Con la sentenza n. 27711 del 2 ottobre 2023 la Cassazione ha enunciato importanti principi di diritto in tema di giusto salario minimo costituzionale.

In particolare, la Corte ha affermato che nel giudizio di conformità della retribuzione all’art. 36 Cost., il giudice deve fare riferimento, in via preliminare, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale, però, può discostarsi, dandone motivazione, quando la stessa non sia rispettosa dei principi di “proporzionalità” e “sufficienza” della retribuzione dettati dalla Costituzione, e ciò anche quando il rinvio alla contrattazione collettiva sia contemplato in una legge. Per la valutazione, il giudice può servirsi, a fini parametrici, del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di “settori affini” o per “mansioni analoghe”, potendo altresì fare riferimento all'occorrenza, ad indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 relativa a salari minimi adeguati nell'Unione europea.

I fatti di causa

M.A., dipendente di Servizi Fiduciari Soc. Coop. (già Sicuritalia Servizi Fiduciari Soc. Coop), agiva in giudizio per ottenere il diritto all'adeguamento delle retribuzioni percepite, ritenuta la non conformità ai parametri dell'art. 36 Cost. del trattamento retributivo applicato, anche ai sensi della L. n. 142 del 2001, art. 3, comma 1, e L. n. 31 del 2008, art. 7, corrispondente a quello previsto per il livello D della sezione Servizi Fiduciari del CCNL per i dipendenti delle imprese di vigilanza privata e servizi fiduciari dell'1/2/2013.

Il giudice di primo grado, in accoglimento della domanda proposta da M.A., accertava il diritto del lavoratore a percepire un trattamento retributivo di base non inferiore a quello previsto per il livello D1 del CCNL dei dipendenti di proprietari di fabbricati, condannando la datrice di lavoro Servizi Fiduciari al pagamento delle differenze retributive.

La Corte d'appello di Torino riformava la sentenza di primo grado accogliendo l'appello proposto dalla datrice di lavoro. Per il giudice di secondo grado, devono ritenersi esclusi dalla valutazione di conformità ex art. 36 Cost. quei rapporti di lavoro che, come nel caso di specie, sono regolati dai contratti collettivi propri del settore di operatività e sono siglati da organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale. Poiché la Cooperativa Servizi Fiduciari aveva applicato ai propri dipendenti il CCNL Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari, contratto attinente al settore di operatività del lavoratore e stipulato dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori maggiormente rappresentative a livello nazionale, la domanda del lavoratore doveva essere rigettata. Secondo la Corte di appello “la retribuzione stabilita dalla norma collettiva acquista, sia pure solo in via generale, una presunzione di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza che investe le disposizioni economiche del contratto collettivo anche negli interni rapporti fra le singole retribuzioni”. Solo in tal modo può essere valorizzato il principio dell'autonomia sindacale art. 39 Cost., co. 4, a cui la contrattazione collettiva è demandata in via esclusiva. Rimettere invece al giudice il potere di sindacare i livelli retributivi al fine di scegliere quello più alto, per il giudice di secondo grado, non risulta coerente con l'attuale sistema contrattuale. 

Contro la sentenza della Corte d’appello di Torino M.A. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a 5 motivi.

I principi costituzionali della ‘sufficienza’ e della ‘proporzionalità’ della retribuzione.

Con la sentenza in commento n. 27711 del 2 ottobre 2023, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso proposto dal lavoratore ritenendo fondati tutti e 5 i motivi di impugnazione.

La decisione della Corte d’appello, secondo la Cassazione, discostandosi dall’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, ha affermato principi contrastanti con quelli che regolano la materia del salario minimo costituzionale fissato dall'art. 36 Cost.

La Costituzione garantisce due diritti distinti al lavoratore che si integrano a vicenda nella concreta determinazione della retribuzione e che sono:

  • il diritto ad una retribuzione “proporzionata” che garantisce ai lavoratori “una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell'attività prestata”;
  • il diritto ad una retribuzione “sufficiente” che invece dà diritto ad “una retribuzione non inferiore agli standard minimi necessari per vivere una vita a misura d'uomo”, ovvero ad “una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa”.

