Con l’ordinanza n. 8773 del 17 marzo 2022 la Sesta Sezione della Corte di Cassazione ha affrontato la questione della compensatio lucri cum damno con riferimento all’indennizzo previsto dall’art. 2, co. 3, della L. 210/92 in caso di complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati escludendone la cumulabilità con il risarcimento del danno aquiliano.
1 - I fatti di causa
La signora (omissis) e le sue due figlie hanno convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma il Ministero della Salute per sentir condannare quest’ultimo al risarcimento dei danni patiti iure proprio e iure successionis conseguenti alla morte di (omissis), rispettivamente marito e padre delle attrici, a causa delle complicazioni di una infezione da HCV contratta in seguito ad una trasfusione con sangue infetto.
Il Tribunale di Roma accoglieva la domanda proposta dalle attrici e rigettava l’eccezione di prescrizione del credito risarcitorio, sollevata dal Ministero della Salute.
Contro la sentenza di primo grado il Ministero della Salute ha proposto appello che veniva accolto dalla Corte d’appello di Roma: quest’ultima dichiarava il credito risarcitorio prescritto.
Le eredi di (omissis) hanno proposto dapprima ricorso per cassazione contro la sentenza d’appello, che, però, veniva rigettato; poi, ricorso per revocazione, accolto con rinvio dalla Corte di Cassazione.
Il Giudice del rinvio, tornato a decidere sull’eccezione di prescrizione, ha dichiarato prescritto il diritto al risarcimento del danno acquisito dalle attrici iure successionis confermando, però, la statuizione del Tribunale che aveva accolto la domanda di risarcimento del danno patito dalle attrici iure proprio.
La sentenza resa all’esito del giudizio di rinvio è stata impugnata dal Ministero con ricorso per cassazione affidato ad un solo motivo con cui è stata dedotta la violazione dell’art. 1223 c.c. per avere il giudice di rinvio trascurato di considerare che il ministero aveva già corrisposto alle tre eredi l’indennità una tantum prevista dall’art. 2, co. 3, della L. 210/92 pari a 150 milioni di vecchie lire.
2 – Il ricorso proposto dal Ministero della Salute
Con il ricorso il Ministero ha chiesto alla Corte di Cassazione di stabilire se la persona danneggiata da una infezione causata da emotrasfusione possa pretendere di cumulare il risarcimento del danno aquiliano con l’indennizzo previsto dall’art. 2, co. 3, della L. 210/92.
La Corte ha riconosciuto fondato il ricorso proposto dal Ministero specificando che “quando, in conseguenza di un fatto illecito, la persona danneggiata ottenga anche un vantaggio patrimoniale, quest’ultimo va defalcato dal risarcimento allorchè ricorrano due ipotesi alternative:
a) o quando il medesimo soggetto sia tenuto sia al pagamento del risarcimento, sia al pagamento dell’ulteriore vantaggio economico a favore della vittima (Sez. U, Sentenza n. 584 del 11/01/2008, Rv. 600919 – 01);
b) oppure quando il vantaggio economico percepito dalla vittima abbia una funzione lato sensu risarcitoria, a condizione che la legge consenta a chi l’ha pagato di recuperarne l’importo dal responsabile (Sez. U, Sentenze n. 12564, 12565, 12566 e 12567 del 22/05/2018)”.
Secondo la Corte, nel caso di specie, ricorreva la prima delle ipotesi citate, vista l’identità soggettiva tra il debitore del risarcimento e il debitore dell’indennizzo.
Il Ministero della Salute risulta essere il medesimo soggetto passivamente legittimato rispetto alla domanda di pagamento dell’indennizzo previsto dall’art. 2, co. 3, della L. 210/92, “in quanto soggetto pubblico che decide in sede amministrativa pronunciandosi sul ricorso di chi chiede la prestazione assistenziale” (S.U. n. 12538/2011).
Le controricorrenti ritenevano, invece, che, nel caso di specie, il principio della compensatio lucri cum damno non potesse trovare applicazione.
A fondamento della predetta eccezione deducevano la “diversità fra la natura del risarcimento loro accordato (inteso a ristorare il danno sofferto iure proprio in conseguenza della morte del rispettivo marito e padre), e la natura dell’indennizzo una tantum previsto dall’art. 2, comma 3, della legge 210/92, inteso invece ad indennizzare il diverso danno sofferto dalla vittima primaria, e che a causa della morte di quest’ultima non potrebbe che essere versato agli eredi”.
