Con la sentenza del 21 settembre 2022, n. 27683, la Corte di Cassazione, sez. lav., nel confermare l’applicabilità delle fattispecie legali di licenziamento per giusta causa e giustificato motivo previste dal d.lgs. n. 165/2001, all’art. 55-quater, co. 1, lett. da a) ad f), e co. 2, al pubblico impiego privatizzato, ha affermato che le predette figure costituiscono ipotesi aggiuntive di licenziamento rispetto a quelle sancite dalla contrattazione collettiva le cui clausole, ove difformi, andranno sostituite di diritto ai sensi degli artt. 1339 c.c. e 1419, co. 2, c.c.
I fatti di causa
Il sig. I.M. era stata assunto dal Comune di (omissis) con la qualifica di operaio e con mansioni di capo squadra di sei operai addetti alla manutenzione di strade, segnaletica ed interventi di rispristino.
Il sig. I.M. veniva indiziato dalla Procura di Terni del reato di cui all'art. 110 c.p., art. 640 c.p., nn. 2 e 1, "per essersi, agendo in concorso (...) con raggiri consistenti nel far timbrare il badge a turno all'uno o all'altro degli operai, mentre i titolari non erano presenti al lavoro perché ancora non arrivati o perché già allontanatisi per tornare a casa o ancora perché assenti del tutto dal lavoro, procurato un ingiusto profitto pari alla retribuzione indebitamente percepita per attività di lavoro non svolta".
Così, il Comune di omissis, dapprima, applicava al sig. I.M. la sospensione obbligatoria dal servizio e dalla retribuzione ex art. 5, co. 1, del CCNL enti locali dell’11 aprile 2008, e, poi, contestata, tra le altre, la violazione del d.lgs. n. 165/2001, art. 55-quater, co. 1, in particolare lett. a), gli comunicava il licenziamento per giusta causa.
Impugnato il licenziamento per giusta causa, e rigettata la domanda nelle fasi di merito del giudizio, il sig. I.M. ricorreva innanzi alla Cassazione avverso la sentenza d’appello.
Con la sentenza in commento la Suprema Corte ha ritenuto non fondato il primo motivo di ricorso proposto dal sig. I.M., con cui era stata dedotta l’applicabilità alla fattispecie in esame dell’art. 18, L. 300/1970, nella sua vecchia formulazione precedente alla riforma Fornero e non il d.lgs. n. 165/2001, art. 55-quater, che – secondo la tesi del ricorrente - non poteva essere richiamato allo scopo di verificare la gravità dell’illecito o la proporzionalità della sanzione.
Il sig. I.M. criticava la sentenza di secondo grado per aver affermato la sostituzione della disciplina contrattuale (art. 6, co. 3, CCNL) con quella legale (art. 55-quater, d.lgs. n. 165/2001).
La Corte dopo aver ricordato “che le modifiche apportate dalla L. n. 92 del 2012, all'art. 18 della L. n. 300 del 1970 non si applicano ai rapporti di pubblico impiego privatizzato, sicché la tutela del dipendente pubblico, in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all'entrata in vigore della richiamata L. n. 92, resta quella prevista dall'art. 18 st. lav. nel testo antecedente la riforma; rilevano a tal fine il rinvio ad un intervento normativo successivo ad opera della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 8, l'inconciliabilità della nuova normativa, modulata sulle esigenze del lavoro privato, con le disposizioni di cui al d.lgs. n. 165 del 2001, neppure richiamate all'art. 18, comma 6, nuova formulazione, la natura fissa e non mobile del rinvio di cui al d.lgs. n. 165 del 2001, art. 51, comma 2, incompatibile con un automatico recepimento di ogni modifica successiva che incida sulla natura della tutela del dipendente licenziato)” ha precisato che ciò “tuttavia non esclude l'applicabilità alla fattispecie relativa ad un rapporto di impiego pubblico privatizzato del d.lgs. n. 165 del 2001, e segnatamente dell'art. 55 quater…”.
