Con la sentenza n. 33719 del 16 novembre 2022 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ponendo fine ad un’annosa querelle giurisprudenziale, si sono espresse circa la sorte del mutuo fondiario concesso in violazione dei limiti previsti dall’art. 38, co. 2, t.u.b. escludendo la nullità dello stesso.
La questione, ritenuta di particolare rilevanza, era stata rimessa allo scrutinio delle Sezioni Unite dalla Prima Sezione della Cassazione con l’ordinanza interlocutoria del 9 febbraio 2022, n. 4117 (oggetto di un nostro precedente commento, clicca qui per leggere l’articolo: “La sorte del mutuo fondiario in violazione dei limiti di finanziabilità richiamati dall’art. 38 del Testo Unico Bancario”).
1. - L’orientamento seguito dalla sentenza della Cassazione n. 26672 del 2013
L’orientamento più risalente ripercorso dalle Sezioni Unite è quello seguito dalla sentenza n. 26672 del 2013 (v. conformi sentenze successive: cfr. n. 27380 del 2013, n. 22446 del 2015, n. 13164 del 2016) che ha escluso che la previsione del limite di finanziabilità di cui all'art. 38, co. 2, t.u.b. possa rientrare nell'ambito applicativo dell'art. 117, co. 8, t.u.b.
Tale norma risulta attribuire alla Banca d'Italia “un potere conformativo o tipizzatorio”, in ragione del quale essa può stabilire il contenuto di certi contratti prevedendo clausole-tipo da inserirenel regolamento negoziale a tutela del contraente debole, mentre l’art. 38, co. 2, t.u.b. conferisce all’organismo di vigilanza “non già il potere di stabilire una certa clausola del contratto di mutuo fondiario bensì solo quello di determinare la percentuale massima del finanziamento che costituisce l'oggetto del contratto e che è quindi un elemento di per sé già tipizzato e costituente una clausola necessaria”.
Le due norme secondo l’orientamento in esame andrebbero poi a tutelare interessi diversi.
L’art. 117 t.u.b. è una norma orientata alla tutela dei contraenti più deboli ed ha lo scopo di “prevenire, tramite l'inserimento di clausole standard, l'utilizzazione da parte delle banche di schemi contrattuali di difficile lettura od interpretazione da parte del cliente ovvero recanti clausole onerose o eccessivamente vessatorie” con l’ovvia conseguenza che le violazioni delle disposizioni della Banca d'Italia attuative dell'art. 117 t.u.b., costituendo fonti di nullità relative, possono essere fatte valere solo dal cliente, cioè dal contraente più debole.
Diversa è invece la situazione sottostante all’art. 38, co. 2, t.u.b., in cui vi è un soggetto, il cliente, che ha tutto l’interesse ad ottenere il finanziamento, peraltro, nel massimo importo possibile e quindi anche a prescindere dal limite di finanziabilità.
Secondo l’orientamento seguito da Cass n. 26672 del 2013, l’art. 38, co. 2, t.u.b. non rileverebbe in quanto norma inderogabile sulla validità del contratto, ma piuttosto come norma di buona condotta la cui violazione comporta l’irrogazione delle sanzioni previste dall'ordinamento bancario, nonché eventuale responsabilità.
Tale giurisprudenza ha escluso che il mutuo fondiario concesso in violazione dei limiti di cui all’art. 38, co. 2, t.u.b. debba ritenersi nullo per contrarietà a norme imperative, in base agli argomenti qui di seguito riassunti:
2. – L’orientamento giurisprudenziale seguito dalla sentenza della Cassazione n. 17352 del 2017: il limite di finanziabilità come elemento essenziale del contratto e l’art. 38, co. 2, t.u.b. come norma imperativa.
Successivamente è andato affermandosi nella giurisprudenza di legittimità un orientamento diverso - inaugurato dalla sentenza della Cassazione n. 17352 del 2017 (seguita da sentenze successive conformi: cfr. sez. I, n. 19016 del 2017, n. 6586, 11201, 13286 e 29745 del 2018, n. 10788 del 2022) - che, pur condividendo con il precedente la non riconducibilità dell’art. 38, co. 2, t.u.b. alla nullità di cui all’art. 117, co. 8, t.u.b., ha tuttavia ritenuto che “la prescrizione del limite massimo di finanziabilità da parte della Banca d'Italia in forza della fattispecie in esame "si inserisce in ogni caso tra gli elementi essenziali perché un contratto di mutuo possa dirsi "fondiario"”.