Il primo stabilisce “un criterio positivo di carattere generale”, il secondo “un limite negativo, invalicabile in assoluto”. Le due valutazioni costituiscono le direttrici sulla cui base il Giudice deve determinare la misura della retribuzione minima secondo la Costituzione.

Ai fini della valutazione non basta fare riferimento al valore soglia di povertà assoluta calcolato ogni anno dall'Istat sulla base di “un paniere di beni e servizi essenziali per il sostentamento vitale differenziandolo in ragione dell'età, dell'area geografica di residenza del singolo e dei componenti della famiglia”, dovendo il trattamento economico essere orientato “non solo verso il soddisfacimento di meri bisogni essenziali ma verso qualcosa in più che la recente Direttiva UE sui salari adeguati all'interno dell'Unione n. 2022/2041 individua nel conseguimento anche di beni immateriali (cfr. considerando n. 28: “oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali”)”.

A tale scopo vengono in rilievo i principi di sufficienza e di proporzionalità che mirano a garantire al lavoratore una vita che sia “non solo non povera ma persino dignitosa”. La verifica della sufficienza della retribuzione in concreto corrisposta, attraverso il confronto con il livello Istat di povertà assoluta, non può dunque esaurire l'oggetto della articolata valutazione demandata al giudice ai sensi dell'art. 36 Cost, in quanto tale indice, afferma la Cassazione, “non è di per sé indicativo del raggiungimento del livello del salario minimo costituzionale che, come già rilevato, deve essere proiettato ad una vita libera e dignitosa e non solo non povera, dovendo altresì rispettare l'altro profilo della proporzionalità”. La determinazione del quantum del salario costituzionale, continua la Corte, deve essere “improntata in partenza al confronto parametrico con i livelli retributivi stabiliti dalla contrattazione collettivaritenuti idonei a realizzare, per naturale vocazione, le istanze sottese ai concetti costituzionali di sufficienza e di proporzionalità”. Il lavoratore che chiede la disapplicazione di un trattamento retributivo collettivo per ritenuta inosservanza dei minimi costituzionali è tenuto a fornire utili elementi di giudizio indicando i parametri di raffronto. In mancanza, la retribuzione corrisposta nella misura prevista in relazione alle mansioni esercitate dal contratto collettivo del settore “si presume adeguata e sufficiente”.

L’intervento correttivo del Giudice, a tutela della precettività dell’art. 36 Cost., è ammesso anche sulla stessa contrattazione collettiva. Tant’è vero che il giudice del merito, ai fini della valutazione di conformità della retribuzione all’art. 36 Cost., gode di un’ampia discrezionalità “potendo discostarsi (in diminuzione ma anche in aumento) dai minimi retributivi della contrattazione collettiva e potendo servirsi di altri criteri di giudizio e parametri differenti da quelli collettivi (sia in concorso, sia in sostituzione), con l'unico obbligo di darne puntuale ed adeguata motivazione”. Nel discostarsi da quanto previsto dai contratti collettivi, il giudice è tenuto, però, ad usare la massima prudenza e adeguata motivazione giacché sottolinea la Cassazione, “difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese all'assetto degli interessi concordato dalle parti sociali”. In ogni caso, si è affermato che il riferimento alle clausole salariali dei contratti collettivi post-corporativi di categoria costituisce una facoltà per il giudice e non un obbligo inderogabile, fatto ovviamente salvo l'onere della motivazione conforme. Il giudice può motivatamente utilizzare parametri anche differenti da quelli contrattuali e fondare la pronuncia ad es. sulla natura e sulle caratteristiche della concreta attività svolta, su nozioni di comune esperienza e, in difetto di utili elementi, anche su criteri equitativi (es. dimensioni o localizzazione dell'impresa, specifiche situazioni locali o qualità della prestazione offerta dal lavoratore). Tra i parametri presi a riferimento dalla giurisprudenza, oltre alla soglia di povertà calcolata dall'Istat, sono stati utilizzati ad es. l'importo della Naspi o della CIG, la soglia di reddito per l'accesso alla pensione di inabilità e l'importo del reddito di cittadinanza; tutte forme di sostegno al reddito che, secondo la Corte di Cassazione, “fanno però riferimento a disponibilità di somme minime utili a garantire al percettore una mera sopravvivenza ma non idonei a sostenere il giudizio di sufficienza e proporzionalità della retribuzione nei termini prima indicati”.