In conclusione, con la sentenza in commento la Cassazione ha confermato l'applicabilità della fattispecie di licenziamento disciplinare di cui al d.lgs. n. 165/2001, art. 55-quater, co. 1, lett. a) – fattispecie che ricorre in presenza di un comportamento fraudolento diretto a far emergere la presenza del lavoratore in ufficio (alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza, certificazione medica falsa etc…) - al pubblico impiego privatizzato.
Le fattispecie legali di licenziamento per giusta causa e giustificato motivo, introdotte dal d.lgs. n. 165/2001, art. 55-quater, co. 1, lett. da a) ad f), e co. 2, “costituiscono ipotesi aggiuntive rispetto a quelle individuate dalla contrattazione collettiva - le cui clausole, ove difformi, vanno sostituite di diritto ai sensi dell'art. 1339 c.c., e art. 1419 c.c., comma 2, - per le quali compete soltanto al giudice, ex art. 2106 c.c., il giudizio di adeguatezza delle sanzioni (Cass. 24574 del 2016)”.
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Con la sentenza n. 26246 del 6 settembre 2022 la sezione lavoro della Corte di Cassazione si è espressa in materia di prescrizione di crediti di lavoro affermando il seguente principio di diritto: “Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.
I fatti di causa
La Corte d’appello di Brescia aveva respinto le domande di pagamento delle differenze retributive avanzate da due lavoratrici, le sig.re M.C.P e A.B., loro spettanti per l’accertamento del diritto al riconoscimento dell’orario straordinario notturno, in quanto eccedenti la prescrizione quinquennale.
Ai fini della decorrenza della prescrizione, la Corte d’appello aveva negato che le due lavoratrici si trovassero in una condizione psicologica di timore (metus) che aveva impedito loro di avanzare le pretese creditorie relative alle predette differenze retributive durante il corso del rapporto di lavoro temendo possibili reazioni del datore di lavoro comportanti la risoluzione del rapporto di lavoro.
Alla base del ragionamento svolto dal giudice di 2° grado vi era “la permanenza della stabilità reale del rapporto di lavoro” anche dopo la novellazione dell’art. 18 legge n. 300/1970, per effetto della legge n. 92/2012 (c.d. “riforma Fornero”) e del decreto legislativo n. 23/2015 (c.d. “Jobs Act”).
La condizione psicologica di timore, secondo la Corte d’appello bresciana, non poteva essere riconosciuta a fronte del mantenimento di una tutela ripristinatoria piena in caso di licenziamento intimato per ritorsione, e dunque discriminatorio, ovvero per motivo illecito determinante.
Nel rigettare la pretesa delle lavoratrici la Corte d’appello aveva ribadito l’irrilevanza del fatto che con le predette riforme vi fosse stata un’attenuazione della tutela per un licenziamento fondato su ragioni (giusta causa o giustificato motivo) estranee alle predette rivendicazioni retributive.
Il ricorso per cassazione
Con ricorso affidato ad un unico motivo le sig.re M.C.P e A.B. impugnavano la sentenza di secondo grado davanti alla Corte di Cassazione, lamentando la violazione degli artt. 2935, 2948, n. 4, c.c., 18 l. 300/1970, 36 Cost., per avere la Corte d’appello di Brescia ritenuto, anche dopo la novellazione dell’art. 18 l. 300/1970 ad opera della riforma Fornero e del Jobs Act, la vigenza di un regime di stabilità del rapporto di lavoro.
Secondo la prospettazione delle ricorrenti, poteva intendersi “rapporto stabile di lavoro”, solo quel “rapporto che abbia come forma ordinaria di tutela quella reale, in tutte le ipotesi di licenziamento non sorretto da giusta causa o giustificato motivo, o comunque illegittimo”.
In via subordinata, le due lavoratrici hanno sollevato questione di illegittimità costituzionale degli art. 2935 e 2948, n. 4, c.c. con riferimento all’art. 36 Cost. sostenendo che un regime di stabilità del rapporto di lavoro, che sia idoneo ad impedire il timore del prestatore alla tutela dei propri diritti, non può essere integrato da un regime che preveda la tutela reintegratoria, come dispositivo sanzionatorio, per la sola ipotesi di licenziamento ritorsivo.