La Corte ha rigettato l’eccezione delle controricorrenti sulla base del fatto che l’indennizzo di cui all’art. 2, co. 3, della L. 210/92 spetta a queste ultime sempre iure proprio e non iure hereditario.
Tale conclusione, secondo l’interpretazione fornita dalla Suprema Corte, è desumibile dal contenuto della stessa legge n. 210/92 e cioè dal fatto che:
- “la legge parla di "aventi diritto", e "non di eredi"”;
- “tra gli aventi diritto la legge prevede un ordine successivo (la presenza del coniuge esclude il beneficio per i figli, quella dei figli esclude il beneficio per i fratelli, e così via), incompatibile con le previsioni degli artt. 571 e 581 c.c.”;
- “il beneficio è accordato ai soli familiari viventi a carico, requisito non necessario per l'acquisto della qualità di erede”;
- “l'assegno una tantum è accordato "anche nel caso in cui il reddito della persona deceduta non rappresenti l'unico sostentamento della famiglia", precisazione inspiegabile se davvero l'indennizzo di cui si discorre fosse attribuito ai superstiti jure hereditario”;
- “infine (ma è quel che più rileva), che l'indennizzo una tantum di cui alla L. n. 210 del 1992, art. 2, comma 3, spetta agli aventi diritto ivi elencati anche quando la persona contagiata, prima di morire, abbia ottenuto il riconoscimento dell'indennizzo di cui alla suddetta Legge, art. 1, come già affermato da questa Corte (ex multis, Sez. 6 L, Ordinanza n. 19502 del 23/07/2018; Sez. L -, Sentenza n. 26842 del 25/11/2020)”.
La Corte, dopo aver premesso che l’indennizzo previsto dall’art. 2, comma 3, della L. 210/92 spetta ai soli familiari indicati dalla legge che siano ‘viventi a carico’ e nell’ordine elencato dalla legge (in forza del quale l’attribuzione del beneficio al coniuge esclude l’attribuzione ai figli, così come l’attribuzione ai figli esclude il beneficio per i genitori), ha ritenuto che l’indennizzo spettasse alla sola madre, casalinga convivente, ed ha escluso dal beneficio le due figlie della vittima.
Conseguentemente l’eccezione di compensatio lucri cum damno sollevata dal Ministero è stata rigettata nei confronti delle due figlie, mentre è stata accolta nei confronti della madre, la quale ha visto ridurre il risarcimento ad essa spettante dell’importo percepito a titolo di indennizzo ex art. 2, co. 3, della L. 210/92.
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Con l’ordinanza interlocutoria n. 7628 del 9 marzo 2022 la Corte di Cassazione ha rimesso il ricorso alla Terza Sezione civile per la fissazione della pubblica udienza sulla questione riguardante l’interpretazione da dare al 3° comma dell’art. 96 c.p.c. in materia di responsabilità processuale aggravata.
1. - Il caso oggetto della sentenza.
In seguito all’impugnazione della sentenza di primo grado la Corte d’appello di Firenze, ritenendo l'appello manifestamente infondato e puramente dilatorio, condannava l’appellante alle spese per lite temeraria sulla scorta del fatto che l'unico motivo di appello dedotto, che avrebbe potuto astrattamente presentare un minimo di fondatezza, si basava su due documenti, uno dei quali non era stato riprodotto nel giudizio di secondo grado, mentre in relazione all’altro restava oscuro chi lo avesse prodotto in primo grado.
Parte soccombente nel proporre il ricorso per cassazione ha censurato la sentenza di secondo grado, con cui era stata riconosciuta la sussistenza della lite temeraria, per "Violazione o falsa applicazione di legge dell'art. 111 Cost. e dell'art. 96 c.p.c., comma 3". Secondo il ricorrente nel caso di specie non sussistevano i presupposti della mala fede ovvero della colpa grave ai fini della condanna per lite temeraria.
2. - Il contrasto giurisprudenziale.
Nell’ordinanza interlocutoria la Corte di Cassazione ha ricordato che in forza di un certo orientamento, con cui la sentenza impugnata appare in linea, la condanna ai sensi del comma 3 dell’art. 96 c.p.c. “configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., commi 1 e 2 e con queste cumulabile, volta alla repressione dell'abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro non dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di "abuso del processo", quale l'avere agito o resistito pretestuosamente (Cass., Sez. L -, Sentenza n. 3830 del 15/2/2021; Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 20018 del 24/9/2020; Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 29812 del 18/11/2019)”.
