Con la recentissima sentenza n. 21220 del 5 luglio 2022 la Cassazione ha affermato la nullità della clausola inserita in un contratto di assicurazione nella parte in cui non prevede il diritto dell’assicurato, convenuto dal terzo danneggiato, alla rifusione delle spese sostenute per legali o tecnici non designati dall’assicuratore. Tale clausola, costituendo una deroga in pejus all’art. 1917, terzo comma, c.c., deve considerarsi nulla in quanto violativa del disposto dell’art. 1932 c.c.

1. - I fatti di causa.

All’ingegnere omissis veniva affidato il compito di redigere il progetto esecutivo dei lavori di manutenzione straordinaria di alcuni edifici scolastici, opere che il Comune di Milano aveva appaltato nel 2012 alla società omissis.

Non avendo ricevuto il corrispettivo pattuito per l’opera professionale prestata, il professionista adiva il Tribunale di Busto Arsizio al fine di ottenere un’ingiunzione di pagamento per l’importo di 87.937,64 euro.

La società omissis si opponeva al decreto ingiuntivo non ritenendo dovuta la somma in quanto il progetto realizzato dall’ing. omissis presentava molteplici vizi e carenze che avevano costretto la società appaltatrice a sostenere ulteriori spese per correggere i predetti errori progettuali.

Di fronte alla domanda proposta dalla società appaltatrice in via riconvenzionale l’ing. omissis chiamava in causa il proprio assicuratore al fine di tenerlo indenne nel caso fosse stata accertata la sua responsabilità professionale.

Al momento della costituzione la compagnia eccepiva l’inefficacia del contratto assicurativo.

L’opposizione veniva accolta e la compagnia veniva condannata a tenere indenne l’ing. omissis dalle pretese della società appaltatrice “limitatamente alla condanna al risarcimento del danno e al netto della franchigia contrattualmente prevista”.

Contro la sentenza di primo grado l’ing. omissis proponeva impugnazione deducendo, tra i vari motivi di gravame, la mancata pronuncia da parte del Tribunale sulla sua domanda di condanna dell’assicuratore a rifondere le spese di resistenza cioè quelle sostenute per contrastare la pretesa risarcitoria della società appaltatrice ai sensi dell’art. 1917, terzo comma, c.c.

La Corte d’appello, rigettando il gravame negava il diritto dell’assicurato a pretendere la rifusione delle spese di resistenza stante la presenza di una clausola contrattuale, inserita nel contratto di assicurazione, che escludeva espressamente la rifusione di tali spese nel caso in cui l’assicurato si fosse avvalso di avvocati o periti non designati dall’assicuratore. La clausola doveva ritenersi pienamente valida non ostandovi il disposto del terzo comma dell’art. 1917 c.c. in quanto norma derogabile.

2. – Il giudizio davanti alla Cassazione.

La sentenza di secondo grado veniva impugnata davanti alla Corte di Cassazione dall’ing. omissis per un unico motivo di ricorso. Secondo il ricorrente l’art. 1917, terzo comma, c.c. non poteva considerarsi norma derogabile dalla volontà delle parti.

La Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso dell’ing. omissis.

La clausola contrattuale che subordina la rifusione delle spese di resistenza sostenute dall’assicurato al placet dell’assicuratore, costituendo una deroga in pejus all’art. 1917, terzo comma, c.c., deve considerarsi affetta da nullità.

E ciò proprio perché è la stessa legge a non imporre condizioni di sorta al diritto dell’assicurato ad ottenere il rimborso delle spese di resistenza.

Le spese di resistenza, continua la Corte, sono “spese di salvataggio” ai sensi dell’art. 1914 c.c., in quanto affrontate dall’assicurato nell’interesse comune di questi e dell’assicuratore. Le stesse sono rimborsabili nella misura in cui non siano sostenute avventatamente.

In conclusione, la Corte di Cassazione, nel cassare la sentenza di secondo grado, ha espresso il seguente principio di diritto a cui dovrà uniformarsi il giudice del rinvio: “la clausola inserita in un contratto di assicurazione della responsabilità civile, la quale stabilisca che l’assicurato, se convenuto dal terzo danneggiato, non ha diritto alla rifusione delle spese sostenute per legali o tecnici non designati dall’assicuratore, è una clausola che deroga in pejus all’art. 1917, terzo comma, c.c., e di conseguenza è nulla ai sensi dell’articolo 1932 c.c.”.