I principi affermati dalla Corte di Cassazione
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha accolto le argomentazioni delle lavoratrici, ritenendo fondato il ricorso dalle stesse proposto.
Nel prendere la sua decisione la Suprema Corte ha ritenuto di poter rispondere al dubbio di costituzionalità, sollevato dalle ricorrenti, senza dover interpellare la Corte Costituzionale, ma richiamando “l’insegnamento di oltre un cinquantennio di elaborazione giurisprudenziale (il c.d. diritto vivente)”.
Il focus della questione, che la Corte si è trovata a dirimere nella sentenza in commento, riguarda il momento di decorrenza della prescrizione quinquennale, ai sensi dell’art. 2948, n. 4, c.c. in relazione all’art. 2935 c.c., per i crediti retributivi del lavoratore in ragione del regime di stabilità o meno del rapporto di lavoro.
A fronte dell’indirizzo giurisprudenziale prevalente, la stabilità del rapporto di lavoro, secondo la Corte, si fonderebbe “su una disciplina che, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l'efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo”
In relazione alla prescrizione, nella sentenza la Corte ha ribadito l’importanza del principio della certezza del diritto, in quanto segno di civiltà giuridica di un Paese, in quanto consente allo Stato di essere attrattivo per investimenti e iniziative di intrapresa economica all’interno del contesto internazionale “nella crescente contendibilità tra ordinamenti, soprattutto nel mondo del lavoro e delle imprese”.
La Corte invita poi a riflettere sul doveroso coordinamento di tali principi con la disciplina dei rapporti di lavoro oggi più flessibilmente modulata in ordine alle varie forme di tutela previste nelle varie ipotesi di licenziamento.
Da tale punto di vista, emerge la necessità che il dies a quo di decorrenza della prescrizione dei diritti del lavoratore sia ancorato ad un criterio certo che soddisfi un’esigenza di conoscibilità di quelle regole che presiedono all’accesso dei diritti, alla loro tutela e alla loro estinzione.
Ne deriva che entrambe le parti del rapporto di lavoro - compreso dunque anche il datore di lavoro - siano consapevoli, fin dall’instaurazione del predetto rapporto, non solo di quali siano i diritti che ciascuno può far valere, ma anche “fino a quando” è possibile farli valere.
La Corte, nella sentenza in commento, evidenzia come anche per il datore di lavoro sia fondamentale conoscere, fin dall’instaurazione del rapporto, quali siano i tempi di possibili rivendicazioni dei propri dipendenti al fine di programmare “una prudente, e soprattutto informata, organizzazione della propria attività d'impresa e della sua prevedibile capacità di sostenere il rischio di costi e di oneri, che quei tempi comportino”.
La pronuncia distingue inoltre il “diritto al lavoro” dal “diritto al posto di lavoro”.
Mentre il primo è riconosciuto a tutti i cittadini dalla Costituzione della Repubblica, che ne deve promuovere le condizioni che lo rendano effettivo, il secondo è invece “oggetto di una regolamentazione specifica di tutela nelle relazioni interne all’impresa”.
Nelle situazioni di crisi, ricorda la Corte, la tutela del posto di lavoro può cedere di fronte a quella, di interesse più generale, del diritto al lavoro, “inteso come compatibilità del più ampio mantenimento dell'occupazione possibile con la condizione di crisi data”.
Il diritto al lavoro, nell’insegnamento dato dalla Corte Costituzionale, pur non implicando un immediato diritto al conseguimento di un’occupazione né, per coloro che siano già occupati, un diritto alla conservazione del posto, costituisce diritto fondamentale di libertà ed impone allo Stato non solo di creare le condizioni che consentano il lavoro a tutti i cittadini, ma anche di introdurre “garanzie adeguate e temperamenti opportuni nei casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti (Corte Cost. 26 maggio 1965, n. 45, Considerato in diritto, p.to 4)”.
