Il Tribunale ordinario di L’Aquila con ordinanza n. cronol. n. 233 del 17/01/2024, ha disposto, ai sensi del nuovo art. 363 - bis c.p.c., il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di Cassazione per la risoluzione della questione relativa all’ammissibilità nel nostro sistema giuridico della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare, nonché quella relativa all’eventuale indicazione del perimetro del sindacato giudiziale sull’atto.

Alla data di pubblicazione di questo commento, la Prima Presidente non si è ancora pronunciata sul rinvio pregiudiziale, dichiarandolo, o meno, ammissibile.

I fatti di causa

La controversia nasce in seguito all’impugnazione davanti al Tribunale di L’Aquila da parte del Ministero dell’Economia e Finanze e da parte del Demanio degli atti di rinuncia dei signori T.S. e T.M. alla proprietà di alcuni terreni siti nel Comune di Bomba ormai sostanzialmente inservibili e privi di reale valore economico, in quanto sottoposti a Vincolo di Pericolosità elevata P2 - del PAI (Piano di Assetto Idrogeologico), redatto dalla Regione Abruzzo ai sensi dell’art. 17, co. 6 ter, della L. 183/89, dell’art. 1, co. 1, del D.L. 180/98, conv. con mod. dalla L. 267/98, e dell’art. 1 bis del D.L. 279/2000, conv. con mod. dalla L. 365/2000.

Le amministrazioni attrici hanno agito al fine di ottenere la declaratoria di nullità, invalidità e, in ogni caso, di inefficacia nei confronti dello Stato degli atti di rinuncia posti in essere dai convenuti, rilevando, in via principale, l’inesistenza nel nostro ordinamento giuridico di una generica facoltà di rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare e, in via subordinata, comunque la nullità della rinuncia, attesa la non meritevolezza e/o illiceità della causa in concreto ex artt. 1322 e 1343 c.c.

Rilevata la sussistenza dei presupposti previsti per l’applicazione dell’art. 363 - bis c.p.c., norma recentemente introdotta dal d.lgs. 149/2022, il Tribunale di L’Aquila con l’ordinanza in commento ha rimesso gli atti alla Corte di Cassazione per la risoluzione delle questioni sollevate.

Due gli orientamenti a confronto

La questione relativa all’amissibilità nel nostro sistema giuridico della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare, per il giudice abruzzese, è di assoluta novità, non essendo stata mai direttamente affrontata dalla Corte di Cassazione.

Il tema è stato solo incidentalmente toccato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 2 del 20 gennaio 2020 in tema di espropriazione per pubblica utilità e dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 1907 del 4 marzo 1997 in tema di risarcimento del danno da occupazione appropriativa.

Nell’ordinanza in commento, il Tribunale aquilano ha ricostruito l’annoso dibattito dottrinario e giurisprudenziale sorto intorno alla questione dell’ammissibilità della rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare.

L’orientamento favorevole, facendo leva sugli artt. 827, 1118, co. 2, 1350, n. 5, e 2643, n. 5, c.c., configura la rinuncia come “un negozio giuridico unilaterale, non recettizio, con il quale un soggetto, il rinunciante, nell’esercizio di una facoltà, dismette una situazione giuridica di cui è titolare, ovvero un diritto del suo patrimonio, senza che ciò comporti trasferimento del diritto in capo ad altro soggetto, né automatica estinzione dello stesso”.

Da questo punto di vista, la rinuncia abdicativa, non producendo alcun effetto traslativo-derivativo si differenzia dalla rinuncia c.d. traslativa, propria delle fattispecie di c.d. abbandono liberatorio di cui agli artt. 1170, 882, 550 e 1004 c.c., in quanto in quest’ultima ipotesi la rinuncia alla proprietà non ne produce la ‘vacanza’, passando la titolarità del bene in capo, ad es., al proprietario del fondo dominante o al proprietario confinante, agli altri eredi o agli altri comproprietari.

A sostegno dell’orientamento favorevole milita l’art. 827 c.c., che, nel disciplinare i c.d. beni immobili vacanti, sottende la possibilità che possano esistere beni immobili privi di proprietario.