La Direttiva Europea sul salario minimo.

Alla luce dell’integrazione del nostro ordinamento a livello Europeo ed internazionale, la valutazione di conformità della retribuzione all’art. 36 Cost deve oggi avvenire anche considerando le indicazioni sovranazionali.

Recentemente è intervenuta la Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 relativa proprio ai salari minimi, dei cui contenuti il giudice interno deve tenere conto ai fini del giudizio di conformità ai sensi dell’art. 36 Cost. La Direttiva in più di una disposizione conferma come valido il riferimento in questa materia agli indicatori Istat, sia sul costo della vita sia sulla soglia di povertà, oltre che ad altri strumenti di computo ed indicatori nazionali ed internazionali (v. considerando n. 28 in cui si afferma che “un paniere di beni e servizi a prezzi retali stabilito a livello nazionale può essere utile per determinare il costo della vita al fine di conseguire un tenore di vita dignitoso”; “quanto al livello di vita da conseguire attraverso un salario minimo adeguato - che "oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali”).

La Corte nella sentenza in commento ha ricordato che l’Italia non ha ratificato la convenzione OIL n. 131/1970 che da quasi un secolo prevede l'introduzione o la conservazione di meccanismi per la definizione di salari minimi legali " mediante contratto collettivo o in altro modo e laddove i salari siano eccessivamente bassi" (art. 1). Sempre in tema di giusta retribuzione sono state dettate altre disposizioni dall'art. 4 della Carta sociale Europea e dagli artt. 23 e 31 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.

Il punto 6, lettera a) del Pilastro Europeo dei Diritti sociali del novembre 2017 “prefigura la necessità di una retribuzione che offra un tenore di vita dignitoso, mentre la lettera b) “impegna all'implementazione di retribuzioni minime adeguate per i bisogni del lavoratore e della famiglia”. L’obiettivo dichiarato dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 è quello della “convergenza sociale verso l'alto” dei salari minimi, in quanto la salvaguardia e l'adeguamento dei salari minimi "contribuiscono a sostenere la domanda interna".

La portata generale delle Tabelle Salariali previste dai contratti collettivi.

Secondo una elaborazione giurisprudenziale che dura oramai da oltre 70 anni, il giudice chiamato ad adeguare il trattamento retributivo all'art. 36 Cost. ai fini della determinazione del giusto corrispettivo può fare riferimento alla retribuzione stabilita dai contratti collettivi nazionali di categoria, in quanto questi ultimi fissando “standard minimi inderogabili validi su tutto il territorio nazionale, finiscono così per acquisire, per questa via giudiziale, una efficacia generale, sia pure limitata alle tabelle salariali in essi contenute”.

La Corte precisa che il riferimento al salario previsto nel CCNL integra, però, solo una “presunzione relativa di conformità a Costituzione, suscettibile di accertamento contrario” e che “attraverso questo sistema si è pure temperata, in concreto, in mancanza dell'attuazione dell'art. 39 Cost., la tesi espressa dalla già richiamata sentenza delle Sez. Unite n. 2655/1997, secondo cui l'ordinamento consentirebbe al datore di lavoro di autodeterminare la categoria di appartenenza ovvero di poter applicare un contratto stipulato da organizzazioni operanti in un settore produttivo diverso rispetto a quello nel quale si trovi concretamente ad operare”.

È consentito al lavoratore di appellarsi ad un contratto collettivo diverso da quello di provenienza, non già per ottenerne l'applicazione bensì come termine di riferimento per la determinazione della giusta retribuzione deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto collettivo applicato al proprio rapporto. L'oggetto dell'intervento giudiziale può riguardare non solo “il diritto del lavoratore di richiamare in sede di determinazione del salario il CCNL della categoria nazionale di appartenenza, ma anche il diritto di uscire dal salario contrattuale della categoria di pertinenza”.

Le cause del ‘Lavoro povero’ e della ‘povertà nonostante il lavoro’.