Ai fini di una chiara individuazione del termine di decorrenza della prescrizione, occorre dunque che la stabilità o meno del rapporto di lavoro risulti:
“a) fin dal momento della sua istituzione, qualora si tratti di un rapporto esplicitamente di lavoro subordinato a tempo tanto indeterminato, quanto determinato […];
b) parimenti, qualora il rapporto sia stato stipulato tra le parti con una qualificazione non rappresentativa della sua effettività, priva di garanzia di stabilità, la quale sia poi accertata dal giudice, in relazione al concreto atteggiarsi del rapporto stesso nel corso del suo svolgimento, non già alla stregua di quella ad esso attribuita dal giudice all'esito del processo, con un giudizio necessariamente ex post (Cass. s.u. 28 marzo 2012, n. 4942; Cass. 12 dicembre 2017, n. 29774)”.
L'individuazione del regime di stabilità (o meno) del rapporto lavorativo, perché possa dirsi coerente con l’esigenza di certezza sopra illustrata, ribadisce la Corte, non può dipendere da una qualificazione del Giudice effettuata ex post.
Come noto, la riforma operata con la L. n. 92 del 2012 e con il D.Lgs. n. 23 del 2015 ha segnato il passaggio da un’automatica applicazione della tutela reintegratoria e risarcitoria ad ogni ipotesi di illegittimità del licenziamento “ad un’applicazione selettiva delle tutele, in esito alla scansione delle due diverse fasi di qualificazione della fattispecie (di accertamento di legittimità o illegittimità del licenziamento intimato e della sua natura) e di scelta della sanzione applicabile (reintegratoria e risarcitoria ovvero soltanto risarcitoria), con una sua diversa commisurazione (se in misura cd. "piena" o "forte", ovvero "attenuata" o "debole") assolutamente inedita (ex plurimis: Cass. 21 giugno 2018, n. 16443, in motivazione, p.to 9.2)”.
Nonostante gli sforzi della giurisprudenza volti ad estendere i casi in cui può essere disposta la tutela reintegratoria, quest’ultima ormai non costituisce più la forma ordinaria di tutela “contro ogni forma illegittima di risoluzione”.
Neppure può dirsi che il quadro normativo sia stato modificato dalle recenti sentenze della Corte Costituzionale (del 7.4.2022, n. 125 e del 24.02.2021, n. 59) con le quali è stata “dichiarata l'illegittimità costituzionale del novellato testo del L. n. 300 del 1970 art. 18 comma 7, nelle parti in cui prevedeva, ai fini di reintegrazione del lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo, l'insussistenza "manifesta" del fatto posto alla base del recesso (Corte Cost. 7 aprile 2022, n. 125) e che il giudice potesse, ma non dovesse (dovendosi leggere "può" come "deve"), disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (Corte Cost. 24 febbraio 2021, n. 59)”.
Nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione, preso atto del mutato quadro normativo e tenuto conto degli orientamenti della giurisprudenza anche costituzionale, ha ritenuto l’attuale regime delineato dall’art. 18 della L. 300 del 1970 non in grado di assicurare un’adeguata stabilità del rapporto di lavoro con la conseguenza che “la prescrizione decorra, in corso di rapporto, esclusivamente quando la reintegrazione, non soltanto sia, ma appaia la sanzione "contro ogni illegittima risoluzione" nel corso dello svolgimento in fatto del rapporto stesso: così come accade per i lavoratori pubblici e come era nel vigore del testo dell'art. 18, anteriore alla L. n. 92 del 2012, per quei lavoratori cui la norma si applicava”.
La Corte di Cassazione, a conclusione del suo ragionamento, dopo aver ritenuto di escludere, “per la mancanza dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e soprattutto di una loro tutela adeguata, che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, sia assistito da un regime di stabilità”, ha affermato “la decorrenza originaria del termine di prescrizione, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012”.