Dal punto di vista della finalità delle norme in esame, secondo l’orientamento espresso da Cass. 17352 del 2017, l’art 38, co. 2, t.u.b. “risponde a una necessità di analitica regolamentazione dettata da obiettivi economici generali (...) attesa la ripercussione che tali tipologie di finanziamenti possono avere sull'economia nazionale" e a una simile ratio della norma - che "non è volta a tutelare la stabilità patrimoniale della singola banca, ma persegue interessi economici nazionali (pubblici)" - è correlato il trattamento di favore accordato alla banca che eroghi un tal tipo di finanziamento, sul versante del consolidamento breve dell'ipoteca fondiaria (art. 39 del T.u.b.) e della peculiare disciplina del processo esecutivo individuale attivabile pur in costanza di fallimento (art. 41)”.
Data la finalità di ordine pubblico perseguita, l’orientamento in esame non dubitache l'art. 38, co. 2, t.u.b. sia norma imperativa.
Considerato poi che il limite di finanziabilità attiene alla struttura del negozio, il suo superamento non può essere confinato ad una questione di mera responsabilità da comportamento (“la fissazione di un limite di finanziabilità (...) non è confinabile nell'area del comportamento nella fase prenegoziale: l'area cioè della contrattazione tra banca e cliente. Nè è correlabile, ovviamente, alla fase attuativa"; "il punto è che tutte le regole giuridiche sono regole di condotta, con la conseguenza che, se è indubbio che l'art. 38, comma 2, del T.u.b. incide su un contegno della banca, è altrettanto indubbio che la soglia stabilita per il finanziamento ha la funzione di regolare il quantum della prestazione creditizia, per modo da incidere direttamente sulla fattispecie”).
In conclusione, secondo l’orientamento in esame, il limite fissato dall’art. 38, co. 2, t.u.b. costituisce un limite inderogabile all’autonomia privata da cui deriva, nel caso del suo superamento, “la nullità dell'intero contratto fondiario” che può essere, però, ai sensi dell’art. 1424 c.c., su istanza di parte – e non d’ufficio dal Giudice – convertito in un contratto diverso (mutuo ordinario).
3. – L'ordinanza interlocutoria della Corte di Cassazione n. 4117 del 2022
L'ordinanza interlocutoria n. 4117 del 2022 ha evidenziato aspetti critici dell’uno e dell’altro orientamento, in vista di una soluzione diversa della questione controversa (v. il nostro approfondimento al seguente link: La sorte del mutuo fondiario in violazione dei limiti di finanziabilità richiamati dall’art. 38 del Testo Unico Bancario).
4. – La decisione delle Sezioni Unite.
4.1. – Il limite di finanziabilità non è elemento essenziale del contratto.
In accordo con i diversi orientamenti giurisprudenziali sopra descritti, nella sentenza in commento le Sezioni Unite hanno affermato che il contratto di mutuo fondiario con superamento del limite massimo di finanziabilità, in mancanza di un’espressa previsione normativa (non riscontrabile nell'art. 117, comma 8, t.u.b.), sicuramente non configura un’ipotesi di nullità testuale.
Controverso è invece il tema se lo stesso possa essere ricondotto ad un’ipotesi di nullità virtuale.
Le Sezioni Unite ricordano che “la mancanza di una espressa sanzione di nullità non è decisiva al fine di escludere la nullità dell'atto negoziale in conflitto con norme imperative, potendo intendersi che ad essa sopperisca l'art. 1418 c.c., comma 1, in quanto letto come espressivo di un principio di indole generale, rivolto a prevedere e disciplinare proprio il caso in cui alla violazione dei precetti imperativi non si accompagni una previsione espressa di nullità del negozio”.
Occorre allora verificare quali siano gli indici sintomatici della imperatività di una norma, che consentono al giudice di dichiarare la nullità del contratto anche nel silenzio del legislatore.
Le norme imperative, secondo la giurisprudenza prevalente, sono quelle che si riferiscono alla struttura o al contenuto del regolamento negoziale. Più in generale ci si riferisce a quelle norme inderogabili concernenti la validità del contratto in modo da distinguerle dalle regole di comportamento che attengono invece alla fase precontrattuale ed esecutiva del contratto.
Per essere imperativa la norma deve disciplinare “direttamente e chiaramente il contenuto specifico ed essenziale del contratto, prima di ogni valutazione inerente alla caratura dell'interesse protetto ed eventualmente leso …In altri termini, una norma prima di essere imperativa dev'essere prescrittiva di un contenuto, specifico e caratterizzante, inerente al sinallagma contrattuale che possa definirsi essenziale, la mancanza del (o difformità dal) quale renderebbe nullo il contratto (ex art. 1418, commi 1 e 2, in relazione agli artt. 1343,1345 e 1346 c.c.)”.
Secondo le Sezioni Unite l’art. 38, co. 2, t.u.b., non individuando un elemento essenziale del contratto, può essere fatto rientrare all’interno di quella categoria di “disposizioni indicative di elementi meramente specificativi, integrativi o accessori di uno dei requisiti del contratto, ovvero genericamente conformativi del modo di atteggiarsi del sinallagma in concreto”.