La Cassazione, pur ribadendo l’importante ruolo svolto dalla contrattazione collettiva nella determinazione della giusta retribuzione, nella sentenza in commento ha messo in evidenza alcune problematiche che nel corso degli anni hanno interessato le organizzazioni sindacali e che hanno contribuito ad indebolire la posizione dei lavoratori.

In particolare, tra le varie problematiche segnalate, vi sono:

a) “la frammentazione della rappresentanza e la presenza sulla scena negoziale di associazioni collettive (sindacali e datoriali) di discutibile rappresentatività (sottoscrittori di contratti definiti col nome evocativo di "contratti pirata")”;

b) “la frantumazione dei perimetri negoziali e degli ambiti della contrattazione, dei settori e delle categorie”;

c) “la conseguente proliferazione del numero dei CCNL - Il CNEL ne ha censiti 946 per il settore privato, di cui solo un quinto sarebbero stati stipulati da sindacati più rappresentativi a copertura della maggior parte dei dipendenti”;

d) “la moltiplicazione del fenomeno della disparità di retribuzione a parità di lavoro e la mortificazione dei salari soprattutto ai livelli più bassi;

e) “il ritardo abituale dei rinnovi dei contratti collettivi la cui durata impedisce un effettivo adeguamento dei salari ai cambiamenti economici (l'ultimo Report del CNEL denuncia come scaduti 563 contratti del settore privato, pari al 60%);

f) “una dinamica inflazionistica severa negli ultimi due anni, con la conseguente perdita del potere di acquisto dei salari”.

I fattori suindicati (ed in particolare la molteplicità dei contratti all'interno della stessa contrattazione collettiva)rileva la Corte di Cassazione, avendo innescato una concorrenza salariale ‘al ribasso’, sono responsabili di ciò che viene notoriamente definito ‘lavoro povero’ o ‘povertà nonostante il lavoro’. La contrattazione collettiva, quale espressione della libertà sindacale e necessaria per la tutela dei diritti collettivi dei lavoratori, rileva la Cassazione, “può entrare in tensione con il principio dell'art. 36 Cost., che essa stessa è chiamata a presidiare per garantire il valore della dignità del lavoro”. Dopo aver ricordato “la naturale attitudine degli agenti collettivi alla gestione della materia salariale” (principio garantito dalla Costituzione e dalla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo), la Cassazione precisa che “nella Costituzione c’è un limite oltre il quale non si può scendere” e questo limite vale per qualsiasi contrattazione collettiva, che mai deve tradursi, in un fattore di compressione del giusto livello di salario e di dumping salariale. Un esempio delle problematiche sopra evidenziate è fornito proprio dall’esperienza riguardante i lavoratori c.d. rider (v. circolare del Ministero del lavoro del 19.11.2020). La presenza di molteplici contratti collettivi in uno stesso settore, tanto più se sottoscritti da soggetti poco o per nulla rappresentativi, ha costituito un fattore di destabilizzazione in grado di mettere in discussione l'attitudine alla parità di salario a parità di lavoro che il rinvio alla determinazione collettiva sottende.

In uno stato di mancata attuazione dell'art. 39 Cost. non esiste una riserva normativa o contrattuale a favore della contrattazione collettiva nella determinazione del salario.

La Cassazione, nella sentenza in commento, dopo aver ribadito la validità della regola in forza della quale sussiste una “presunzione iuris tantum, salvo prova contraria, di conformità del trattamento salariale stabilito dalla contrattazione collettiva alla norma costituzionale” e chiarito, però, che la stessa opera non solo “in mancanza di una specifica contrattazione di categoria”, ma anche “nonostante una specifica contrattazione di categoria”, ha affermato altresì che “non esiste una riserva normativa o contrattuale a favore della contrattazione collettiva nella determinazione del salario nell'attuale ordinamento costituzionale (ed a maggior ragione in uno stato di mancata attuazione dell'art. 39 Cost)”.

I principi di “sufficienza” e “proporzionalità” della retribuzione costituiscono limiti alla stessa autonomia negoziale collettiva e ciò perché la nostra Costituzione non ha accolto una nozione di remunerazione della prestazione di lavoro “come prezzo di mercato”, ma come “retribuzione sufficiente ossia adeguata ad assicurare un tenore di vita dignitoso, non interamente rimessa all'autodeterminazione delle parti individuali né dei soggetti collettivi”.

