Con l’ordinanza interlocutoria n. 16477 del 13 giugno 2024, la Corte di Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione di particolare importanza attinente alla possibilità di configurare la tacita rinuncia dei crediti della società, sub iudice e illiquidi, e non compresi nel bilancio finale di liquidazione, come effetto automatico della cancellazione dal registro delle imprese, con conseguente estinzione, nella pendenza del giudizio teso a farli accertare.

Nell’ordinanza in commento, la Cassazione, dato atto dell’esistenza di un contrasto sul punto, ha ricostruito i vari orientamenti giurisprudenziali.

A partire dalla sentenza n. 6070/2013 delle Sezioni Unite che ha chiarito che “qualora all'estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale, tuttavia, dal lato attivo, i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, “con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un'attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo”, si sono sviluppati due indirizzi.

Un indirizzo conforme ritiene che l'estinzione di una società conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, ove intervenuta nella pendenza di un giudizio dalla stessa originariamente intrapreso, determini anche l'estinzione delle mere pretese azionate, nonché dei diritti ancora incerti o illiquidi.

Espressione di tale principio è sicuramente Cass., Sez. 1, n. 25974/2015 secondo cui “l'estinzione di una società conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, ove intervenuta nella pendenza di un giudizio dalla stessa originariamente intrapreso, non determina il trasferimento della corrispondente azione in capo ai soci, atteso che dal fenomeno di tipo successorio derivante dalla suddetta vicenda, riguardante esclusivamente gli eventuali rapporti giuridici (afferenti le obbligazioni ancora inadempiute, oppure i beni o i diritti non compresi nel bilancio finale di liquidazione) non venuti meno a causa di quest'ultima, esulano le mere pretese, benché azionate in giudizio, e i diritti ancora incerti o illiquidi necessitanti dell'accertamento giudiziale non concluso, il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente, quindi, di ritenere che la società vi abbia implicitamente rinunciato con conseguente cessazione della materia del contendere”.

Nel solco di questo indirizzo si è inserita Cass., Sez. 3, n. 15782/2016 precisando che si verificherebbe una sorta di presunzione qualificata di rinuncia alle pretese così definibili.

In forza della predetta presunzione non si determina alcun fenomeno successorio nella pretesa sub iudice, “sicché i soci della società estinta non sono legittimati ad impugnare la sentenza d'appello che abbia rigettato questa pretesa”.

Le conclusioni di cui sopra non sono state condivise dall’orientamento giurisprudenziale successivo.

In particolare, per Cass., Sez. 1, n. 9464/2020 la cancellazione dal registro delle imprese, ove intervenuta nella pendenza di un giudizio, non determinerebbe l'estinzione della pretesa azionata, “salvo che il creditore abbia manifestato, anche attraverso un comportamento concludente, la volontà di rimettere il debito comunicandola al debitore e sempre che quest'ultimo non abbia dichiarato, in un congruo termine, di non volerne profittare”.

Anche per Cass, Sez. 6-1, n. 30075/2020 non può ritenersi automaticamente rinunciato il credito controverso “atteso che la regola è la successione in favore dei soci dei residui attivi, salvo la remissione del debito ai sensi dell'art. 1236 cod. civ., che deve essere allegata e provata con rigore da chi intenda farla valere, dimostrando tutti i presupposti della fattispecie, ossia la inequivoca volontà remissoria e la destinazione della dichiarazione ad uno specifico creditore”.

Ponendosi in contrasto con i predetti precedenti giurisprudenziali, la Cassazione con la sentenza, Sez. 3, n. 21071/2023 ha invece ritenuto che: “la successione dei soci non opera in relazione ai crediti illiquidi e inesigibili non compresi nel bilancio finale di liquidazione, i quali si presumono tacitamente rinunciati a beneficio della sollecita definizione del procedimento estintivo della società, salva la prova contraria da parte di colui che intenda far valere la corrispondente pretesa, senza che assuma rilievo, a tal fine, la dichiarata qualità di ex socio o di liquidatore, non necessariamente implicante la successione dal lato passivo nel correlativo obbligo”.