Il comma 1 e il comma 2 dell’art. 38 t.u.b. sono disposizioni non omogenee diversamente orientate.
Solo la prima delle due disposizioni è volta a stabilire il contenuto essenziale del contratto di mutuo fondiario. Il comma 2, invece, regolamenta il rapporto dell'organismo di vigilanza con le banche vigilate, assegnando alla Banca d'Italia il compito di determinare l'ammontare massimo dei finanziamenti.
Con la conseguenza che tale comma 2 non consente automaticamente di trasferire sul piano del rapporto negoziale con i clienti a valle le conseguenze delle condotte difformi delle banche, al fine di provocare il travolgimento del contratto che si assume viziato per superamento del limite dell’importo finanziabile.
4.1.1. - Gli elementi che portano ad escludere la natura imperativa ed inderogabile dell’art. 38, co. 2, t.u.b.
Un primo elemento che porta ad escludere l’inderogabilità dell’art. 38, co. 2, t.u.b. è dato dal fatto che il limite dell’80% possa essere aumentato sino al 100% in presenza di garanzie integrative offerte dalla parte mutuataria.
Su tale valutazione incide anche il fatto che la norma in esame non indica con precisione gli elementi in grado di determinare il superamento del limite di finanziabilità del mutuo. Ad es. non vengono indicati i criteri di stima del valore dell'immobile, cui viene rapportato in via percentuale l'ammontare massimo del finanziamento. Né viene indicata l'epoca di riferimento della stima. Secondo le Sezioni Unite non si può trascurare “che la determinazione del valore del bene è oggetto di un comportamento dell'istituto di credito che si dispiega nella fase precontrattuale e contrattuale, il cui esito, trasfuso nel testo negoziale, è suscettibile di un giudizio non rispondente a criteri di validità o invalidità contrattuale, ma appropriato alla valutazione di comportamenti negoziali delle parti (e' significativo l'obbligo dei finanziatori di applicare "standard affidabili" di valutazione dei beni immobili nell'attigua normativa sul "credito ai consumatori", art. 120 duodecies del t.u.b.)”.
Un ulteriore elemento contrario alla qualificazione dell’art. 38, co. 2, t.u.b. in termini di imperatività della norma è dato dal fatto che nel contratto di mutuo fondiario l'indicazione del valore del bene offerto in garanzia, o del costo delle opere, non assurge a requisito di forma prescritto ad substantiam.
La nullità, affermano le Sezioni Unite, “è predicabile per violazione di norme di fattispecie o di struttura negoziale solo se immediatamente percepibile dal testo contrattuale, senza laboriose indagini rimesse a valutazioni tecniche opinabili compiute ex post da esperti del settore, come sono invece quelle compiute dai periti cui sia demandato il compito di stimare il bene, ai fini del giudizio sul rispetto del limite di finanziabilità”.
Il rischio – continuano le Sezioni Unite nella loro riflessione - è quello “di minare la sicurezza dei traffici e di esporre il contratto in corso a intollerabili incertezze derivanti da eventi successivi … dipendenti dai comportamenti delle parti nella fase esecutiva (come l'inadempimento o l'insolvenza del mutuatario), tali da innescare la crisi del rapporto negoziale con l'esigenza di verificare ex post l'osservanza del limite di finanziabilità”.
Tali elementi non dovrebbero interferire sulla questione della validità del contratto, questione “che è formale prima che sostanziale”.
Le Sezioni Unite condividono quanto evidenziato dall'ordinanza interlocutoria e cioè che l’art. 38, co. 2, t.u.b., nel conferire alla Banca d'Italia il potere di determinare la percentuale massima del finanziamento, interferisce sul contenuto del contratto non ‘per aggiunta’, ma solo ‘per specificazione’ “imponendo che un elemento intrinseco già presente nel contratto (cioè il suo oggetto) possegga una determinata caratteristica di tipo quantitativo, restando però del tutto invariata la struttura della fattispecie nei suoi fondamentali elementi tipizzati".
Pertanto, le Sezioni Unite escludono che sia configurabile una nullità per un vizio incidente su elementi essenziali intrinseci alla fattispecie negoziale, relativi alla struttura o al contenuto del contratto.
4.1.2. – Il silenzio serbato dal legislatore e l’interesse tutelato dall’art. 38, co. 2, t.u.b.
Le Sezioni Unite si volgono poi a verificare se l’art. 38, co. 2, t.u.b. possa integrare una norma imperativa con riguardo alla caratura dell'interesse protetto ed eventualmente leso.