Fermo il rispetto della riserva di competenza attribuita alla contrattazione collettiva, quale autorità salariale massima, la Cassazione ribadisce che poiché i criteri di sufficienza e proporzionalità stabiliti nella Costituzione hanno contenuti “(anche attinenti alla dignità della persona) che preesistono e si impongono dall'esterno nella determinazione del salario” sono gerarchicamente sovraordinati sia alla legge che alla stessa contrattazione collettiva.

Una legge ‘sul salario legale’?

L’aporia tra il trattamento retributivo previsto nella contrattazione collettiva e i contenuti precettivi dell'art. 36 Cost. può “prodursi anche per il tramite di una legge che rinvii alla contrattazione; e come tale contraddizione non sia del tutto idonea ad essere risolta con il solo sostegno alla contrattazione nazionale maggiormente rappresentativa (come ad es. nella L. n. 142 del 2001, e nella L. n. 31 del 2008); non potendosi mai escludere che il trattamento retributivo erogato in forza della stessa possa attestarsi nel caso concreto al di sotto del minimo costituzionale”. La necessità di una verifica giudiziale “nonostante” la contrattazione, per individuare nel caso concreto un minimo invalicabile in attuazione della regola costituzionale, si pone in ogni caso in cui il giudice è chiamato a sindacare il salario applicato ed attraverso di esso la stessa legge che sta a monte imponendone l'applicazione. In ultima analisi la Cassazione rileva come nel nostro ordinamento una legge sul 'salario legale' non possa realizzarsi attraverso un rinvio in bianco alla contrattazione collettiva. Il rinvio deve essere inteso nel quadro costituzionale che impone un minimo invalicabile nel caso concreto. Non potendo il giudice abdicare alla sua funzione di controllo, si pone comunque il problema dell'orientamento della sua discrezionalità motivata, in relazione all'applicazione di una norma costituzionale a contenuto generale direttamente applicabile nei rapporti inter partes ed inoltre il tema della ricerca di un quid pluris congruo e funzionale allo scopo, rispetto al quantum parametrico costituito dalla sola contrattazione, che si riveli in concreto inappagante.

Il riferimento anche ad altri contratti collettivi di “settori affini” e per “mansioni analoghe”.

Venendo al caso di specie, rileva la Corte, come proprio in virtù dell'applicazione allo stesso lavoratore ricorrente, da un cambio di appalto all'altro, di CCNL sempre diversi e peggiorativi - sottoscritti anche dalle OO.SS. maggiormente rappresentative - si è prodotto il risultato di una diminuzione della retribuzione pur nell'identità dell'attività di lavoro svolta da esso e dalla stessa datrice di lavoro. Nel corso del tempo al lavoratore ricorrente sono stati applicati diversi CCNL pur svolgendo egli sempre il medesimo lavoro nell'ambito dell'appalto "Carrefour". La Cassazione, dopo aver rilevato che la Corte d’appello non aveva svolto alcun giudizio comparatistico, ha ricordato, nel rimandare al giudice del rinvio, che nella determinazione del giusto salario ai sensi dell'art. 36 Cost. (a fronte di una pluralità di contratti collettivi ma anche di un unico contratto collettivo) il giudice è chiamato ad adoperare una griglia di criteri comparativi, “avendo come punto di partenza la contrattazione collettiva, e potendo fare riferimento anche a contratti di settore e categorie affini relativamente alle analoghe mansioni in concreto svolte”.

I principi di diritto enunciati nella sentenza in commento

In ultima analisi, la Corte di Cassazione ha enunciato i seguenti principi di diritto:

  • "Nell'attuazione dell'art. 36 Cost., il giudice, in via preliminare, deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può motivatamente discostarsi, anche ex officio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall'art. 36 Cost., anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, di cui il giudice è tenuto a dare una interpretazione costituzionalmente orientata";
  • Ai fini della determinazione del giusto salario minimo costituzionale il giudice può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe”;
  • Nella opera di verifica della retribuzione minima adeguata ex art. 36 Cost., il giudice, nell'ambito dei propri poteri ex art. 2099 c.c., comma 2, può fare altresì riferimento, all'occorrenza, ad indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022”.