Non si tratterebbe di una norma residuale finalizzata cioè a dare copertura a fattispecie imprevedibili ed estreme, ma, secondo quanto riportato nell’ordinanza in commento, “esprimerebbe piuttosto un principio cardine del sistema, che prevede l’intervento dello Stato laddove non sia esigibile la prestazione richiesta al singolo privato”. Il medesimo principio opera anche in materia successoria laddove, in mancanza di successibili, l’eredità, in forza dell’art. 586 c.c., anche quando comprensiva di beni immobili, viene devoluta allo Stato.

Sempre in favore di tale orientamento vi è poi l’art. 1350 c.c. che al n. 5 del comma 1 prevede tra gli atti che devono essere fatti per iscritto “gli atti di rinunzia ai diritti indicati dai numeri precedenti”, tra cui vi rientrerebbe anche “la proprietà di beni immobili”.

Al contrario, secondo l’orientamento che nega l’ammissibilità nel nostro ordinamento alla rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare, il n. 5 dell’art. 1350, co. 1, c.c. “dovrebbe riferirsi comunque ad accordi che abbiano ad oggetto atti di trasferimento di beni immobili, ai quali le parti rinunziano, con la conseguenza che alla rinunia al diritto di proprietà su un immobile manifestata da una parte va a corrispondere il riacquisto automatico, del diritto medesimo in capo al soggetto che prima l’aveva trasferito al rinunziante”.

Considerazioni analoghe valgono per l’art. 2643, n. 5, c.c. che non intende richiamare i diritti in sé, ma quelli nascenti da determinati contratti.

Secondo l’orientamento favorevole, anche il disposto dell’art. 1118, comma 2, c.c. propende per l’ammissibilità del negozio di rinuncia in quanto nel prevedere che “il condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni”, indirettamente ammette che una rinuncia, in linea generale, sia invece possibile.

Al contrario, per l’orientamento che nega l’ammissibilità della rinuncia, la previsione dell’art. 1118, co. 2, risulta controbilanciata dal principio opposto stabilito dall’art. 1104, co. 1, c.c. che impone a ciascun partecipante di “contribuire nelle spese necessarie per la conservazione ed il godimento della cosa comune… salva la facoltà di liberarsene con la rinunzia al suo diritto”.

In tal caso, la rinunzia, però, non renderebbe il bene acefalo in quanto “si determinerebbe l’automatico accrescimento del diritto dei comproprietari, sui quali, correlativamente aumenterebbe anche il carico delle spese relative alla manutenzione della cosa o del muro comune”.

Il medesimo principio è ribadito anche al comma 2 dell’art. 882 c.c. in tema di rinuncia alla comproprietà del muro comune.

L’inammissibilità della rinuncia abdicativa deriverebbe dal fatto che “in tutti i casi in cui il codice civile ha espressamente ammesso la rinunzia ad un diritto reale risultano accomunati dal fatto che a fronte della rinuncia la proprietà immobiliare non rimane “acefala”, perché in tali casi la rinunzia provoca l’estinzione del diritto reale minore e la correlativa riespansione della piena proprietà ovvero, trattandosi di diritti reali minori in comunione, provoca l’accrescimento delle quote altrui sul diritto reale minore. In nessun caso, comunque, si viene ad avere un bene immobile privo di proprietario”.

La “causa in concreto” dell’atto di rinuncia

L’ordinanza in commento prosegue poi esaminando il diverso problema dell’individuazione del perimetro di sindacabilità dell’atto di rinuncia da parte dell’Autorità giudiziaria e, più in particolare, se l’atto unilaterale in questione possa ritenersi compatibile con i concetti di causa concreta e meritevolezza degli interessi.

Anche su tale questione si è registrato un contrasto in dottrina, tra chi ritiene che la rinuncia debba esprimere, ai fini della sua validità, “un interesse meritevole di tutela” e chi invece ritiene che non sia necessario che l’atto unilaterale in questione presenti “il requisito ulteriore di essere diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, come invece richiesto per i contratti atipici dall’art. 1322 comma II c.c.”.