Per leggere la sentenza integrale:
http://www.lavorosi.it/fileadmin/user_upload/GIURISPRUDENZA_2022/Cass.-sent.-n.-26246-2022.pdf
Con la sentenza in commento del 17 maggio 2022, la Corte di Giustizia, riunite le cause C-693/19 e C-831/19, si è espressa in materia di clausole abusive contenute nei contratti stipulati con i consumatori affermando che gli articoli 6 e 7 della Direttiva 93/13/CEE del Consiglio del 5 aprile 1993 “ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore” – e quindi sia divenuto definitivo -, “il giudice dell’esecuzione non possa successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole”.
Con la medesima sentenza è stata sancita l’irrilevanza, ai sensi della predetta direttiva, del fatto che, alla data in cui il decreto ingiuntivo è divenuto definitivo, il debitore ignorasse di poter essere qualificato come ‘consumatore’.
La sentenza in commento si inserisce all’interno della cornice delineata dalla Direttiva 93/13 il cui scopo è quello di tutelare la posizione del consumatore rispetto a quella del professionista, data la situazione di inferiorità in cui viene a trovarsi il primo nei confronti del secondo sia per quanto riguarda il potere negoziale sia per quanto riguarda il livello di informazione.
Nello specifico, l’art. 6, paragrafo 1, della Direttiva stabilisce che le clausole abusive non vincolano i consumatori.
Si tratta di una disposizione finalizzata a ristabilire l’uguaglianza tra le parti.
Secondo la Corte di Giustizia la norma, data la sua natura imperativa, imporrebbe al giudice, al fine di ovviare allo squilibrio esistente tra il consumatore e il professionista, di esaminare d’ufficio il carattere abusivo della clausola contrattuale.
Nella sentenza non viene messa in discussione l’importanza rivestita dal principio dell’autorità di cosa giudicata – necessario sia ai fini della stabilità del diritto e dei rapporti giuridici sia per una buona amministrazione della giustizia - neanche di fronte alla tutela del consumatore, che non può dirsi assoluta.
La Corte afferma che il diritto dell’Unione non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata a una decisione anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una violazione di una disposizione contenuta nella Direttiva 93/13, fatto salvo, tuttavia, il rispetto dei principi di equivalenza e di effettività.
Il diritto nazionale italiano non consente al giudice dell’esecuzione di riesaminare un decreto ingiuntivo avente autorità di cosa giudicata anche in presenza di un’eventuale violazione delle norme nazionali di ordine pubblico e ciò nel pieno rispetto del principio di equivalenza.
Il principio di effettività, in forza del quale le procedure nazionali non devono rendere eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento comunitario, non può tuttavia supplire integralmente alla completa passività del consumatore interessato.
A tal proposito la Corte ha precisato nella sentenza in commento che “l’obbligo per gli Stati membri di garantire l’effettività dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione implica, segnatamente per i diritti derivanti dalla direttiva 93/13, un’esigenza di tutela giurisdizionale effettiva, riaffermata all’articolo 7, paragrafo 1, di tale direttiva e sancita altresì all’articolo 47 della Carta, che si applica, tra l’altro, alla definizione delle modalità procedurali relativa alle azioni giudiziarie fondate su tali diritti”.
Senza un controllo efficace del carattere potenzialmente abusivo del contratto stipulato dal consumatore il rispetto dei diritti conferiti dalla direttiva 93/13 non può essere garantito.
La normativa nazionale prevede che, nell’ambito del procedimento esecutivo dei decreti ingiuntivi non opposti, il giudice dell’esecuzione non può esercitare un controllo nel merito del decreto ingiuntivo né controllare, d’ufficio o su domanda del consumatore, il carattere abusivo delle clausole del contratto alla base di tale decreto ingiuntivo, per via dell’autorità di cosa giudicata implicita acquisita da quest’ultimo.
La Corte afferma che una normativa siffatta “secondo la quale un esame d’ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali si considera avvenuto e coperto dall’autorità di cosa giudicata anche in assenza di qualsiasi motivazione in tal senso contenuta in un atto quale un decreto ingiuntivo può, tenuto conto della natura e dell’importanza dell’interesse pubblico sotteso alla tutela che la direttiva 93/13 conferisce ai consumatori, privare del suo contenuto l’obbligo incombente al giudice nazionale di procedere ad un esame d’ufficio dell’eventuale carattere abusivo delle clausole contrattuali”.