A tal fine nella sentenza in commento viene fatto richiamo ai principi espressi in tema di nullità negoziale dalle Sezioni Unite con la diversa sentenza n. 8472 del 2022 in cui è stato osservato che: "pur nel polimorfismo che caratterizza la nozione di nullità negoziale, un elemento accomunante nella evoluzione giurisprudenziale si coglie nella tendenza attuale a utilizzare tale nozione - e quella di norma imperativa - come strumento di reazione dell'ordinamento rispetto alle forme di programmazione negoziale lesive di valori giuridici fondamentali"; che "nella ricordata evoluzione giurisprudenziale si è intravisto in dottrina il segno del passaggio dal "dogma della fattispecie" al "dogma dell'interesse pubblico", intendendosi con quest'ultima espressione segnalare, in termini critici, l'eccessiva genericità della nozione e discrezionalità rimessa al giudice nella individuazione di sempre nuove ipotesi di nullità, in potenziale frizione con i valori di libertà negoziale e di impresa, seppur nel bilanciamento con altri valori costituzionali”.
Partendo da tale premessa, se è vero che il rimedio della nullità costituisce strumento idoneo a rimodellare il rapporto contrattuale secondo canoni e criteri valutativi fondamentalmente preordinati ad obiettivi di equità, proporzionalità e giustizia, però, d’altra parte, - precisano le Sezioni Unite nella sentenza in commento – tali obiettivi “dovrebbero pur sempre essere vagliati preventivamente dal legislatore il cui silenzio, lungi dall'essere irrilevante o neutro, molto spesso è decisivo nel senso di escludere la nullità”.
Il silenzio del legislatore nel caso dell’art. 38, co. 2, t.u.b. non è, dunque, irrilevante. Secondo le Sezioni Unite l'assenza di un’esplicita previsione legislativa, che stabilisca l’invalidità del mutuo concesso oltre i limiti imposti dalla norma in esame, “costituisce un elemento che esclude una voluntas legis volta a sanzionare con l'invalidità un finanziamento bancario con garanzia insufficiente”. Nel caso di specie non sussiste neppure un interesse del mutuatario in caso di superamento del limite di finanziabilità del mutuo.
Nel proseguire nella loro analisi interpretativa, le Sezioni Unite trovano arduo identificare l'interesse tutelato dalla norma in esame nelle “ripercussioni che tali tipologie di finanziamenti possono avere sull'economia nazionale o nel fatto di essere (la norma) espressione della "politica economica" o di "obiettivi economici generali"”.
Lo scopo dell’art. 38, co. 2, t.u.b., che è sicuramente quello di preservare la stabilità patrimoniale degli istituti di credito e di impedire il verificarsi di situazioni di squilibrio tra garanzie acquisite e concessione di credito, pur presentando profili di interesse pubblico, non basta a connotare l’art. 38, co.2, t.u.b. in termini imperativi.
Le Sezioni Unite non ritengono convincenti i ragionamenti svolti da alcune decisioni (cfr. Cass. sez. I n. 11201 e 13286 del 2018) secondo cui l'interesse pubblico sottostante all’art. 38, co. 2, t.u.b. dovrebbe essere inteso come "interesse alla corretta concorrenzialità del mercato del credito" e “a contrastare "i rischi espoliativi" cui sarebbe soggetto il mutuatario per il pericolo che il debitore, avendo ottenuto un finanziamento eccessivo, possa subire l'esproprio della residua parte del proprio patrimonio”.
In particolare con riferimento alla corretta concorrenzialità del mercato del credito, le Sezioni Unite ritengono che tale concorrenzialità si realizza proprio offrendo alla clientela maggiori possibilità di accesso al credito: risultato questo cui non si perviene con la sanzione della nullità.
A conclusione del ragionamento, affermano le Sezioni Unite che “la scelta di politica economica compiuta dal legislatore è stata, come si è detto, di favorire la mobilizzazione della proprietà immobiliare ampliando la possibilità di far ricorso ai finanziamenti, contemperandola però con l'esigenza di contenere il rischio per le banche erogatrici a tutela della loro stabilità finanziaria. Intravedere in tale esigenza (alla sana e prudente gestione delle banche) un interesse corrispondente a un valore giuridico fondamentale, di per sé indicativo della imperatività della disposizione in questione (art. 38, comma 2), stride anche con l'assenza nell'ordinamento di norme imperative attinenti al contenimento del rischio predetto nelle altre tipologie di finanziamenti erogati dalle banche che ben possono essere non assistiti da alcuna garanzia”.