Per leggere la sentenza integrale clicca qui:

https://i2.res.24o.it/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/QUOTIDIANI_VERTICALI/Online/_Oggetti_Embedded/Documenti/2022/07/06/21220.pdf

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 41994 del 30 dicembre 2021, resa a Sezioni Unite, ha affermato importanti principi di diritto in materia di fideiussione chiarendo quale sia la sorte del contratto ‘a valle’ riproduttivo di clausole frutto di intese anticoncorrenziali.

Tra i diversi rimedi a disposizione del consumatore, la Suprema Corte di legittimità ha rinvenuto nella sanzione della nullità parziale la forma di tutela più in linea con le finalità e gli obiettivi della normativa antitrust.

1 - I fatti di causa.

La Banca, a cui si era rivolta la società A., aveva subordinato la concessione del finanziamento richiesto al rilascio da parte del sig. B.G., socio di A., di due fideiussioni che venivano sottoscritte rispettivamente nel 2004 e nel 2006.

Nel 2011 la Banca, comunicata la risoluzione del contratto e richiesta la restituzione del relativo scoperto di conto, depositava ricorso per decreto ingiuntivo davanti al Tribunale di Torino chiedendo al sig. B.G., in qualità di fideiussore, il pagamento di quanto dovuto dalla società A.

Il procedimento monitorio, in seguito all’opposizione del sig. B.G., veniva sospeso ai sensi dell’art. 295 c.p.c. avendo quest’ultimo adito nelle more la Corte di appello di Roma in unico grado al fine di sentir dichiarare radicalmente nulli, per violazione dell’art. 2, co. 2, lett. a) della L. 287 del 1990, i due contratti di fideiussione stipulati in favore della soc. A, nonché per ottenere la condanna al risarcimento di tutti i danni subiti.

In via subordinata, chiedeva di dichiararsi la nullità delle sole clausole contenute negli articoli 2, 6 e 8 dei predetti contratti di fideiussione.

La Corte d’appello accoglieva la domanda del sig. B.G. dichiarando la nullità per violazione dell’art. 2, co. 2, lett. a), della L. 287 del 1990 delle clausole contenute nei predetti artt. 2, 6 e 8 dei contratti di fideiussione.

Avverso tale decisione la Banca ha proposto ricorso per cassazione.

2. - L’ordinanza interlocutoria.

La Corte di Cassazione, investita del ricorso, con l’ordinanza interlocutoria n. 11486/2021 depositata il 30 aprile 2021, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite dando atto dell’esistenza di un contrasto in dottrina e in giurisprudenza in merito alla tutela da accordare al soggetto che abbia stipulato un contratto di fideiussione ‘a valle’ in caso di nullità delle condizioni stabilite nelle intese tra imprese ‘a monte’ per violazione dell’art. 2, co. 2, lett. a), della L. 287 del 1990.

Sono state prospettate diverse soluzioni: a) nullità totale del contratto ‘a valle’; b) nullità delle sole clausole che riproducono le condizioni dell’intesa nulla ‘a monte’; c) tutela risarcitoria.

3. – Il procedimento avviato dalla Banca d’Italia.

Nel 2003 la Banca d’Italia ha avviato un’istruttoria per verificare se lo schema negoziale tipico per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie (fideiussione omnibus) predisposto dall’ABI (Associazione Bancaria Italiana) e concordato con alcune organizzazioni a tutela dei consumatori, fosse compatibile con la disciplina dettata in materia di concorrenza.

Ai sensi dell’art. 20 della l. 287 del 1990 la Banca D’Italia ha interpellato in via consultiva l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, la quale, nel rendere il parere preliminare n. 12400, ha rilevato possibili aspetti restrittivi della concorrenza, evidenziando come lo schema di contratto predisposto dall’ABI si sostanzierebbe in “un’intesa orizzontale all’interno dell’intero sistema bancario nazionale, avente ad oggetto la fissazione di condizioni contrattuali uniformi peggiorative per la clientela rispetto a quelle altrimenti applicabili sulla base della normativa esistente”. L’Autorità Garante ha poi confermato le predette preoccupazioni con il successivo parere n. 14251 del 20 aprile 2005.