Le criticità rilevate dalla Corte di Giustizia in relazione alla normativa nazionale dipendono, ad avviso di chi scrive, principalmente dal tipo di procedimento da cui è originato il provvedimento definitivo: vale a dire un procedimento di ingiunzione, caratterizzato dall’assenza di contraddittorio e a cui non è seguito un procedimento a cognizione piena, stante la mancata opposizione da parte del consumatore.
La Corte di Giustizia si chiede se l’esame dell’abusività della clausola contrattuale possa considerarsi coperto dall’autorità di cosa giudicata anche in assenza di una qualsiasi motivazione in tal senso.
Proprio la natura prettamente sommaria del procedimento per ingiunzione, il cui iter, almeno nella prima fase, non è volto all’accertamento in senso proprio da parte del giudice, è stata al centro di una querelle giurisprudenziale e dottrinaria sorta intorno all’attribuzione al decreto ingiuntivo non opposto dell’efficacia di giudicato.
Molti autori hanno parlato, più che di giudicato, di preclusione pro iudicato al fine di evitare di assimilare il fenomeno della cristallizzazione degli effetti che segue alla mancata opposizione del decreto ingiuntivo a quello tipico della ‘cosa giudicata’.
In ogni caso, la giurisprudenza largamente maggioritaria (v. tra le tante Cassazione civile sez. I, 24/09/2018, n. 22465) ritiene di poter equiparare l’efficacia del decreto ingiuntivo non opposto a quella del giudicato sostanziale, il cui presupposto deve essere individuato in tal caso non nell’esistenza di un effettivo contraddittorio tra i soggetti, ma nella provocazione a contraddire, quale condizione essenziale perché il provvedimento possa acquisire una definitiva stabilità.
Sulla scorta di tali considerazioni, al giudice dell’esecuzione, in forza della normativa italiana, è fatto divieto di esercitare un controllo nel merito sul decreto ingiuntivo, nonchè di controllare, d’ufficio o su domanda del consumatore, il carattere abusivo delle clausole del contratto alla base del decreto ingiuntivo non opposto e ciò proprio a causa dell’efficacia di cosa giudicata acquisita da quest’ultimo.
Una normativa siffatta, afferma la Corte di Giustizia, in forza della quale “l’esame d’ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali si considera avvenuto e coperto dall’autorità di cosa giudicata anche in assenza di qualsiasi motivazione in tal senso contenuta in un atto quale un decreto ingiuntivo” finisce per “privare del suo contenuto l’obbligo incombente al giudice nazionale di procedere a un esame d’ufficio dell’eventuale carattere abusivo delle clausole contrattuali”.
Dall’affermazione di tali principi derivano due corollari:
Per la Corte, il principio del nostro ordinamento in forza del quale l’autorità di cosa giudicata del decreto ingiuntivo, emesso da un giudice su domanda di un creditore, che non è stato oggetto di opposizione copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità, non risulta conforme con la disciplina introdotta dalla Direttiva 93/13.
Ad avviso di chi scrive, i principi affermati dalla Corte di Giustizia danno luogo ad un contrasto solo apparente con la normativa italiana in materia di giudicato, laddove si intenda per cosa giudicata l’efficacia preclusiva tipica di un accertamento derivante da un procedimento a cognizione piena.
Non si ritiene che la Corte di Giustizia abbia inteso ridimensionare la portata del principio della cosa giudicata, del quale al contrario nella stessa sentenza in commento è stata ricordata l’importanza sia per la stabilità dei rapporti giuridici che per la buona amministrazione della giustizia.
Ad ogni modo la sentenza costringe a rimeditare e a ridimensionare la portata dell’efficacia di un provvedimento reso all’esito di un procedimento caratterizzato per la sommarietà della cognizione e per la totale assenza del contraddittorio, qual è appunto un decreto ingiuntivo non opposto.
Per leggere il contenuto integrale della sentenza clicca qui:
https://www.judicium.it/wp-content/uploads/2022/06/CGUE-GS-17-maggio-2022.pdf