dei gradi di invalidità, il maggiore rischio, cui è esposto il paziente, di subire, anche a distanza di tempo, una ripresa e sviluppo del fattore patogeno, che potrebbe condurre al decesso. Nell'eventualità, pertanto, che la liquidazione di siffatto danno avvenga tramite tabelle che non valutano la concreta minore speranza di vita del soggetto leso ovvero sulla base di una consulenza tecnica che da tale minore speranza prescinda, il giudice deve maggiorare detta liquidazione in via equitativa".

Sullo stesso argomento v. il commento al seguente link:  https://www.studioclaudioscognamiglio.it/la-corte-di-cassazione-e-lapplicazione-delle-tabelle-milanesi-per-la-liquidazione-del-danno-non-patrimoniale-quale-futuro/

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