Nel mirino della Banca d’Italia sono finite quelle clausole dello schema ABI che, derogando alla disciplina civilistica della fideiussione, producono un effetto peggiorativo delle condizioni contrattuali per il fideiussore.

L’esame istruttorio si è concentrato su quelle clausole dello schema in grado di determinare effetti anticoncorrenziali in seguito ad un’eventuale adozione generalizzata da parte delle banche, in mancanza di un equilibrato contemperamento degli interessi delle parti. Tra le predette clausole vi sono:

  1. la clausola di ‘riviviscenza’ o di ‘sopravvivenza’, posta all’art. 2 dello schema ABI, in forza della quale il fideiussore è tenuto “a rimborsare alla banca le somme che dalla banca stessa fossero state incassate in pagamento di obbligazioni garantite e che dovessero essere restituite a seguito di annullamento, inefficacia o revoca dei pagamenti stessi, o per qualsiasi altro motivo”;
  2. la clausola di rinuncia ai termini ex art. 1957, prevista all’art. 6, in forza della quale “i diritti derivanti alla banca dalla fideiussione restano integri fino a totale estinzione di ogni suo credito verso il debitore, senza che essa sia tenuta ad escutere il debitore o il fideiussore medesimi o qualsiasi altro coobbligato o garante entro i tempi previsti, a seconda dei casi, dall'art. 1957 c.c., che si intende derogato”;
  3. la clausola di sopravvivenza, prevista all’art. 8, in forza della quale “qualora le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide, la fideiussione garantisce comunque l'obbligo del debitore di restituire le somme allo stesso erogate”.

Le clausole di cui sopra hanno l’effetto di addossare al fideiussore le conseguenze negative derivanti dall'inosservanza degli obblighi di diligenza della banca ovvero dall'invalidità o dall'inefficacia dell'obbligazione principale e degli atti estintivi della stessa.

In via preliminare, lo schema contrattuale predisposto dall’ABI, in quanto deliberazione di un’associazione di imprese - quali appunto sono le banche e gli istituti finanziari aderenti all’ABI -, è stato ricondotto all’interno della cornice disegnata dall’art. 2, co. 1, della L. 287 del 1990, in forza del quale “Sono considerati intese gli accordi e/o le pratiche concordati tra imprese nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari”.

La predisposizione di schemi contrattuali standardizzati in linea generale è stata ritenuta idonea alla produzione di effetti pro-competitivi nella misura in cui facilita al consumatore il confronto delle condizioni tra le varie offerte proposte sul mercato.

Tuttavia, secondo l’Autorità, l’effetto competitivo si verifica solo a condizione che le clausole uniformi non concernano tutte le caratteristiche del prodotto, in modo che residui una sufficiente possibilità per le imprese operanti nel mercato di riferimento di farsi concorrenza sul piano della differenziazione dell’offerta.

La fideiussione prestata a favore delle banche se da una parte assolve la funzione di facilitare l’accesso del debitore al credito bancario, dall’altra, rappresentando un servizio offerto dal fideiussore al debitore, costituisce anche un costo per quest’ultimo.

Ne deriva che le condizioni intercorrenti tra il fideiussore ed il creditore (la banca), nella misura in cui peggiorano la posizione del fideiussore, hanno inevitabilmente effetto anche sul costo complessivo che il debitore deve sopportare per ottenere il finanziamento.

Secondo il parere espresso dall’AGCM, la disciplina della fideiussione omnibus di cui allo schema predisposto dall’ABI presenta clausole idonee a restringere la concorrenza in quanto determinanti un aggravio economico indiretto, rendendo più difficoltoso l’accesso al credito, nonché nei casi di fideiussioni a pagamento l’accrescimento del costo complessivo del finanziamento per il debitore che dovrebbe remunerare il maggior rischio assunto dal fideiussore.