Ricostruito il contrasto giurisprudenziale sul tema, la Corte, nell’ordinanza interlocutoria in commento, ha poi rilevato come l’orientamento sotteso alla pronuncia delle Sezioni Unite – e che propende per il verificarsi di una presunzione assoluta di rinuncia, correlata a un intento abdicativo di per sé discendente dalla cancellazione – determini non poche criticità.

La Cassazione ha evidenziato come sia irrazionale configurare come elemento distintivo l’idoneità della posta creditoria a essere iscritta nel bilancio finale, ponendosi il predetto criterio discretivo in contrasto col principio contabile generale per cui “ogni credito, in verità, ancorché illiquido o incerto, va iscritto (e quindi può essere iscritto) in bilancio al valore presumibile di realizzo (art. 2426 cod. civ.)”.

Altresì problematica è la configurazione di un’automatica riconduzione della cancellazione dal registro delle imprese alla fattispecie della rinuncia, “pur in presenza di circostanze logicamente non compatibili, come la coltivazione del giudizio per l’accertamento del credito da parte del liquidatore”.

In ragione delle oggettive difficoltà riscontrate, le due sentenze dapprima citate – ci si riferisce a Cass. n. 9464/2020 e a Cass. n. 30075/2020 – hanno trovato un punto di equilibrio nell’affermazione di una presunzione inversa, escludente ogni automatismo (“la cancellazione della società non determina la automatica rinuncia del credito controverso, perché la remissione del debito presuppone una volontà inequivoca in tal senso, che deve essere specificamente allegata e provata”.

Con Cass. n. 21071/2023 la Terza Sezione della Cassazione ha posto nuovamente al centro la questione riguardante l’automatismo, ma questa volta dal punto di vista della ripartizione dell’onere della prova avendo affermato che “la volontà abdicativa si presume fintanto che non sia dimostrato il contrario, vale a dire che il credito, originariamente azionato dalla società e per definizione illiquido, non è stato implicitamente rinunciato”.

Rilevato il predetto contrasto giurisprudenziale, la Cassazione, dando altresì atto che, per la particolare importanza della questione, la stessa sia suscettibile di riproporsi in un numero indeterminato di casi, ha rimesso gli atti alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

Con ordinanza n. 4569 del 23 aprile 2024 il Tribunale di Venezia ha disposto il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di Cassazione per la risoluzione della questione di diritto attinente all’ammissibilità della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà su beni immobili, nonché all’eventuale indicazione del perimetro del sindacato giudiziale sull’atto di rinuncia. 

1. - Il caso di specie 

Con atto stipulato davanti ad un notaio i signori C.S. e C.L. hanno rinunciato unilateralmente ad un immobile di loro proprietà che diveniva di proprietà pubblica ai sensi dell’art. 827 c.c.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, al fine di ottenere l’accertamento e la dichiarazione di nullità del predetto atto di rinuncia, citava in giudizio i signori C.S. e C.L. deducendo l’inefficacia dell’atto da loro posto in essere in quanto atto “inconfigurabile nell’ordinamento, privo di causa lecita e violativo del divieto di abuso del diritto”.

Nel giudizio in oggetto veniva disposta ctu al fine di verificare “se il terreno oggetto di causa sia soggetto a rischio idrogeologico ed in che misura sussista probabilità che lo stesso sia interessato da fenomeni franosi”.

Successivamente il Tribunale di Venezia, vista l’istanza formulata dal Ministero, ha ritenuto ammissibile il rinvio pregiudiziale degli atti ai sensi del nuovo art. 363-bis c.p.c. alla Corte di Cassazione in merito alla questione della rinuncia abdicativa unilaterale al diritto di proprietà su beni immobili.