Secondo una prima impostazione, ai fini della validità della rinuncia abdicativa, è necessario che il raggiungimento dell’effetto tipico della rinunzia, ovverosia “la perdita del diritto”, si accompagni adelementi di giustificazione economico-sociale.

Non sarebbe possibile, dunque, per il privato rinunciare al diritto di proprietà “al solo fine, egoistico, di trasferire in capo all’Erario ex art. 827 c.c. - e dunque in capo alla collettività intera - i costi necessari per le opere di consolidamento, di manutenzione, o di demolizione dell’immobile, facendo ricadere sullo Stato anche la responsabilità (sia civile: ex artt. 2051 e 2053 c.c., che penale, come nel caso di cui all’art. 449 c.p.) per i danni che dovessero in futuro occorrere a cose e/o a persone nel caso di crollo e/o rovina del medesimo immobile”.

Con la conseguenza che, in tal caso, l’atto di rinuncia deve ritenersi nullo in ragione della non meritevolezza e/o illiceità della relativa causa in concreto ex artt. 1322 e 1343 c.c. ponendosi “in palese contrasto con le istanze solidaristiche immanenti nella funzione sociale della proprietà ex art. 42 Cost., e (comunque) con gli obblighi di solidarietà economica e sociale desumibili dall’art. 2 Cost., nonché con il limite del rispetto della sicurezza dei consociati ex art. 41, comma II, Cost., l’una e gli altri costituenti limite inderogabile delle prerogative dominicali ex art. 832 c.c. (cfr. T.A.R., Lombardia, 18.12.2020, n. 2553; T.A.R. Piemonte - Torino, Sez. I, 28.03.2018, n. 368; Trib. Ancona, Sez. I, 15.06.2021, n. 771; Trib. Genova, ord. 05.02.2019)”.

Secondo altro orientamento, l’atto di rinuncia abdicativa sarebbe incompatibile con la disciplina propria della causa, “non avendo il legislatore imposto alcun controllo espresso su tale atto di autonomia privata non si porrebbe, dunque, né un problema di valutarne la tipicità, né la necessità di accertarne la funzione economico-sociale, stante l’assenza di un rapporto di relazione tra soggetti diversi”.

Il richiamo alla funzione sociale di cui all’art. 42, co. 2, Cost., per tale orientamento, sarebbe inconferente non risultando alcuna disposizione legislativa generale che preveda una limitazione al potere dispositivo espressamente riconosciuto al proprietario dall’art. 832 c.c.

Il legislatore quando ha voluto porre limiti alla facoltà del proprietario di rinunciare alla proprietà privata di immobili lo ha espressamente disciplinato nella fattispecie normativa, come nel caso dell’art. 1118, co. 2, c.c.

Secondo tale impostazione, la funzione sociale del diritto di proprietà, in assenza di una puntuale disposizione di legge, “non potrebbe spingersi al punto tale da impedirne la rinuncia al titolare, rendendo di fatto il soggetto ‘prigioniero’ del suo diritto”.

Il fine o il motivo legato alla convenienza economica ovvero al risparmio di spesa non può rientrare nel concetto di causa illecita, non sussistendo “una norma che imponga al privato di essere generoso e altruista nella gestione dei propri affari”.

In conclusione, secondo tale orientamento “la rinuncia abdicativa non diverrebbe di per sé illegittima perché posta in essere in base a mere valutazioni di convenienza e opportunità, peraltro riscontrabili in maniera analoga nelle fattispecie di cui agli artt. 1104 e 1070 c.c. (cfr. Trib. Firenze, 15.09.2022, n. 2529, secondo cui “Al contrario, risulta invece conforme ai principi solidaristici che, in presenza di un terreno con elevata pericolosità geomorfologica, che determina una situazione di rischio per la circolazione su strada pubblica, utilizzata quindi dalla collettività, in conseguenza della rinuncia alla proprietà da parte del privato, i costosi interventi di messa in sicurezza siano finanziati con risorse pubbliche provenienti dalla fiscalità generale, anziché gravare sul singolo proprietario, del resto neppure colpevole per la conformazione del luogo e la composizione del suolo”; in senso conforme Trib. L’Aquila, 10.10.2023, n. 623; Trib. L’Aquila, 23.10.2023, n. 656; Trib. L’Aquila, 27.10.2023, n. 682)”.