4.2. – Sulla non percorribilità della riqualificazione del contratto alla stregua di un mutuo ipotecario ordinario
In ultima analisi, nella sentenza in commento, le Sezioni Unite si sono chieste se, come suggerito dall’ordinanza interlocutoria, una volta esclusa la nullità per violazione di norma imperativa, il mutuo concesso oltre il limite di cui all’art. 38, co. 2, t.u.b. possa essere riqualificatoalla stregua di un mutuo ipotecario ordinario “prescindendo dal nomen iuris adoperato dalle parti e sterilizzandolo delle tutele speciali previste dalla legge, in favore del mutuante, per i finanziamenti fondiari”.
Le Sezioni Unite ritengono che, nonostante la pacifica non conformità del mutuo fondiario concesso oltre i limiti di finanziabilità al modello tipizzato dall'art. 38 t.u.b., non sia “consentito all'interprete intervenire (d'ufficio) sugli effetti legali del contratto per neutralizzarli, facendo applicazione di un diverso modello negoziale (mutuo ordinario) non voluto dalle parti, seppure appartenente alla stessa famiglia o genus contrattuale”.
Se da una parte, l’operazione di qualificazione del contratto, ricordano le Sezioni Unite, è compito del giudice e non dei contraenti (il giudice non è vincolato al nomen juris dato dalle parti e può correggere la qualificazione data quando riscontri che essa non corrisponde alla sostanza del contratto o dell'operazione negoziale), dall’altra, le determinazioni dei contraenti rispetto alla qualificazione del contratto non sono del tutto irrilevanti essendo la qualificazione stessa del contratto direttamente influenzata dalla loro volontà.
Sul punto le Sezioni Unite hanno espressamente affermato che “Se le parti qualificano un contratto in un certo modo (ad esempio, come "mutuo fondiario") sussistendone le caratteristiche essenziali identificative, col deliberato proposito di regolare il rapporto secondo la pertinente disciplina, il giudice, in via di principio, non può disattendere la loro qualificazione a favore di una qualificazione (anche parzialmente) diversa ritenuta più adeguata secondo parametri normativi astratti, a meno che la stessa qualificazione non sia specificamente contestata in giudizio (e quindi rimessa al giudice) o ricorrano le condizioni per la conversione del contratto (art. 1424 c.c.), ma ciò presuppone che ne sia fondatamente contestata la validità e non è questo il caso, essendo stata esclusa la nullità del mutuo fondiario stipulato dai contraenti, in relazione a entrambi i dedotti profili del superamento del limite di finanziabilità e della destinazione della somma mutuata a ripianare passività pregresse”
Nel caso di mero errore qualificatorio dei contraenti nella denominazione di un contratto, la ridenominazione (o riqualificazione) è sempre possibile anche d'ufficio. In tale caso l'operazione qualificatoria del giudice non incide sul regolamento di interessi convenuto dai contraenti.
Un’analoga opera di riqualificazione, secondo il Collegio, “non è invece consentita per correggere o integrare il regolamento di interessi volutamente e validamente assunto dai contraenti secondo un determinato tipo o sottotipo negoziale per adeguarlo d'autorità a un diverso tipo o sottotipo legale non corrispondente alla loro volontà comune.”
Le Sezioni Unite affermano che, nel caso di specie sottoposto al loro scrutinio, essendo stata denunciata infondatamente l'invalidità del contratto per contrasto con le norme riguardanti il mutuo fondiario (sul presupposto però della corrispondenza di tale operazione negoziale alla comune volontà delle parti), “la riqualificazione d'ufficio del contratto come ordinario mutuo ipotecario non è operazione praticabile, risolvendosi in una impropria correzione o manipolazione del regolamento di interessi validamente convenuto tra le parti, al fine di privarlo in concreto dei relativi effetti legali”.
4.2. – I principi di diritto enunciati.
In merito alle questioni sopra esaminate le Sezioni Unite hanno affermato, nella sentenza in commento, i seguenti principi di diritto:
Per leggere il testo integrale della sentenza clicca qui:
Sullo stesso argomento leggi anche La sorte del mutuo fondiario in violazione dei limiti di finanziabilità richiamati dall’art. 38 del Testo Unico Bancario.
La recentissima sentenza del Tribunale di L’Aquila, 9 ottobre 2022, ha fatto molto discutere avendo ritenuto sussistente il concorso di colpa ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c. delle vittime del sisma con conseguente riduzione del risarcimento spettante ai loro eredi.
Una condotta “obiettivamente incauta”, ha affermato il Tribunale, “quella di trattenersi a dormire - così privandosi della possibilità di allontanarsi immediatamente dall’edificio al verificarsi della scossa - nonostante il notorio verificarsi di due scosse nella serata del 5 aprile e poco dopo la mezzanotte del 6 aprile”.
Il risarcimento spettante agli eredi è stato quindi ridotto in proporzione al concorso di colpa delle vittime e nel quantificare la riduzione il Tribunale ha tenuto conto dell’affidamento che i soggetti poi defunti avevano riposto nella capacità dell’edificio di resistere al sisma “per essere lo stesso in cemento armato e rimasto in piedi nel corso dello sciame sismico da mesi in atto”.