Secondo invece un altro orientamento giurisprudenziale l'elemento soggettivo manterrebbe pur sempre una sua rilevanza e per l’applicazione della condanna per lite temeraria sarebbe quanto meno necessaria la colpa grave.
La Corte richiama in merito il precedente costituito da Cass. n. 17814 del 03/07/2019 in cui l’aver proposto ricorsi per cassazione dai contenuti così distanti per un verso dal diritto vivente, per altro verso dai precetti del codice di rito come costantemente interpretati dalle Sezioni Unite, costituisce di per sè un indice della mala fede o della colpa grave del ricorrente (“Delle due, infatti, l'una: o il ricorrente - e per lui il suo legale, del cui operato ovviamente il ricorrente risponde, nei confronti della controparte processuale, ex art. 2049 c.c. ben conosceva l'insostenibilità della propria impugnazione, ed allora ha agito sapendo di sostenere tesi infondate; ovvero non ne era al corrente, ed allora ha tenuto una condotta gravemente colposa, consistita nel non essersi adoperato con la exacta diligentia esigibile (in virtù del generale principio desumibile dall'art. 1176 c.c., comma 2) da chi è chiamato ad adempiere una prestazione professionale altamente qualificata quale è quella dell'avvocato in generale, e dell'avvocato cassazionista in particolare. 6.3. Dovendo quindi ritenersi il ricorso oggetto del presente giudizio proposto quanto meno con colpa grave, il ricorrente deve essere condannato d'ufficio al pagamento in favore della società intimata, in aggiunta alle spese di lite, d'una somma equitativamente determinata in base al valore della controversia”).
Altro precedente è costituito da Cass. n. 28658 del 30/11/2017 riguardante sempre l’applicazione della condanna prevista dall’art. 385, comma 4, c.p.c., norma introdotta dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 13 successivamente abrogata dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 20, ed applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze pubblicate a decorrere dal 2 marzo 2006 (D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, comma 2).
L’art. 96, comma 3, c.p.c. ha sostituito l'art. 385, comma 4, c.p.c. con riguardo ai giudizi introdotti dopo il 4 luglio 2009.
La Corte nel precedente richiamato ha sostenuto che la condanna ai sensi dell’art. 385, comma 4, c.p.c. “a differenza di quella comminabile ai sensi dell'art. 96 c.p.c., comma 1 non richiede la domanda di parte nè la prova del danno, ma tuttavia esige pur sempre, sul piano soggettivo, quanto meno la colpa grave della parte soccombente, la quale sussiste nell'ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l'infondatezza o l'inammissibilità della propria domanda. Ebbene, il grado minimo di diligenza deve ritenersi senz'altro violato allorchè, come nel caso di specie, vengano reiterate tesi giuridiche già reputate infondate dal giudice di merito sulla base della riproposizione dei medesimi argomenti già compiutamente ed analiticamente confutati, senza tenere nella minima considerazione le ragioni per le quali erano state ritenute inaccoglibili e senza sottoporre ad alcuna critica tali ragioni. Questa Corte ha del resto già statuito che, ai fini della condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, (norma che ha sostituito l'art. 385 c.p.c., comma 4, con riguardo ai giudizi introdotti dopo il 4 luglio 2009), integra colpa grave la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente infondati, poichè ripetitivi di quanto già confutato dal giudice di appello, precisando che in tali e consimili casi il ricorso per cassazione determina un ingiustificato aggravamento del sistema giurisdizionale, risultando piegato a fini dilatori e destinato, così, ad aumentare il volume del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti, donde la necessità, anche alla luce della giurisprudenza della Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 152 del 2006), di sanzionare tale contegno ai sensi della norma suddetta (Cass. 29/09/2016, n. 19285)”.
La Sesta Sezione Civile della Cassazione, dopo aver dato atto dell’esistenza di due diversi orientamenti riguardanti l’interpretazione da dare all’art. 96, comma 3, c.p.c., ha rimesso il ricorso alla Terza Sezione per la fissazione della pubblica udienza.
Con l’ordinanza del 9 febbraio 2022, n. 4117 la Corte di Cassazione ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione riguardante la sorte del mutuo fondiario concesso in violazione dei limiti di finanziabilità richiamati dall’art. 38, co. 2, del d.lgs. n. 385/1993 (t.u.b.).