Sulla base di tutto quanto sopra esposto, il Tribunale di L’Aquila, ritenendo le questioni sopra illustrate suscettibili di porsi in numerosi altri giudizi, ha sospeso il procedimento ed ha disposto, ai sensi dell’art. 363 - bis, co. 2 c.p.c. il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di Cassazione.

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https://www.cortedicassazione.it/resources/cms/documents/Ordinanza_Tribunale_LAquila_RG_233_2024_oscuramento_noindex.pdf

Per un approfondimento leggi anche:

Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza, 20 gennaio 2020, n. 2;

Con la sentenza n. 7 del 5 dicembre 2014 la Corte Costituzionale ha ritenuto infondate le censure di illegittimità costituzionale, sollevate dal giudice a quo, in relazione all’intervenuta eliminazione della tutela reintegratoria, ad opera del Jobs Act, nel caso di licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero.

L’ordinanza di rimessione

Nel corso del giudizio di impugnazione di un licenziamento intimato a conclusione di una procedura di licenziamento collettivo per ‘riduzione del personale’ ed illegittimo per violazione dei criteri di scelta del personale in esubero, la Corte d’appello di Napoli, con ordinanza del 16 aprile 2023 (reg. ord. n. 72 del 2023), ha sollevato diverse questioni di legittimità costituzionale.

Le censure sollevate dal giudice a quo si sono tutte concentrate sulla non aderenza alla Costituzione del nuovo regime sanzionatorio del licenziamento collettivo illegittimo applicabile ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 e cioè dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge delega 10 dicembre 2014, n. 183 (Jobs Act).

In forza della nuova disciplina, il giudice, anche nel caso in cui venga riscontrata l’illegittimità del licenziamento per la violazione dei criteri di scelta del personale in esubero, è tenuto ad applicare un regime sanzionatorio meramente indennitario che prevede il pagamento di una indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale “in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità” (art. 3, co. 1, d.lgs. n. 23/2015).

Tali limiti sono stati successivamente ampliati rispettivamente in 6 e 36 mensilità dal d.l. 12 luglio 2018, n. 87, conv. con mod. dalla l. 9 agosto 2018, n. 96.

Per la Corte d’appello di Napoli, la misura afflittiva prevista per la fattispecie in esame, deve considerarsi manifestamente disomogenea sia rispetto alla misura ripristinatoria applicabile alla generalità dei lavoratori, i cui rapporti di lavoro si sono costituiti ante marzo 2015, ed è, al contempo, significativamente inferiore rispetto alla misura indennitaria applicabile ai rapporti costituiti dopo il  marzo  2015,  ma risolti dopo la novella del 2018, che, come già ricordato, ha esteso fino a 36 mensilità l’indennizzo di cui all'art. 3, 1° co., del d.lgs. n. 23 del 2015.

In conclusione, la Corte d’appello di Napoli, nel rimettere la questione alla Corte Costituzionale, ha rilevato come il diversificato regime di tutela, applicabile al caso in esame, sia “suscettibile di essere concretamente modificato da una pronuncia della Corte costituzionale che accerti le prospettate censure di costituzionalità di eccesso di delega, ovvero di violazione dei parametri della stessa e comunque l’irragionevolezza del sistema sanzionatorio applicabile”.

La tutela reintegratoria nel tempo: dalla Riforma Fornero al Jobs Act

La misura della reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato – ha ricordato la Corte Costituzionale in un breve excursus storico contenuto nella sentenza in commento – è stata introdotta dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (l. 20 maggio 1970, n. 300) a completamento della disciplina prevista dalla l. 15 luglio 1966, n. 604 in materia di licenziamenti individuali.

Negli anni successivi l’area di applicazione di tale misura, poiché considerata una conquista irretrattabile contro i licenziamenti illegittimi, ha conosciuto una fase di forte espansione, essendo stata estesa anche al licenziamento collettivo illegittimo dall’art. 24 della l. 23 luglio 1991, n. 223 (in applicazione della Direttiva 75/129/CEE del 17 febbraio 1975).