A simboleggiare l’aperto dissenso di alcuni cittadini di L’Aquila con la decisione presa dalla sentenza in commento gli stessi hanno esposto cartelli in una piazza della città con su scritto “Voglio anche io il 30% di responsabilità!”.
Nella notte del 6 aprile 2009, a causa delle forti scosse di terremoto, il palazzo sito in via (omissis) nella città di L’Aquila è crollato causando così la morte di coloro che erano al suo interno.
Gli eredi delle vittime (d’ora in poi, gli “attori”) hanno convenuto in giudizio davanti al Tribunale di L’Aquila il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, la Prefettura e il Comune di L’Aquila, nonché gli eredi del costruttore DEL B.L. al fine di ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti dal decesso dei rispettivi familiari in seguito al collasso dell’edificio.
Secondo gli attori il crollo dell’edificio era da imputare a gravi vizi di progettazione e di costruzione dello stesso.
Le consulenze tecniche, espletate nell’ambito del processo penale avviato dalla Procura di L’Aquila n. 1509/2009 (poi, però, conclusosi con l’archiviazione, essendo gli indagati tutti deceduti) ed ampiamente richiamate negli atti introduttivi del giudizio civile, avevano evidenziato carenze nel calcestruzzo, quanto a elevata variabilità del materiale impiegato e cattiva esecuzione nella ripresa dei getti.
La responsabilità ex artt. 2043, 2049, 2055 c.c., secondo la prospettazione attorea, era da attribuire ai convenuti per aver realizzato una “costruzione difforme dalle prescrizioni normative all’epoca vigenti ed incapace di resistere all’azione di un sisma non avente carattere anomalo o eccezionale” e, per quanto riguarda la posizione degli enti coinvolti, per non aver diligentemente adempiuto ai compiti di vigilanza e controllo di loro competenza in materia edilizia.
Nello specifico, il Genio Civile, all’epoca incardinato nel Ministero dei LLPP, doveva ritenersi responsabile, ai sensi della L. 1684/1962 (“Norme tecniche per l'edilizia, con speciali prescrizioni per le località colpite dai terremoti”), avendo i suoi funzionari rilasciato, dapprima, autorizzazione a costruire, ritenendo il progetto conforme alla normativa antisismica e, poi, certificato di perfetta rispondenza dell’edificio realizzato alla normativa stessa.
Ai sensi del R.D.L. 2229/1939 (“Norme per l’esecuzione delle opere in conglomerato cementizio semplice o armato”), gli attori deducevano la responsabilità della Prefettura per non avere il suo incaricato, Ing. FI., adempiuto agli obblighi di verifica sul conglomerato cementizio.
Il Comune di L’Aquila doveva ritenersi responsabile avendo rilasciato il certificato di abitabilità, nonostante le difformità tra il fabbricato realizzato e quello assentito.
Infine, veniva dedotta la responsabilità del costruttore e primo proprietario DEL B.L., e per esso dei suoi eredi, per vizi nell’edificazione del palazzo.
Si costituivano tempestivamente tutti i convenuti nei procedimenti inizialmente separati, deducendo, in particolare, oltre alla prescrizione delle pretese azionate, “il concorso di colpa dei deceduti ex art. 1227 c.c. per essersi trattenui all’interno dell’edificio la notte del 6 aprile, nonostante le scosse già verificatesi”.
Deducevano inoltre la responsabilità ex art. 2053 c.c. dei proprietari dell’immobile, tra cui gli stessi ricorrenti e/o defunti, la convenuta GUE.D. e il CONDOMINIO DEL B., per aver “omesso la manutenzione dell'immobile e collocato dei pesanti serbatoi d’acqua all’ultimo piano dell’edificio, minandone la stabilità”.
Costituendosi in giudizio il Comune di L’Aquila deduceva che la responsabilità per il crollo doveva essere imputata alla condotta del tecnico progettista ed autore dei calcoli dell’edificio e chiamava quindi in causa gli eredi di S.C. nonché il proprio assicuratore Allianz S.p.A.
Gli eredi del costruttore DEL B. deducevano in particolare come il crollo dovesse ascriversi a causa di forza maggiore, ossia all’evento sismico, e non alle postulate carenze costruttive.
Deducevano inoltre “l’inapplicabilità degli artt. 1667, 1669 c.c. essendo decorsi oltre 45 anni dalla costruzione dell’edificio, la concorrente responsabilità del Condominio proprietario e il concorso di colpa dei defunti, per essersi imprudentemente trattenuti all’interno degli edifici nonostante le forti scosse che notoriamente precedettero quelle delle 3:32”.