Per leggere il testo della sentenza integrale clicca qui: https://www.giuslavoristi.it/agi_cms/public/news/1_99.pdf

Per leggere il testo della Direttiva (UE) 2022/2041 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 ottobre 2022 relativa a salari minimi adeguati nell’Unione Europea clicca qui: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/it/TXT/?uri=CELEX%3A32022L2041

Sullo stesso tema, v. la sentenza della Cassazione n. 27713/2023 pubbl. il. 2/10/2023 al seguente link: https://www.cortedicassazione.it/it/civile_dettaglio.page?contentId=SZC10110

Con l’ordinanza n. 26493 del 14 settembre 2023, la Corte di Cassazione è tornata sul tema del frazionamento giudiziale del credito chiarendo la portata dei principi di diritto affermati dalle Sezioni Unite nella precedente sentenza n. 4090 del 16 febbraio 2017.

I fatti di causa e il giudizio di merito

Il giudice di pace di Napoli, accogliendo l’opposizione proposta ai sensi dell’art. 645 c.p.c. da un condomino, revocava il decreto ingiuntivo ottenuto da un avvocato per i compensi professionali maturati per le prestazioni svolte quale difensore del Condominio. L’opposizione veniva accolta avendo il professionista abusivamente proceduto alla parcellizzazione della domanda giudiziale depositando tre distinti ricorsi monitori. Era stato così realizzato un illegittimo frazionamento giudiziale del credito.

Il Tribunale di Napoli, nella veste di giudice di secondo grado, esclusa la sussistenza di un interesse del professionista alla trattazione separata – stante la vicinanza temporale dei diversi ricorsi proposti –, rigettava l’appello riconducendo la condotta posta in essere dall’avvocato nella categoria “dell’abuso del diritto”.

Il giudizio davanti alla Corte di Cassazione

Avverso la sentenza di secondo grado il professionista ha proposto ricorso per cassazione, lamentando che i diversi giudizi in cui aveva rappresentato il Condominio non costituivano un'unica prestazione professionale, ma si articolavano in distinte attività giudiziarie che escludono il frazionamento di un unico credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, e legittimano, invece, il ricorrente al compenso per l'attività professionale esercitata limitatamente a ciascuna specifica controversia, quand'anche l'incarico fosse stato unico”.

Il ricorrente lamentava altresì che, nel caso di parcellizzazione giudiziale dei crediti, la sanzione non può consistere nell'inammissibilità delle domande giudiziali, ma semmai nella revoca del decreto ingiuntivo e delle spese giudiziali con esso liquidate, rendendosi comunque necessaria una pronuncia sul diritto di credito al compenso professionale maturato.

Nello specifico, per il professionista poteva dirsi sussistente l’interesse ad una tutela processuale frazionata stante l'assenza di un accordo riguardante il compenso per le singole attività defensionali ovvero per l'incarico professionale unitario.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza in commento del 14 settembre 2023, n. 26493 ha rigettato il ricorso, ritenendo, in particolare, il motivo riguardante il frazionamento del credito in plurime richieste giudiziali del tutto infondato.

Nella motivazione la Corte, dopo aver ricordato il principio di diritto espresso nella sentenza n. 4090 del 16 febbraio 2017 dalle Sezioni Unite (secondo cui “le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, benché relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi, ma, ove le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo - sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell'identica vicenda sostanziale - le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata”), ne ha chiarito la portata specificando il significato da attribuire ai concetti di ‘medesimo rapporto di durata’ e ‘medesimo fatto costitutivo’.

L'espressione “medesimo rapporto di durata” va letta “in senso storico/fenomenologico”, con il significato di “relazione di fatto realizzatasi tra le parti nella concreta vicenda da cui deriva la controversia”.

Così, per l'espressione “medesimo fatto costitutivo”, l'aggettivo medesimo va inteso come sinonimo di analogo (e non di identico) e, comunque, “non come fatto costitutivo delle singole pretese ai sensi dell'art. 1173 c.c., configurandosi in tal caso il medesimo diritto di credito, ma come fatto storico che, seppur diverso, abbia però la stessa natura di quello che, nell'ambito del rapporto tra le parti, sia stato già dedotto in giudizio: l'uno e l'altro, quindi, costitutivi di più crediti ontologicamente distinti (pur se riconducibili allo stesso rapporto tra le parti, ma tra loro giuridicamente simili”.