2. – Le gravi difficoltà interpretative 

In ordine al requisito delle “gravi difficoltà interpretative” richiesto dal n. 2 dell’art. 363-bis c.p.c. il Tribunale, nell’ordinanza in commento, ha richiamato le argomentazioni già espresse nel decreto della Prima Presidente della Cassazione del 28-29 febbraio 2024 (la pronuncia è stata oggetto di un nostro precedente commento. Vedi sul nostro sito La rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare: una questione controversa da rinviare alle Sezioni Unite). 

Il Tribunale ha dunque richiamato le diverse posizioni assunte da dottrina e giurisprudenza con riferimento all’ammissibilità in via generale dell’istituto della rinuncia abdicativa nel nostro ordinamento. 

Il contrasto, come già ricordato, si è concentrato su diversi argomenti: “sulle antitetiche interpretazioni fornite dell’art. 827 c.c., quale mera disposizione di chiusura ovvero base giuridica dell’istituto, della positivizzazione di talune ipotesi di rinuncia, da alcuni ritenute di natura abdicativa, da altri ammissibili solo in quanto comportanti l’estinzione di diritti reali minori o della quota di comproprietà, con conseguente riespansione della piena proprietà che non rimarrebbe “acefala” (artt. 1104, 1070, 963 c.c.) ovvero di fattispecie di rinunzia traslativa (art. 1350 n. 5 e 2643 n. 5 c.c.), nonché dei differenti orientamenti sulla nullità o meno dei negozi aventi ad oggetto tale rinuncia ex artt. 1418, 1343 e/o 1344 c.c.”. 

In conclusione, il Tribunale, accertata la sussistenza anche degli altri presupposti richiesti dall’art. 363-bis c.p.c., ha sospeso il procedimento sino alla restituzione degli atti da parte della Cassazione.

Per leggere il testo integrale dell’ordinanza clicca qui:

https://www.cortedicassazione.it/resources/cms/documents/RG.5943_20_Ord_Preg._Trib_Venezia_ns.RG.11382_24_oscuramento_noindex.pdf

Con la sentenza n. 96 del 3 giugno 2024 la Corte Costituzionale si è espressa sul nuovo art. 171-bis c.p.c. ammettendo un’interpretazione adeguatrice della norma in esame che sia rispettosa del principio del giusto processo e che sia idonea a garantire il pieno rispetto del diritto di difesa e del contraddittorio.

1. - L’ordinanza di rimessione

Con l’ordinanza del 23 settembre 2023, il Tribunale di Verona, sezione prima civile, ha sollevato diverse questioni di legittimità costituzionale del nuovo art. 171-bis c.p.c. in riferimento agli artt. 3, 24, 76 e 77 Cost.

Nell’ordinanza di rimessione il Giudice a quo ha evidenziato come la disposizione censurata, nell’ambito del nuovo processo civile riformato dal d.lgs. 149/2022, rivesta un ruolo centrale “in quanto ha la funzione, nell’intento di realizzare la concentrazione processuale che caratterizza la nuova fase introduttiva e di trattazione, di evitare che alla prima udienza il giudice sia chiamato a compiere le verifiche preliminari, anticipandole al decreto di fissazione dell’udienza”.

Tra le questioni di costituzionalità sollevate, di particolare rilievo è quella che ha portato il Tribunale a dubitare della conformità dell’art. 171-bis c.p.c. all’art. 24 Cost., nella misura in cui la disposizione censurata prevede l’emanazione, con decreto, di provvedimenti di carattere interlocutorio fuori udienza e senza alcun contraddittorio preventivo con le parti.

Secondo la Corte Costituzionale, l’art. 171-bis c.p.c., sotto un primo aspetto, sarebbe volto proprio al rispetto del principio del contraddittorio, onerando il Giudice, sin dal decreto di fissazione dell’udienza, di indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione.