Si costituivano altresì i terzi chiamati.
In particolare, il CONDOMINIO DEL B., chiamato dai Ministeri, con specifico riguardo alla questione dei serbatoi, deduceva che i serbatori erano stati posti nel locale sottotetto dallo stesso costruttore e che in ogni caso erano stati svuotati anni prima del sisma, sicché era da escludere un’influenza causale degli stessi nel crollo del palazzo.
Il Tribunale di L’Aquila, rigettate le eccezioni di prescrizione quinquennale sollevate dai convenuti, ha ritenuto sussistente la responsabilità dei Ministeri convenuti, nonché degli eredi del costruttore DEL B., alla luce delle risultanze delle consulenze espletate in sede penale, utilizzabili anche in sede civile, particolarmente “attendibili in considerazione dell’elevata competenza dei consulenti incaricati, dell'ampia indagine da costoro svolta con numerose ispezioni sul posto, analisi dei campioni ivi raccolti”.
Dalla documentazione agli atti è emerso che l’edificio era stato costruito nella vigenza della legge n. 1684 del 1962 che stabiliva, in materia edilizia, speciali prescrizioni per le località colpite dai terremoti, tra cui il Comune di L’Aquila, classificato nella Categoria di rischio sismico.
La legge n. 1684 del 1962, nel prescrivere le caratteristiche progettuali e strutturali degli edifici da realizzare in zona sisimica, poneva il divieto di iniziare nuove costruzioni senza la previa autorizzazione scritta dell’Ufficio del Genio Civile, autorizzazione che poteva essere rilasciata dopo l’invio da parte dell'interessato della denunzia lavori unitamente al progetto.
Il rilascio della Licenza d’uso da parte della Prefettura era subordinato alla previa certificazione, da parte dell’Ufficio del Genio Civile, della corrispondenza della costruzione alla normativa antisismica.
La medesima legge attribuiva ai funzionari del Genio Civile il preciso compito di verificare se i lavori fossero in concreto eseguiti in conformità con le norme della legge stessa.
L’obbligo di vigilanza posto a carico del Genio Civile seguiva tutto il procedimento di costruzione dell’edificio a partire dalla denunzia di nuova costruzione fino alla realizzazione della costruzione stessa.
Considerati gli obblighi di controllo, funzionali a garantire la sicurezza dell’edificio da costruire, affidati dalla legge agli organi dei due Ministeri coinvolti, il Tribunale di L’Aquila ha ritenuto sussistente la responsabilità degli stessi nella determinazione del crollo.
In particolare, il Tribunale ha ritenuto che “Dalla Relazione degli ingg. BE. e SA. risulta come il progetto strutturale e la relazione di calcolo presentate al Genio Civile al fine di verificare la conformità alla normativa antisismica fossero entrambi assai carenti, con una marcata sottostima delle azioni simiche previste dalla normativa all’epoca vigente e dei carichi reali presenti sull’edificio, tali da renderlo particolarmente vulnerabile proprio dal punto di vista sismico in particolare nella direzione traversale, proprio quella nella quale si manifestò il collasso (vd. pagg. 48/65; 68/71).
Il crollo dell’edificio, secondo il Tribunale, era da imputare “all'inosservanza della normativa antisismica da applicarsi ed alla negligenza del Genio Civile, che invece certificava la conformità di progetti e connessa costruzione alla predetta normativa”.
Dai documenti di causa e dai sopralluoghi effettuati è emersa, ha affermato il Tribunale nella sentenza in commento, “una anomala disgregazione delle strutture in cemento armato; in particolare la stessa viene imputata dall'ing. Q. alla scorretta posa in opera del materiale: il Consulente chiarisce che la correttezza della miscelazione del conglomerato e delle operazioni di getto e ripresa dello stesso nel corso dei lavori siano determinanti per garantire la sua resistenza e durata; in particolare, la miscelazione ed il getto/ripresa debbono essere eseguiti in modo da assicurare l'omogeneità dell'impasto delle varie componenti del conglomerato (omogeneità necessaria perché esso possa poi avere le caratteristiche di resistenza e durevolezza sue proprie) nonché in modo da assicurarne la perfetta compattazione nelle casseforme (indispensabile per espellere l'aria); ove tali operazioni non siano correttamente eseguite, il conglomerato perde le sua capacità di resistenza e durevolezza nel tempo, sostanzialmente divenendo assai più fragile; la scorrettezza delle operazioni di miscelazione, getto/ripresa e compattazione determina una serie di fenomeni denominati sedimentazione (i componenti più pesanti del conglomerato precipitano in basso, separandosi dagli altri), bleeding (separazione dell'acqua dall'impasto); quando entrambi tali fenomeni si verificano essi danno luogo ad un ulteriore fenomeno, denominato segregazione; tali fenomeni sono stati riscontrati in numerosi pilastri dell'edificio ed alla base degli stessi nonché in corrispondenza di nodi travi/pilastro; essi, con particolare riguardo alla sedimentazione alla base di vari pilastri del livello garage, hanno avuto un ruolo determinante nel collasso dell'edificio (pag. 21 Relaz. Q.). Peraltro, il fenomeno di sedimentazione alla base dei pilastri era immediatamente visibile e percettibile, tanto che l'ing. Q. ritiene perciò particolarmente grave la mancata vigilanza e controllo in cantiere durante la lavorazione(pag. 21, Relazione Q.)”.