Alla luce delle predette chiarificazioni, con riferimento al caso di specie, la Cassazione, nell’ordinanza in commento, ha affermato che “l'asserita mancanza di un accordo negoziale non rende, di per sé, indispensabile il frazionamento” rilevando in ogni caso “il dato fattuale della riconducibilità ed omogeneità dei singoli incarichi nell'ambito di una relazione unitaria svoltasi nel tempo”.

A conclusione del ragionamento la Corte di Cassazione ha poi affermato che si configura frazionamento abusivo nel caso “in cui le pretese creditorie separatamente azionate siano riconducibili a fatti costitutivi storicamente distinti che si sono verificati nel contesto di un rapporto di durata tra le parti anche se non ha avuto origine nella stipulazione di un contratto che ne regolasse gli effetti: (quanto meno) tutte le volte in cui si tratti di fatti che, seppur distinti, sono tra loro simili (come l'esecuzione di distinti incarichi professionali ovvero di distinte forniture) e, in quanto tali, idonei a costituire, tra le stesse parti, diritti di credito giuridicamente eguali. In tali (e in altre simili) ipotesi, infatti, la contemporanea sussistenza di crediti giuridicamente eguali, che siano riconducibili (come pretendono le Sezioni Unite) nell'ambito di un "rapporto" che, nel corso del tempo, si sia venuto a determinare (pur se in via di mero fatto) tra le stesse parti, ne impone la deduzione (ove esigibili) nello stesso giudizio (salvo che l'attore non abbia, e da ciò non può prescindersi, un oggettivo interesse alla loro tutela frazionata: cfr. testualmente, Cass. 24371/2021)”.

Infine, in relazione all’altra questione sollevata dal ricorrente, la Corte, nell’ordinanza in commento, ha precisato che la violazione del divieto di indebito frazionamento del credito, costituendo una statuizione su una questione processuale, dà luogo ad un giudicato meramente formale e, come tale, ha un’efficacia preclusiva limitatamente al giudizio in cui è pronunciata.

È dunque sempre possibile la riproposizione della medesima questione in un successivo giudizio tra le stesse parti.

Il Tribunale di Parma con ordinanza ex art. 363-bis c.p.c. ha disposto il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di Cassazione per la risoluzione della questione di diritto riguardante l’applicazione della disciplina prevista dall’art. 1284, co. 4, c.c. ai ‘crediti di lavoro’.

In forza di una sentenza C… era stato condannato a pagare € 4.740,04 oltre interessi e rivalutazione a titolo di indennità risarcitoria per licenziamento illegittimo, € 8.570 oltre interessi e rivalutazione a titolo di differenze retributive ed € 205,17 a titolo di indennità sostitutiva del preavviso.

Su tutti questi importi, derivanti sia da titoli contrattuali (differenze retributive) che extracontrattuali (indennità risarcitoria per licenziamento illegittimo), il creditore L..., al momento della notifica dell’atto di precetto, applicava gli elevati interessi moratori previsti dalla legislazione sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali in forza dell’art. 1284, co. 4, c.c.

Avverso l’atto di precetto, C… proponeva opposizione ai sensi degliartt. 615, co. 1, e 618-bis c.p.c., sostenendo che la disciplina prevista all’art. 1284, co. 4, c.c. non trova applicazione in tema di ‘crediti di lavoro’.

Nella pronuncia in commento, il Tribunale di Parma, dopo aver rilevato l’esistenza di un contrasto interpretativo in seno alla giurisprudenza di merito sulla questione oggetto dell’opposizione a precetto, ha disposto il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di Cassazione, ritenendo sussistenti tutti i presupposti richiesti dal nuovo articolo 363-bis c.p.c. recentemente introdotto dalla Riforma Cartabia.

Secondo un primo orientamento, afferma il Tribunale del rinvio, l’art. 1284, co. 4, c.c. risulterebbe inapplicabile in ambito lavoristico, venendo derogato dalla disciplina speciale prevista dall’art. 429, co. 3, c.p.c. che detta un regime di favore per i crediti del lavoratore.