Preso atto del parere espresso dall’Autorità Garante, la Banca d’Italia, avviata l’istruttoria ai sensi dell’art. 2 della L. 287/90, ha individuato, sotto il profilo geografico, il mercato rilevante nell’intero territorio nazionale in ragione dell’estesa base associativa dell’ABI.

Al fine di integrare il contraddittorio, l’Abi è stata invitata  a presentare le proprie difese: essa, nel difendere la bontà dello schema dalla stessa ideato, ha affermato come “nella prassi, non sussiste il rischio che la fideiussione determini un aumento del costo sostenuto dal debitore per accedere al credito” in quanto “La fideiussione non può intendersi alla stregua di un servizio che il fideiussore rende al debitore, poiché l’esperienza delle operazioni bancarie indica che il garante è di norma partecipe della vicenda creditizia o dei risultati dell’attività economica finanziata; egli pertanto, avendo un interesse proprio alla concessione del credito, non necessiterebbe di alcun corrispettivo. Del tutto diversa è la fideiussione a pagamento prestata da banche, società assicurative e altri garanti istituzionali a favore di imprese in relazione a particolari esigenze o attività e, comunque, senza far uso dello schema contrattuale in esame”.

Successivamente la Banca d’Italia ha ritenuto opportuno inquadrare lo schema dell’ABI nella prassi bancaria europea, verificando come negli altri paesi (in particolare Germania, Regno Unito e Francia) vengano disciplinati gli schemi contrattuali per la fideiussione omnibus (ad es., l’autorità di tutela della concorrenza tedesca, la Bundeskartellamt, ha ritenuto che la standardizzazione contrattuale non risulta necessariamente contraria alla legge antitrust se si va a considerare il “legittimo interesse delle banche a razionalizzare i rapporti giuridici di massa, al miglioramento della tutela del cliente nei confronti della banca e all’assenza di riflessi sulle condizioni economiche applicate alla clientela”).

In relazione alla clausola ‘a prima richiesta’, la Banca d’Italia, valorizzandone la diffusione nel contesto europeo, ha ritenuto giustificato l’onere per il fideiussore determinato dalla presenza nello schema ABI di tale clausola, trattandosi in ogni caso di una previsione contrattuale funzionale a consentire l’accesso al credito.

Con il provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005, conclusa l’istruttoria, la Banca d’Italia ha invece ritenuto le clausole previste agli articoli 2, 6 e 8 dello schema ABI, nella misura in cui vengono applicate in modo uniforme, lesive della concorrenza, avendo “il precipuo scopo di addossare al fideiussore le conseguenze negative derivanti dall’inosservanza degli obblighi di diligenza della banca ovvero dall’invalidità o dall’inefficacia dell’obbligazione principale e degli atti estintivi della stessa”.

4. – La sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 41994 del 2021

Le Sezioni Unite sono state investite della questione riguardante gli effetti che, sulle fideiussioni stipulate ‘a valle’ tra la Banca e il garante abbia prodotto l’illecito antitrust rilevato ‘a monte’ dalla Banca d’Italia ovvero se, nel caso di fideiussioni rilasciate dal cliente della banca, nelle quali siano state inserite le predette clausole, la cui natura anticoncorrenziale è stata accertata dall’Autorità competente, al garante spetti una tutela ‘reale’, ossia a carattere ‘demolitorio’, oppure una tutela esclusivamente risarcitoria.

Ricostruito il contesto giurisprudenziale, tra le varie forme di tutela riconoscibili, le Sezioni Unite hanno ritenuto che l’ipotesi della nullità parziale costituisca il rimedio più in linea con le finalità e gli obiettivi della normativa antitrust.

La sanzione della nullità parziale si rivela, insieme alla tutela risarcitoria, un adeguato strumento di tutela individuale e collettivo, in quanto non si pone solo nell’interesse esclusivo del singolo, ma anche in quello della trasparenza e della correttezza del mercato posto a fondamento della normativa antitrust.

Tale strumento, oltre a salvaguardare il principio della conservazione del contratto, consente di assicurare il rispetto degli altri interessi coinvolti come quello degli istituti di credito a mantenere in vita la garanzia fideiussoria, seppur con l’eliminazione delle clausole illecite.