Le parti sono sollecitate a sviluppare la propria posizione sulle questioni sollevate già nelle memorie di cui all’art. 171-ter c.p.c. e potranno discuterne all’udienza di prima comparizione.

Sotto altro aspetto, afferma la Corte Costituzionale, la disposizione censurata, “nella sua formulazione testuale, non garantisce allo stesso modo il contraddittorio laddove prevede che il giudice, prima dell’udienza di comparizione ex art. 183 cod. proc. civ. e delle memorie integrative ex art. 171-ter cod. proc. civ., operi le verifiche preliminari dalla stessa prescritte e adotti i provvedimenti conseguenti”.

È infatti stabilito che il giudice possa andare oltre e decidere direttamente tali questioni – ci si riferisce alle questioni di rito rilevabili d’ufficio riguardanti ad es. la notifica degli atti introduttivi del giudizio, la regolarità della rappresentanza delle parti, la necessità o opportunità che il giudizio si svolga anche con la partecipazione di un altro soggetto – con decreto, anticipatamente rispetto all’udienza di prima comparizione.

La decisione viene presa senza che le parti siano chiamate ad interloquire su di esse o abbiano la possibilità di farlo.

Da questo punto di vista, sostiene la Corte, il decreto è in grado di porre a carico delle parti “un onere processuale (di rinnovazione di una notificazione, di regolarizzazione della rappresentanza processuale, di integrazione del contraddittorio, di chiamata in causa di un terzo), che, se inadempiuto, comporta conseguenze pregiudizievoli per le parti, finanche l’estinzione del processo”.

La possibilità per le parti di aver voce all’udienza di prima comparizione in relazione alle scelte compiute nel decreto non è effettiva, venendo meno “il dialogo tra il giudice e i difensori sui vizi del contraddittorio, degli atti introduttivi e delle formalità di costituzione”.

Nonostante la censura del giudice rimettente abbia colto una possibile compressione del diritto di difesa in relazione alla norma in esame, la Corte Costituzionale, nella sentenza in commento, ritiene di poter superare il dubbio di legittimità costituzionale grazie ad un’interpretazione adeguatrice dell’art. 171-bis c.p.c.

2. - I principi espressi dalla Corte Costituzionale

Il giudice, nell’ambito del potere di direzione del processo sancito dall’art. 175 c.p.c. e più in generale dall’art 127 c.p.c.  deve, in ogni caso, assicurare il rispetto del contraddittorio e, in forza dell’art. 101, co. 2, c.p.c. quando accerta che dalla sua violazione possa derivare una lesione del diritto di difesa, è tenuto ad adottare i provvedimenti opportuni.

Ne deriva che in occasione delle verifiche preliminari di cui all’art. 171-bis c.p.c., il giudice “può apprezzare egli stesso la necessità, in concreto, che le parti interloquiscano in ordine all’oggetto del decreto che è chiamato ad adottare prima dell’udienza di comparizione”.

A questo scopo, ha la possibilità di fissare, prima dell’emanazione del decreto previsto dalla disposizione censurata un’udienza ad hoc così come, ove lo ritenga opportuno, di concedere termini alle parti per il deposito di note scritte.

Nel caso in cui invece il giudice ritenga di adottare senz’altro il decreto le parti possono chiedere la fissazione di un’udienza ad hoc.

Ciò consentirebbe un’anticipazione della discussione sulla questione controversa, evitando in tal modo che, dispiegandosi il contraddittorio solo all’udienza di trattazione, il giudizio possa subire una regressione.

È d‘altra parte evidente come in entrambi i casi la fissazione di un’udienza ad hoc comporti inevitabilmente il differimento dell’udienza di prima comparizione con allungamento dei tempi processuali.

Pertanto, nel contesto di un’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata, afferma la Corte Costituzionale, “l’art. 175 cod. proc. civ. non può essere piegato fino a far ritenere un vero e proprio obbligo processuale del giudice, essendo il suo potere direttivo essenzialmente discrezionale”.