Nel complesso di un disegno riformatore, avviatosi con la l. 28 giugno 2012, n. 92 (riforma Fornero) e volto a favorire una maggiore flessibilità in uscita dal posto di lavoro, l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori è stato “novellato e, soprattutto, ‘frantumato’ in plurimi regimi di tutela nei confronti del licenziamento individuale illegittimo, superando quella che fino ad allora era stata l’unicità della tutela reintegratoria per i licenziamenti individuali e collettivi”.

La logica di fondo che ha accompagnato l’intervento riformatore del 2012, per la Corte Costituzionale, è rappresentata dal fatto che “non tutti i licenziamenti illegittimi sono uguali”.

Sulla base di tale presupposto, con la nuova disciplina il legislatore ha ritenuto di riservare la tutela reale solo ai casi di licenziamenti la cui illegittimità fosse conseguenza di una violazione “più grave”, residuando in tutti gli altri casi il rimedio della compensazione indennitaria.

Con particolare riferimento ai licenziamenti collettivi, la l. 28 giugno 2012, n. 92 ha eliminato la misura della reintegrazione nel caso in cui l’illegittimità del licenziamento sia legata alla violazione di regole del procedimento (di derivazione europea), e l’ha conservata nel caso di licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta, legali o previsti da accordi sindacali.

La violazione, in tale secondo caso, “è stata ritenuta evidentemente più grave”.

La Riforma Fornero ha sensibilmente ridimensionato l’area di applicabilità della tutela reintegratoria a favore di quella indennitaria di tipo compensativo.

Alla disciplina introdotta nel 2012 si è aggiunta quella del Jobs Act (legge delega n. 183/2014) con cui è stato introdotto un nuovo tipo di contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato c.d. “a tutele crescenti”, fattispecie “maggiormente attrattiva per i datori di lavoro in ragione sia della limitazione dell’area di applicazione della tutela reintegratoria, sia della calcolabilità dell’indennizzo compensativo del licenziamento illegittimo”.

In attuazione del Jobs Act è stato emanato il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 che ha ulteriormente ridimensionato l’area di applicabilità della tutela reintegratoria nei casi di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo e l’ha esclusa del tutto nel caso di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo.

Nell’ambito del medesimo disegno riformatore, con riferimento ai licenziamenti collettivi e limitatamente ai lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti, è stata soppressa la tutela reintegratoria, prevedendo quella indennitaria, anche nel caso di licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta del personale in esubero, conservandola nel solo caso di licenziamento intimato senza l’osservanza della forma scritta.

Nella sentenza in commento è stato altresì ricordato che l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, così come modificato dalla Riforma Fornero (l. 28 giugno 2012, n. 92), è stato oggetto di due pronunce di incostituzionalità (sentenze n. 59 del 2021 e 125 del 2022) che sono andate ad incidere sulla disciplina del licenziamento individuale economico, accordando la tutela reintegratoria in caso di insussistenza – e non più di ‘manifesta’ insussistenza – del giustificato motivo oggettivo allegato dal datore di lavoro quale causale del recesso (sullo stesso argomento, v. L’illegittimità costituzionale del requisito della “manifesta” insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per g.m.o.).

Il d.l. 12 luglio 2018, n. 87 è intervenuto, quanto alla disciplina dei licenziamenti individuali, incrementando la misura dell’indennizzo, e confermando, per il resto, il meccanismo delle cosiddette tutele crescenti in progressione lineare (e certa) con l’anzianità di servizio in caso di licenziamento illegittimo.

La decisione della Corte Costituzionale

Nella sentenza in commento, la Corte Costituzionale, dopo aver ripercorso il passaggio da un “regime ampio ed uniforme della tutela reintegratoria, in vigore per molti anni (dal 1970 fino al 2012)”, ad uno “differenziato secondo la ‘gravità’, in senso lato, della violazione che inficia la legittimità del licenziamento (intimato dopo il 18 luglio 2012) e, per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015, ulteriormente differenziato con un maggiore restringimento dell’area della tutela reale e ampliamento di quella indennitaria”, è passata ad esaminare la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice a quo.