I contratti ‘a valle’ contrari alla normativa antitrust, affermano le Sezioni Unite, “in quanto costituenti lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti… partecipano della stessa natura anticoncorrenziale dell’atto a monte e vengono ad essere inficiati dalla medesima forma di invalidità che colpisce i primi”.

La nullità speciale delle clausole in questione, precisa la Cassazione nella sentenza in commento, discende dalla loro natura di disposizioni restrittive in concreto della libera concorrenza e non certo dalla effettuata deroga alle norme codicistiche in tema di fideiussione.

Dalla scelta interpretativa fatta delle Sezioni Unite - per la quale la nullità dell’intesa ‘a monte’ determina la ‘nullità derivata’ del contratto di fideiussione ‘a valle’, ma limitatamente a quelle clausole che costituiscono applicazione degli articoli (v. artt. 2, 6 e 8) dello schema ABI dichiarati nulli dal provvedimento della Banca d’Italia n. 55/2005 - derivano i seguenti corollari:

  • le fideiussioni per cui è causa restano pienamente valide ed efficaci, sebbene depurate dalle sole clausole riproduttive di quelle dichiarate nulle dalla Banca d’Italia;
  • tale nullità è rilevabile d’ufficio da parte del Giudice nei limiti stabiliti dalla giurisprudenza (Cass, S.U. nn. 26242 e 26243 del 2014; Cass. n. 16501 del 2018);
  • alla qualificazione di nullità parziale della fideiussione consegue l’imprescrittibilità dell’azione di nullità e la proponibilità della domanda di ripetizione dell’indebito ex art. 2033 c.c. nonché dell’azione di risarcimento danni.

Per leggere il testo integrale della sentenza clicca qui:

http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snciv&id=./20211230/snciv@sU0@a2021@n41994@tS.clean.pdf

Con la sentenza n. 14178 del 5 maggio 2022, la Corte di Cassazione ha enunciato il seguente principio di diritto: “In tema di intermediazione finanziaria, allorché sia pronunciata la condanna dell'intermediario al risarcimento del danno patito dall'investitore, in ragione dell'inadempimento ai propri obblighi, quantificato sull'assunto della perdita di integrale valore dei titoli al momento della decisione, va del pari disposta la restituzione dei titoli medesimi, quale espressione del medesimo principio di cui all'art 1223 c.c., del risarcimento effettivamente corrispondente al danno, ogni qualvolta il loro residuo valore venga reputato, al momento della decisione, pari a zero, ma non risulti altresì in giudizio l'impossibilità di un successivo incremento del valore stesso, per essere stati i titoli annullati, definitivamente ceduti o per qualsiasi altra concreta evenienza”.

1. - La vicenda in esame

Il caso affrontato dalla Corte di Cassazione trae origine da un’azione promossa da due investitori volta al risarcimento delle perdite subite con riguardo a due ordini di acquisto di obbligazioni a causa dell’inadempimento della Banca agli obblighi informativi gravanti sulla stessa in qualità di intermediario.

La domanda di risarcimento del danno, respinta in primo grado, è stata invece accolta dalla Corte d’appello di Catania che, in riforma della sentenza impugnata, ha condannato la Banca al risarcimento del danno, ritenendo che quest’ultima avesse violato l’obbligo, contrattualmente assunto, di informare gli investitori di qualsiasi violazione in negativo degli indici di rischio.

La Banca ha impugnato la sentenza di secondo grado proponendo ricorso per cassazione affidato a 4 motivi.

2. – La sentenza in commento e i principi espressi

Con la sentenza in commento, la Suprema Corte di legittimità ha ritenuto fondato solo il 4° motivo di ricorso proposto dalla Banca con il quale quest’ultima ha censurato la sentenza di secondo grado per aver violato l’art. 1223 c.c., avendo negato il diritto della banca alla restituzione dei titoli, necessario per una corretta liquidazione del danno agli investitori.

Secondo la Corte, così come in materia di responsabilità contrattuale la prova del danno deve essere data dal danneggiato, così nella materia dell’intermediazione finanziaria l’investitore è tenuto ad allegare l’inadempimento degli obblighi informativi da parte dell’intermediario, nonché a fornire la prova del pregiudizio patrimoniale subito derivante dall’investimento e del nesso causale tra l’inadempimento e il danno lamentato.