Eppure, al momento del controllo, l’ing. FI., incaricato dalla Prefettura (che aveva l’obbligo di vigilare sulle opere in conglomerato), non aveva rilevato alcun errore nella costruzione nonostante, durante la realizzazione delle strutture in cemento armato, erano stati compiuti gravi “errori di miscelazione, getto/ripresa e compattazione (operazioni eseguite in difformità alle prescrizioni di cui agli artt. 35 e 41 R.D.L. cit. e comunque alle regole della buona tecnica)”.
In giudizio il Ministero ha eccepito la non imputabilità alla prefettura dell’operato dell’ing. F.I. in ragione della sua qualità di libero professionista. L’eccezione è stata rigettata dal Tribunale in quanto era del tutto indifferente sia la mancanza di un rapporto di lavoro subordinato con la Prefettura o altra P.A. sia il dato che il compenso dell’incaricato libero professionista fosse a carico del costruttore.
Il Tribunale ha poi escluso che il terremoto verificatosi il 6 aprile 2009 avesse una forza tale da poter configurare un’ipotesi di forza maggiore in grado di escludere il nesso causale, in quanto gli edifici vicini, sia in muratura che in cemento armato, pur avendo subito danni più o meno estesi, non subirono il collasso radicale verificatosi nella specie.
Alla luce delle osservazioni sopra richiamate il Tribunale ha affermato la responsabilità del costruttore DEL B. e degli enti pubblici coinvolti.
È stata invece ritenuta fondata l’eccezione, sollevata dai convenuti,di concorso di colpa delle vittime, ai sensi dell’art. 1227, l° comma, cc.
Secondo il Tribunale costituiva “obiettivamente una condotta incauta quella di trattenersi a dormire - così privandosi della possibilità di allontanarsi immediatamente dall’edificio al verificarsi della scossa - nonostante il notorio verificarsi di due scosse nella serata del 5 aprile e poco dopo la mezzanotte del 6 aprile”.
Il concorso di colpa delle vittime è stato ritenuto pari al 30%.
Nel quantificare tale percentuale il Tribunale ha tenuto conto “dell’affidamento che i soggetti poi defunti potevano riporre nella capacità dell’edificio di resistere al sisma per essere lo stesso in cemento armato e rimasto in piedi nel corso dello sciame sismico da mesi in atto”. Sul punto, la decisione appare assai discutibile, sia perché – in difetto di una specifica indicazione, dell’Autorità di protezione civile competente, ad abbandonare le case a seguito delle prime scosse ed in particolare per la notte – non si può ritenere colposo il comportamento delle vittime, sia perché risulta contraddittorio sostenere che le vittime potevano ragionevolmente confidare sulla tenuta dell’edificio e che, al tempo stesso, sarebbero state tenute, secondo un canone di diligenza, a dormire fuori casa.La quota di responsabilità ascrivibile a ciascun Ministero è stata individuata nel 15% ciascuno e per il residuo 40% la responsabilità è stata accertata in capo agli eredi del costruttore DEL B.
Conseguentemente nella medesima misura proporzionale è stato ridotto il credito risarcitorio spettante agli attori.
In conclusione, il Tribunale, accertata e dichiarata la corresponsabilità degli attori quali eredi dei rispettivi familiari defunti e dei convenuti eredi del costruttore DEL B., Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e Ministero Dell’Interno, ha accolto parzialmente le domande attoree condannando i convenuti, in solido tra loro, al pagamento delle seguenti somme, oltre interessi legali: “euro 200.380 a DE B.A.; euro 158.380 a GUE.M.; euro 133.000 a Di E.O.; euro 133.000 a V.F.; euro 91.000 a V.G.; euro 126.000 a P.M.G.; euro 210.000 a R.A., oltre alla rifusione delle spese di lite in favore degli attori, che liquida in complessivi euro 37.604,00 per compenso oltre spese per euro 2.172,48, oltre accessori di legge”.
Per un ulteriore approfondimento clicca qui:
https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/4613-la-cassazione-sul-terremoto-dell-aquila