Nel ripercorrere il dibattito giurisprudenziale nato intorno alla questione, l’ordinanza interlocutoria ha ricordato che, in un primo momento, la giurisprudenza si era orientata nel senso che la sanzione della nullità prevista dall’art. 117 t.u.b. non potesse essere applicata nel caso di violazione dei limiti di finanziabilità del mutuo previsti dall’art. 38, co. 2, t.u.b. (v. in tal senso le sentenze ‘gemelle’ Cass. 26672/2013 e 27380/2013: "il D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 38, che, a tutela del sistema bancario, attribuisce alla Banca d'Italia il potere di determinare l'ammontare massimo dei finanziamenti, attiene ad un elemento necessario del contratto concordato fra le parti, qual è l'oggetto negoziale, e, pertanto, non rientra nell'ambito della previsione di cui all'art. 117 del medesimo decreto,il quale attribuisce, invece, all'istituto di vigilanza un potere "conformativo" o "tipizzatorio" del contenuto del contratto, prevedendo clausole-tipo da inserire nel regolamento negoziale a tutela del contraente debole; ne deriva che il superamento del limite di finanziabilità non cagiona alcuna nullità, neppure relativa, del contratto di mutuo fondiario" (nello stesso senso Cass. 04/11/2015, n. 22446)”).
Secondo l’indirizzo in esame l’art. 38 del t.u.b., collocandosi a tutela del sistema bancario ed avendo lo scopo di evitare che gli istituti di credito assumano esposizioni eccessive senza adeguate garanzie, costituirebbe una norma di buona condotta (non una norma-atto), la cui violazione può determinare solo l’irrogazione delle sanzioni previste dall’ordinamento ovvero essere fonte di responsabilità.
Successivamente la giurisprudenza ha mutato il proprio orientamento ritenendo che al superamento dei limiti di finanziabilità debba necessariamente conseguire la nullità del mutuo fondiario ferma la possibilità, ove ne sussistano i presupposti, di convertire il mutuo fondiario in un ordinario finanziamento ipotecario (v. Cass. 13/7/2017, n. 17352, “In tema di mutuo fondiario, il limite di finanziabilità del D.Lgs. n. 385 del 1993, ex art. 38, comma 2, è elemento essenziale del contenuto del contratto ed il suo mancato rispetto determina la nullità del contratto stesso (con possibilità, tuttavia, di conversione in ordinario finanziamento ipotecario ove ne sussistano i relativi presupposti, su istanza della banca nel primo momento utile successivo alla rilevazione della nullità), e costituisce un limite inderogabile all'autonomia privata in ragione della natura pubblica dell'interesse tutelato, volto a regolare il "quantum" della prestazione creditizia al fine di favorire la mobilizzazione della proprietà immobiliare ed agevolare e sostenere l'attività di impresa”.
La sentenza citata, se, da una parte, ha riaffermato, in linea con le sentenze ‘gemelle’, la non riconducibilità della previsione dell’art. 38 alle nullità testuali previste dall’art. 117 t.u.b., dall’altra, non ha condiviso la restante parte del percorso argomentativo, avendo individuato nella nullità virtuale - in ragione della natura pubblicistica dell’interesse economico nazionale tutelato - la sanzione da comminare al contratto di mutuo nel caso del superamento dei limiti di finanziabilità.
La sanzione della nullità sarebbe conforme all’insegnamento delle Sezioni Unite (Cass. S.U. nn. 26724 e 26725 del 2007), secondo cui “la violazione di una norma imperativa determina la nullità ogni volta che si ripercuote sulla regola negoziale e dunque sia ravvisabile un contrasto tra la norma violata ed il regolamento d'interessi sotteso al negozio”.
Il superamento del limite di finanziabilità di cui all’art. 38 t.u.b. non potrebbe configurare la violazione di una norma-comportamento in quanto, concernendo un elemento relativo alla struttura negoziale (il contenuto), quale la determinazione del "quantum" della prestazione creditizia, incide direttamente sulla fattispecie. La predetta violazione non è correlabile all'area né delle condotte poste in essere in fase pre-negoziale, né di quelle poste in essere nella fase attuativa.
Nonostante l’orientamento inaugurato con la sentenza del 2017 (Cass. n. 17352/2017) si sia ampiamento consolidato nella giurisprudenza successiva (v. ex multis Cass. nn. 19016/2017; 6586/2018; 11201/2018, 13286/2018, 22466/2018, 29745/2018, 17439/2019, 1193/2020), con l’ordinanza interlocutoria in commento la Cassazione ha ritenuto di dover rimettere all’attenzione delle Sezioni Unite alcuni aspetti, posti a fondamento del richiamato orientamento giurisprudenziale.