Per la Corte d’appello di Napoli, la legge delega n. 183/2014 (Jobs Act) aveva previsto l’eliminazione della tutela reintegratoria, con concentrazione nella sola tutela indennitaria, unicamente per i “licenziamenti economici” da intendersi nel senso di licenziamenti individuali “economici” (ossia per giustificato motivo oggettivo).

L’espressione non poteva essere estesa a tal punto da ricomprendere anche i licenziamenti collettivi per riduzione di personale.

Poiché il legislatore delegato con la successiva emanazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, aveva invece ricompreso nel sintagma “licenziamenti economici” anche i licenziamenti collettivi, quest’ultimo, per la Corte rimettente, aveva violato i principi fissati dal Jobs Act per eccesso di delega.

La Corte Costituzionale, nella sentenza in commento, ha ritenuto la predetta censura infondata sia in ragione dell’interpretazione letterale che di quella sistematica.

Ricostruito l’iter di approvazione della legge delega, nel passaggio al Senato, ha ricordato la Corte Costituzionale, l’approvazione della delega è avvenuta con la puntualizzazione che nei “licenziamenti economici” – termine utilizzato indubbiamente in senso atecnico – rientrassero anche i licenziamenti collettivi. Pertanto, sul piano dell’interpretazione letterale, non vi è dubbio che “l’espressione «licenziamenti economici» si presenta, nel linguaggio corrente, come una formula duttile, la cui ampiezza semantica è potenzialmente idonea ad essere adoperata in senso onnicomprensivo per includere, sia la categoria dei licenziamenti individuali «economici», perché per giustificato motivo oggettivo (id est, per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento), sia i licenziamenti collettivi con riduzione di personale per “ragioni di impresa”, come tali anch’essi «economici»”.

In ogni caso, a far ritenere ricompresi nel concetto di “licenziamenti economici”’ anche i licenziamenti collettivi vi è la stessa ratio legis ovvero i principi e i criteri direttivi che hanno ispirato la legge delega e più in generale le riforme del 2012 e del 2014.

Sul piano logico-sistematico, la disposizione censurata “risulta essere conforme alla finalità della legge-delega di incentivare le nuove assunzioni e favorire il superamento del precariato sì da costituire un coerente sviluppo e completamento della disciplina, in simmetria, dei licenziamenti economici, sia individuali per giustificato motivo oggettivo, sia collettivi per riduzione di personale”.

Per la Corte, se la logica di fondo che ha ispirato le riforme del 2012 e del 2014 è stata quella di riservare la tutela reintegratoria solo ai casi di violazioni più “gravi” di licenziamenti illegittimi, “la mancanza del giustificato motivo oggettivo del licenziamento individuale costituisce un’ipotesi non meno grave ed evoca, anzi, un controllo giudiziale più penetrante – in termini di giustificatezza, o no, del recesso datoriale – di quello richiesto dalla verifica dei criteri di scelta dei lavoratori destinatari di un licenziamento collettivo, di cui viene in rilievo (non la giustificatezza, ma) la identificazione della fattispecie sulla base degli indici formali del previo confronto sindacale e del numero dei lavoratori licenziati in un determinato periodo di tempo”.

Infine, anche le altre questioni di incostituzionalità sollevate dal giudice a quo sono state ritenute infondate dalla Corte Costituzionale.

Per leggere il Comunicato della Corte Costituzionale del 22 gennaio 2024 clicca qui: “Jobs Act: non è illegittima la disciplina dei licenziamenti collettivi

Per leggere il testo della sentenza integrale clicca qui: https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?param_ecli=ECLI:IT:COST:2024:7

Sullo stesso tema leggi anche sul nostro sito:

L’illegittimità costituzionale del requisito della “manifesta” insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per g.m.o.

Contratto a tutele crescenti: il rimedio solo indennitario previsto in caso di licenziamento per g.m.o. illegittimo.