Nel caso in cui il giudice ritenga di non frapporre un’udienza anticipata nell’ordinario iter processuale al solo fine di realizzare il contraddittorio tra le parti su singole questioni di rito, la realizzazione del contraddittorio è inevitabilmente differita all’udienza di cui all’art. 183 cod. proc. civ.

Ed in quella sede il giudice, prendendo in esame le ragioni delle parti, potrà, con ordinanza, confermare, modificare o revocare il decreto emesso in precedenza.

Nella sentenza in commento la Corte Costituzionale affronta anche il caso in cui una delle parti si sia attivata chiedendo al giudice la fissazione di un’udienza anticipata al fine di realizzare il contraddittorio su una questione di rito, rilevata d’ufficio dal giudice stesso e decisa con decreto.

In tale caso, afferma la Corte, “l’ordinanza adottata nell’udienza di prima comparizione non potrà comportare preclusioni o decadenze per la parte stessa ove questa, in ipotesi, non abbia posto in essere quell’attività processuale prescritta con il decreto, confidando nella possibilità di prospettare le proprie ragioni al giudice in sede di anticipato contraddittorio tra le parti”.

In forza dell’art. 101 cod. proc. civ. il giudice è dunque tenuto ad assicurare una interlocuzione alla parte che la chiede e a realizzare, pur se ormai solo all’udienza di comparizione, quel contraddittorio sollecitato anticipatamente e che prima non ha trovato risposta.

A  conclusione del ragionamento la Corte Costituzionale ha affermato che “il sistema, per essere compatibile con il principio del contraddittorio” deve “essere ricostruito nel senso che, se una delle parti chiede la fissazione di un’udienza ad hoc per contestare il provvedimento emesso dal giudice senza averle sentite, e il giudice disattende detta istanza, non può quest’ultimo, una volta rimasto inadempiuto l’ordine in questione, assumere i provvedimenti “sanzionatori” in chiave processuale se conferma la propria decisione, dopo l’esplicazione del dovuto contraddittorio, all’udienza di trattazione, ma adotta quelli necessari per l’ulteriore corso del giudizio. La conferma comporta soltanto che la parte è onerata ad adempiere, nel termine perentorio indicato dal giudice alla stessa udienza ex art. 183 cod. proc. civ., a detto ordine giudiziale, incorrendo solo allora, in difetto, nelle ordinarie “sanzioni” processuali per la propria inattività”.

L’interpretazione adeguatrice ha come inevitabile conseguenza quella di un allungamento dei tempi del processo, ma, d’altra parte, afferma la Corte, l’art. 111, co. 2, Cost. impone che “l’esigenza della rapidità del processo insita nel canone della sua «ragionevole durata» non può pregiudicare la completezza del sistema delle garanzie della difesa e comprimere oltre misura il «contraddittorio tra le parti»”.

La disposizione censurata, conclude la Corte, per poter non essere in contrasto con l’art. 24 Cost. deve essere interpretata nel senso che “anche se le verifiche preliminari ex art. 171-bis cod. proc. civ. hanno ad oggetto questioni di rito normalmente “liquide” – e ciò giustifica la loro decisione con decreto del giudice prima dell’udienza di comparizione e trattazione in un’ottica di concentrazione e speditezza del processo, in coerenza con la ratio sottesa alla disposizione censurata e con lo spirito complessivo della legge di delega – per altro verso, non è sacrificato il contraddittorio delle parti nella misura in cui, quando emerga l’esigenza che questo debba dispiegarsi, il giudice possa adottare, nei modi sopra indicati, provvedimenti che salvaguardino il diritto di difesa”.

Per leggere il testo della sentenza integrale clicca qui:

https://www.cortedicassazione.it/resources/cms/documents/Corte_Costituzionale_n_97_2024.pdf

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