La Cassazione, in sede di rimessione, si è chiesta, e ciò costituisce il primo nodo problematico, “se nel caso in esame possa realmente configurarsi la nullità di cui all' art 1419 c.c., comma 1, in ragione del riscontro dell'effettivo carattere imperativo della norma violata”.
Secondo l'orientamento prevalente (inaugurato da Cass. 17352/2017), il carattere imperativo può desumersi dalla natura pubblicistica dell'interesse sotteso all’art. 38, co. 2, t.u.b., essendo ispirato ad obiettivi economici generali “attesa la ripercussione che tale tipologia di finanziamenti possono avere sull’economia nazionale”.
Nell’ordinanza interlocutoria, nella prospettiva di una possibile rimeditazione del predetto ragionamento, è stato evidenziato come, d’altra parte, si potrebbe sostenere che la disposizione violata non è costituita da una fonte normativa primaria, quale è certamente l'art. 38, ma da una fonte subordinata, da ravvisarsi nel provvedimento della Banca d'Italia (“Ora, se è vero che il compito istituzionale dall'Autorità di vigilanza è quello di garantire la trasparenza e correttezza dei comportamenti degli istituti di credito, ciò, forse, non è sufficiente per ritenere che ci si trovi al cospetto di un interesse di carattere generale, diretto cioè al perseguimento di obiettivi economici collegati all'economia nazionale” ).
Occorre accertare – continua la Corte - “se le regole prescritte dalla Banca d'Italia, in esecuzione della delega ricevuta dal legislatore, mirino di per sé a garantire il pubblico interesse; oppure mirino esclusivamente ad evitare, come ritenuto dalle sentenze "gemelle" del 2013, che l'istituto di credito assuma un'esposizione finanziaria senza un'adeguata contropartita e garanzia (facendosi riferimento all'art. 38, come norma "volta ad impedire che le banche si espongano oltre un limite di ragionevolezza a finanziamenti a favore di terzi che, se non adeguatamente garantiti, potrebbero portare a possibili perdite di esercizio"); oppure se, ancora, quest'ultimo scopo non sia, addirittura, esso stesso un interesse che, sebbene volto a tutelare in apparenza la posizione di uno solo dei contraenti, indirettamente miri a realizzare una finalità di carattere generale”.
L’interesse alla correttezza del comportamento delle banche, pur avendo innegabili riflessi sul buon funzionamento dell'intero mercato, potrebbe non essere sufficiente a far scattare la nullità virtuale, posto che, a tutela del predetto interesse, sono stati già predisposti precipui poteri di controllo e sanzionatori in capo all'autorità pubblica di vigilanza.
Come ricordato in precedenza, secondo l’orientamento prevalente (Cass. 17352/2017), la violazione dell'art. 38, riguardando la disposizione un elemento strutturale della fattispecie, darebbe luogo a nullità virtuale per violazione di norme imperative.
Anche in relazione a tale punto, la Corte suggerisce una più approfondita riflessione.
Da tale angolazione l’art. 38 t.u.b. “pur conferendo alla Banca d'Italia il potere di determinare la percentuale massima del finanziamento, che costituisce indubbiamente l'oggetto del contratto, non interferisce però sul contenuto del contratto "per aggiunta", cioè prevedendo un ulteriore elemento costitutivo della fattispecie contrattuale, ma solo "per specificazione", imponendo che un elemento intrinseco già presente nel contratto (cioè il suo oggetto) possegga una determinata caratteristica di tipo quantitativo, restando però del tutto invariata la struttura della fattispecie nei suoi fondamentali elementi tipizzati”.
Riprendendo il percorso argomentativo svolto dalle sopra richiamate sentenze ‘gemelle’, la Corte ricorda che la previsione della soglia dell'80% non va ad incidere sul sinallagma contrattuale, ma si limita a disciplinare, attraverso una regola di buona condotta, il comportamento della banca in vista della tutela della sua stabilità patrimoniale.
Un altro aspetto su cui riflettere riguarda, infine, le conseguenze che l'applicazione della sanzione della nullità produce sugli interessi in gioco.
A tal proposito, la Corte richiama quanto affermato dalle sentenze "gemelle" del 2013, secondo cui “far discendere dalla violazione della soglia la conseguenza della nullità del mutuo ormai erogato (e far venir meno la connessa garanzia ipotecaria), condurrebbe al paradossale risultato di pregiudicare, ancor più, proprio quel valore della stabilità patrimoniale della banca che la norma intendeva proteggere”.