Grava dunque sull’investitore dimostrare l’avvenuta perdita del capitale investito nell’acquisto titoli in conseguenza dell’impossibilità definitiva di ottenerne il rimborso da parte dell’emittente o della difficoltà di ricollocarli utilmente sul mercato finanziario sia pure ad un prezzo notevolmente inferiore al valore nominale.

La Corte nella sentenza in esame ha poi chiarito che nel caso in cui l’investitore non sia in grado di fornire la prova dell’impossibile recupero di valore residuo dei titoli anche in futuro, i titoli andranno restituiti “ai fini del rispetto del principio dell’esatto e non superiore reintegro del pregiudizio cagionato”, in quanto l'accertato valore nullo dei titoli ad una certa data non significa mancanza di valore anche in epoca successiva.

I titoli possono, secondo regole di comune esperienza, continuare a costituire oggetto di scambio sul mercato, nella prospettiva di un futuro rimborso, sia pure parziale, del relativo importo. Il default potrebbe avere comportato non già l'estinzione del debito, ma soltanto una sospensione delle restituzioni.

Laddove invece in giudizio venga definitivamente accertata l'insuscettibilità del titolo di produrre qualunque futura utilità per il patrimonio del cliente, si potrà prescindere dalla restituzione dei titoli, non potendosi parlare in tal caso di una sicura locupletazione in mancanza della restituzione.

Iprincipi regolatori del risarcimento del danno, che richiedono che esso copra l'intero pregiudizio sofferto e non produca, invece, un indebito arricchimento del danneggiato, secondo la Corte di legittimità, “implicano la necessità, in caso di condanna dell'intermediario al risarcimento del danno patito dall'investitore, commisurato all'integrale perdita di valore dei titoli ad un dato momento (e, quindi, con rimborso della esatta somma investita, detratto solo quanto in precedenza perduto per cause indipendenti dall'inadempimento dell'intermediario) di accogliere nel contempo la domanda restitutoria dei titoli medesimi, perlomeno tutte le volte che il loro residuo valore sia stato considerato pari a zero, ma non vi sia la prova che tale rimanga in via definitiva (ad esempio, per essersi ormai il cliente definitivamente privato dei titoli senza corrispettivo, o per annullamento dei medesimi, o altre evenienze)”.

In chiave sistematica, la Corte di Cassazione nella sentenza in commento arriva alla conclusione per cui la condanna al risarcimento del danno, quando pari all’intero valore dei titoli in favore dell’investitore al momento del mancato disinvestimento, contiene in sé l’accertamento implicito del sopravvenuto venire meno della causa dell’attribuzione del pagamento di quel valore, e, dunque, anche del diritto di mantenere i titoli nel proprio patrimonio.

Afferma altresì che “Se è vero che permane la distinzione concettuale tra restituzione e risarcimento, in casi come quello all'esame il risultato finale tende a sovrapporsi, in quanto l'obbligazione risarcitoria dovuta della parte inadempiente coincide con la restituzione (di una parte) della somma investita (cfr. spunti in Cass. 11 marzo 2020, n. 7016). La causa dell'attribuzione dei titoli è nel contratto di investimento finanziario, attuato con lo specifico ordine; restituita, però, la somma pari al valore dei titoli che è andato perduto, del pari viene meno la giusta causa di attribuzione della res”.

Infine, la Corte, richiamando la regola fissata dall’art. 2041 c.c., secondo cui il nostro ordinamento non tutela spostamenti privi di causa (principio del divieto di indebito arricchimento), ha affermato che nel caso in cui i titoli non fossero restituiti, pur in mancanza di prova di una definitiva cessazione di valore, potrebbe residuare per l’intermediario l’azione di indebito arricchimento, qualora tale valore risultasse in seguito riacquisito a beneficio dell’investitore.

Per leggere il testo integrale della sentenza clicca qui:

http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snciv&id=./20220505/snciv@s10@a2022@n14178@tS.clean.pdf

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