Con la sentenza n. 36197 del 28 dicembre 2023, le Sezioni Unite della Cassazione hanno ribadito il principio in forza del quale la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato decorre sempre in costanza di rapporto, non potendosi configurare nei rapporti con la pubblica amministrazione un timore condizionante le scelte del lavoratore (metus).

1. – L’ordinanza interlocutoria.

L’ordinanza interlocutoria del 28 febbraio 2023, n. 6051 ha evidenziato la necessità di rimeditare la questione riguardante la decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori assunti a seguito di procedura di stabilizzazione, dopo lo svolgimento di rapporti di lavoro regolari e dotati di stabilità reale, in ragione dell’evoluzione socio-economica dei rapporti di lavoro e dei significativi mutamenti normativi che hanno interessato il pubblico impiego (per un commento di tale pronuncia si veda sul nostro sito “La decorrenza della prescrizione nel pubblico impiego privatizzato: la Sez. Lavoro rimette la questione al Primo Presidente).

Nello specifico, l’ordinanza interlocutoria ha rimesso all’esame delle Sezioni Unite i seguenti quesiti:

a) se la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato debba decorrere dalla fine del rapporto, a termine o a tempo indeterminato, o, in caso di successione di rapporti, dalla cessazione dell'ultimo, come accade nel lavoro privato;

b) se, nell'eventualità di abuso nella reiterazione di contratti a termine, seguita da stabilizzazione presso la stessa P.A. datrice di lavoro, la prescrizione dei crediti retributivi debba decorrere dal momento di tale stabilizzazione;

c) se la prescrizione dei crediti retributivi, nell'ipotesi sub b), sia comunque preclusa, interrotta o sospesa ove la P.A. neghi il riconoscimento del servizio pregresso dei dipendenti”.

2. – La sentenza delle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite, nella sentenza in commento, hanno ricordato il noto insegnamento della giurisprudenza costituzionale e di legittimità secondo cui nel lavoro pubblico ancorchè contrattualizzato “la prescrizione dei diritti retributivi matura in costanza di rapporto (dal momento di loro progressiva insorgenza) o dalla sua cessazione (per quelli originati da essa)” e ciò sul presupposto della sua ‘stabilità’.

Per effetto della modulazione attuata dalla l. 92/2012 e dal d.lgs. 23/2015 nel rapporto di lavoro privato a tempo indeterminato, essendo venuto meno il regime di ‘stabilità’ (cioè “una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca le garanzie di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni legittima risoluzione”, Corte Cost. 143/1969 e Cass. S.U. n. 1268/1976), il termine di prescrizione dei crediti di lavoro inizia a decorrere dalla cessazione del rapporto di lavoro (v. Cass. 26246/2022 e sullo stesso tema La “stabilità del rapporto di lavoro” e i suoi riflessi sulla decorrenza del termine di prescrizione).

Il predetto principio non è estensibile ai rapporti del pubblico impiego e ciò alla luce dei principi regolanti questo comparto.

Nonostante le riforme susseguitesi nel corso del tempo abbiano portato ad una privatizzazione del pubblico impiego (v. d.lgs. 29/1993; l. 59/1997; d.lgs. 165/2001) e ad una scissione tra organizzazione amministrativa e i rapporti di lavoro, per le Sezioni Unite deve essere “negata una piena parificazione dei rapporti di lavoro tra privato e pubblico contrattualizzato”.

La privatizzazione, hanno affermato le Sezioni Unite, non ha comportato una totale identificazione tra lavoro pubblico privatizzato e lavoro privato in quanto “permangono nel lavoro pubblico privatizzato quelle peculiarità individuate dalla Corte Costituzionale, in relazione al previgente regime dell'impiego pubblico, come giustificative di un differente regime della prescrizione: sia in punto di stabilità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 51, comma 2 e, all'attualità, D.Lgs. cit., art. 63, comma 2), che, in punto di eccezionalità del lavoro a termine (secondo la disciplina speciale dell'art. 36 D.Lgs. cit.)...”.

Inoltre, le modifiche apportate dalla l. 92 del 2012, all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori non si applicano ai rapporti di pubblico impiego privatizzato, con la conseguenza che la tutela del dipendente pubblico, in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all’entrata in vigore della richiamata l. n. 92/2012, resta quella prevista dall’art. 18 nel testo antecedente la riforma.