La nullità del mutuo sarebbe invece l’unica sanzione possibile per coloro che, valorizzandone il carattere imperativo, sostengono che l’art. 38 non sia una norma volta alla tutela della stabilità della singola banca, ma sia invece diretta a proteggere un interesse pubblico economico nazionale.
D’altra parte, obietta la Corte, non è rilevabile dal contratto il mancato rispetto del limite di finanziabilità del mutuo.
La verifica del reale valore del cespite può avvenire solo attraverso valutazioni estimatorie spesso ricavabili all'esito dell'espletamento di una consulenza tecnica svolta in corso di causa.
Il rispetto del limite di finanziabilità comporta “un oggettivo riscontro fattuale” e non pone dunque una questione di validità delle dichiarazioni negoziali (v. sul punto, nello stesso senso, quanto detto da Cass. 19/11/2018, n. 29745, secondo cui “l'indicazione nel contratto di mutuo fondiario del valore del bene offerto in garanzia non assurge a requisito di forma prescritto "ad substantiam", non essendo previsto come tale dalla disciplina specifica di cui agli artt. 38 e 117 T.U.B. e non rientrando nell'ambito delle "condizioni" contrattuali di carattere economico. Ne consegue che la sua omissione non impedisce l'applicabilità del limite di finanziabilità, che è requisito di sostanza del contratto”).
L’effettivo rispetto del limite di finanziabilità non pone dunque una questione di validità delle dichiarazioni negoziali, ma di "oggettivo riscontro fattuale", ne deriva che l'indicazione del valore dell'immobile nel contratto non ha valore costitutivo.
Secondo la Corte di Cassazione la sanzione della nullità, posto che il rispetto del limite di finanziabilità è demandato ad un accertamento tecnico, “potrebbe apparire sproporzionata se ed in quanto fondata sulla verifica di valori di mercato che presentano un certo margine di opinabilità (destinato inevitabilmente ad accrescersi se, come accade nella maggioranza dei casi, l'indagine demandata al ctu viene svolta a distanza di anni dalla data di stipulazione del contratto). Tanto più che nessuna delle parti potrebbe fare affidamento sulla stabilità e soprattutto sulla validità ab origine del contratto stipulato, essendo ben possibile che il valore immobiliare, sia pure oggetto di iniziale perizia estimativa, sia stato inconsapevolmente sopravvalutato”.
Sanzionare il mutuo con la nullità determinerebbe un vantaggio obiettivamente sproporzionato per il mutuatario il quale realizzerebbe la completa liberazione dell’immobile dall'ipoteca.
Inoltre, nel caso di esecuzione individuale promossa dall'istituto di credito mutuante, la nullità darebbe luogo all’estinzione della procedura per il venir meno del titolo esecutivo, anche in danno degli eventuali creditori intervenuti non muniti di titolo.
Anomalie si verificherebbero anche nel caso di apertura di una procedura concorsuale, perché l'interesse dei creditori al rispetto della par condicio verrebbe ad essere protetto attraverso una sanzione di nullità dell'intero contratto derivante unicamente dall'illegittima costituzione della garanzia fondiaria, anziché essere tutelato con lo strumento della revocatoria.
In conclusione, la Corte, nell’ordinanza interlocutoria suggerisce di verificare se la tutela degli interessi in gioco non sia più efficacemente presidiata attraverso un’operazione che si limiti a risolvere la questione attraverso l’utilizzo di una semplice tecnica di natura qualificatoria, senza utilizzare la sanzione della nullità.
La conversione del contratto nullo presenta delle problematiche di non poco conto, in quanto, richiedendo l’ignoranza di entrambe le parti circa l’invalidità del contratto, risulta di difficile utilizzo. Inoltre, sotto il profilo processuale, richiede che l’istanza venga formulata nella prima difesa utile successiva al rilievo della nullità.
In ultima analisi, la soluzione alternativa, ipotizzata dalla Corte nell’ordinanza interlocutoria, sarebbe quella di riqualificare il contratto “alla stregua di un mutuo ipotecario ordinario, prescindendo dal nomen iuris adoperato dalle parti e sterilizzandolo delle tutele speciali previste dalla legge, in favore del mutuante, per i finanziamenti fondiari… In tal modo il rispetto del c.d. scarto di garanzia finirebbe per incidere non sul piano della validità del contratto, ma unicamente sulla possibilità di applicare, al programma negoziale posto in essere dalle parti, le peculiari conseguenze ricollegate dalla legge al finanziamento fondiario e dunque sulla possibilità per l'istituto di godere della relativa disciplina di favore”.
La parola alle Sezioni Unite…
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