In base ai principi generali, le comuni obbligazioni pecuniarie, dette di ‘valuta’[1], sono assoggettate al principio nominalistico in forza del quale i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale.

La disciplina speciale dettata dall’art. 429, co. 3, c.p.c. sottrae i crediti di lavoro dall’applicazione del principio nominalistico in modo da proteggere il patrimonio del prestatore di lavoro dagli effetti pregiudizievoli del deprezzamento monetario.

Alla luce di ciò, in forza dell’indirizzo giurisprudenziale richiamato, “sarebbe preclusa l’applicazione dell’art. 1284 co. 4 c.c., norma di generale applicazione, avendo il legislatore inteso riservare una regolamentazione settoriale a questa particolare materia in ragione del preminente valore costituzionale degli interessi coinvolti (in tal senso, a es. Trib. Roma 22 giugno 2020, n. 3577; Trib. Lucca, 2 marzo 2023, n. 75)”.

Secondo un altro orientamento, non vi sarebbero ostacoli all’applicazione della disciplina prevista dal co. 4° dell’art. 1284 c.c. ai crediti di lavoro in quanto l’art. 429, co. 3, c.p.c. nella parte in cui prevede che sui crediti di lavoro debbano essere applicati gli interessi nella misura legale, “opererebbe un rinvio all’art. 1284 c.c. nella sua interezza: sia al co. 1, in cui viene stabilito – mediante rinvio alla determinazione annuale effettuata con decreto ministeriale – il saggio generale degli interessi legali, sia al co. 4, che prevede che dalla domanda giudiziale – in caso di mancata determinazione convenzionale del tasso di interesse – «il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto nella legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali».

Nell’ordinanza in commento, il Tribunale di Parma, al di là del contrasto giurisprudenziale rilevato, ha osservato, a sostegno di tale ultimo indirizzo, che se la ratio della disciplina prevista dall’art. 1284, co. 4, c.c. è quella “di scoraggiare la resistenza dilatoria a iniziative giudiziali infondate”, la stessa esigenza sussiste anche in ambito lavoristico.

Inoltre, sempre secondo il giudice del rinvio, l’orientamento giurisprudenziale che afferma l’inapplicabilità della norma in esame ai crediti di lavoro “finirebbe per fornire una tutela minore (considerata la sensibile differenza tra il saggio di interessi legale ‘generale’ e quello previsto dalla legislazione sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali) ai soggetti che il legislatore aveva inteso garantire maggiormente con la disciplina di favore di cui all’art. 429 co. 3 c.p.c. (v. in tal senso, a es., Trib. Perugia, 15 marzo 2022, n. 53; Trib. Venezia, 19 gennaio 2023, n. 29; Trib. Venezia, 16 marzo 2023, n. 176)”.

Infine, il Tribunale di Parma, ritenuto necessario l’intervento in senso nomofilattico della Cassazione, nel disporre il rinvio pregiudiziale, ha altresì rilevato come la decisione possa costituire l’occasione per risolvere un ulteriore contrasto giurisprudenziale “la cui rilevanza esorbita dall’ambito lavoristico” ossia l’estensione dell’ambito applicativo degli interessi maggiorati di cui all’art. 1284, co. 4, c.c. non solo alle obbligazioni pecuniarie aventi natura contrattuale (come affermato da Cass., 7 novembre 2018, n. 28409), ma anche a tutte le altre ed, in particolare, a quelle di origine extracontrattuale (v. recentemente Cass., 3 gennaio 2023, n. 61).

Per leggere il testo integrale dell’ordinanza ex art. 363-bis c.p.c. clicca qui:  https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Ordinanza_Tribunale_Parma_RG_363_2023_oscuramento_no-index.pdf

Sullo stesso tema v. anche https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Ordinanza_Tribunale_Milano_RG_30215_2022_NS_RG_16260_2023_oscuramento_no-index.pdf


[1] Obbligazioni il cui oggetto originario della prestazione è costituito, sin dal momento della costituzione del vincolo obbligatorio, da una somma di denaro.

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