La diversità di disciplina, continuano le Sezioni Unite, si spiega anche in ragione del fatto che il potere di licenziamento del datore di lavoro, nell’ambito dell’impiego privato, è limitato allo scopo di tutelare il dipendente, mentre, nel settore pubblico, “il potere di risolvere il rapporto di lavoro, è circondato da garanzie e limiti che sono posti non solo e non tanto nell'interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi”. Nel pubblico impiego verrebbe in rilievo l’art. 97 Cost. che impone di assicurare il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione. Mentre nel settore privato non sussiste alcun obbligo di conformazione dell'azione datoriale ai principi costituzionali in precedenza richiamati, se non all’art. 41 Cost.

Le norme costituzionali, quali l’art. 28, 97 e 98 della Costituzione, continuano a costituire limiti conformativi, a cui la disciplina di diritto comune, che oggi regola il rapporto di lavoro pubblico, è tenuta ad uniformarsi.

L’art. 97 Cost., come noto, disciplina gli obiettivi dell’azione amministrativa secondo la regola generale di accesso ai ruoli del pubblico concorso; l’art. 28 Cost. prevede la diretta responsabilità dei funzionari e dipendenti dello Stato secondo le leggi penali, civili ed amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti; ed, infine, l’art. 98 Cost. stabilisce che i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione per un principio di neutralità cui è funzionale la regola del pubblico concorso.

Nella sentenza in commento le Sezioni Unite confermano la necessità di mantenere la differente decorrenza, in corso di rapporto, della prescrizione nei rapporti di pubblico impiego contrattualizzato in quanto assistiti dal regime di stabilità.

In ultima analisi, le Sezioni Unite ritengono che non sia configurabile una situazione psicologica di soggezione (metus) del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, in quanto vincolata al rispetto dei principi costituzionali e della legge.

Il nostro sistema costituzionale assicura al lavoratore pubblico “un concreto ed efficiente assetto di stabilità del rapporto, che si articola in concorrenti profili di garanzia attraverso un articolato ed equilibrato sistema di controlli tra poteri e di bilanciamento di interessi, orientato da quello prioritario generale, fondato sui principi dello Stato costituzionale di diritto”.

Tale sistema ordinamentale priva di valore il riferimento al mutamento della disciplina della reintegrazione verificatosi in seguito all’entrata in vigore del d.lgs. 75/2017 che ha modificato l’art. 63 del d.lgs. 165/2001.

Non può parlarsi di metus in relazione alla norma applicabile al pubblico impiego contrattualizzato che limita l’indennità risarcitoria a ventiquattro delle mensilità retributive (art. 63 d.lgs. 165/2001).

3. – I principi di diritto enunciati

In via conclusiva, le Sezioni Unite, nel ribadire che la disciplina del pubblico impiego contrattualizzato deve continuare a muoversi nel segno della continuità rispetto alle linee tracciate, in primis, da Cass. S.U. 16 gennaio 2003, n. 575 e successivamente da Cass. 28 maggio 2020, n. 10219 e dalla consolidata giurisprudenza conforme (tra le altre: Cass. 24 giugno 2020, n. 12443; Cass. 30 novembre 2021, n. 37538; Cass. 29 dicembre 2022, n. 38100; Cass. 18 luglio 2023, n. 20793), hanno enunciato il seguente principio di diritto:

La prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato decorre sempre - tanto in caso di rapporto a tempo indeterminato, tanto di rapporto a tempo determinato, così come di successione di rapporti a tempo determinato - in costanza di rapporto (dal momento di loro progressiva insorgenza) o dalla sua cessazione (per quelli originati da essa), attesa l'inconfigurabilità di un metus. Nell'ipotesi di rapporto a tempo determinato, anche per la mera aspettativa del lavoratore alla stabilità dell'impiego, in ordine alla continuazione del rapporto suscettibile di tutela”.

Per leggere la sentenza integrale clicca qui:

https://www.cortedicassazione.it/resources/cms/documents/36197_12_2023_civ_noindex.pdf

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