Il caso

La vicenda scaturisce dal licenziamento per asserita giusta causa del dirigente di un’azienda che, impugnato il recesso per svariate ragioni, ottiene una sentenza declaratoria della non giustificatezza del licenziamento con conseguente condanna della parte datoriale al pagamento dell’indennità supplementare, ma non anche dell’indennità sostitutiva del preavviso, non richiesta dal lavoratore.

Dopo la pubblicazione della sentenza dichiarativa dell’illegittimità del licenziamento, il lavoratore, spirato nelle more il termine del comporto per malattia del quale aveva fruito, e divenuto dunque efficace il licenziamento, chiedeva ed otteneva decreto ingiuntivo nei confronti dell’azienda per il pagamento anche della indennità sostitutiva del preavviso.

Il Tribunale, a seguito dell’opposizione della società, revocava il decreto ingiuntivo respingendo la domanda, con sentenza confermata dalla Corte d’Appello.

I Giudici di merito, in particolare, avevano ritenuto che la domanda avente ad oggetto la indennità sostitutiva del preavviso trovava fondamento nel medesimo fatto, il licenziamento, alla base della pretesa azionata nel giudizio di impugnativa del recesso, e, pertanto, doveva essere azionata in quella stessa sede, non essendo stata nemmeno allegata da parte del dirigente la sussistenza di un interesse oggettivamente valutabile ad ottenere una tutela frazionata, in spregio alla nota sentenza delle Sezioni unite della Corte di Cassazione n. 4090/2017.

In merito, poi, alla circostanza secondo la quale l’indennità in questione era divenuta esigibile nelle more del giudizio relativo alla impugnativa di licenziamento, in coincidenza con la scadenza del termine del comporto per malattia nel quale si trovava il dirigente al momento del licenziamento, la Corte territoriale ha confermato la valutazione del primo giudice sulla carenza di prova dello stato di malattia per essere stata tale circostanza dimostrata nel diverso giudizio avente ad oggetto il licenziamento, ma non nell’ambito del giudizio in cui era stato fatto valere il diritto all’indennità sostitutiva.

La soluzione della Suprema Corte

La Corte di Cassazione, esaminati i motivi di ricorso del dirigente, richiamato il <<dictum>> delle Sezioni Unite della stessa Corte, in tema di “infrazionabilità del credito”[1], lo ha ritenuto tuttavia inapplicabile alla fattispecie sottoposta al suo esame, in presenza di un interesse oggettivamente apprezzabile in capo al lavoratore ad azionare la domanda di pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso in un giudizio diverso e successivo rispetto a quello avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento.

Tale interesse è stato ravvisato nel fatto che il licenziamento era stato intimato quando il lavoratore si trovava in malattia, ciò che “sul piano giuridico comporta il differimento della efficacia del recesso fino alla cessazione dello stato di malattia o comunque del superamento del periodo di comporto”.

La Corte ha dunque ritenuto che “al momento della impugnativa giudiziale del licenziamento (e della connessa richiesta della indennità supplementare) l’indennità sostitutiva del preavviso non era ancora divenuta esigibile per difetto del presupposto rappresentato dalla cessazione del rapporto di lavoro”, ed inoltre, essa “neppure risultava determinata nel suo ammontare in quanto inevitabilmente condizionata dalla durata della malattia e comunque suscettibile di essere incisa da fattori sopravvenuti al recesso datoriale stante la perdurante vigenza del rapporto di lavoro”: cosicchè, il relativo diritto all’indennità, seppure scaturente dal medesimo rapporto di lavoro, doveva ritenersi “come un credito distinto ed autonomo, originato da un diverso fatto costitutivo” ovvero dalla effettiva cessazione del rapporto di lavoro al termine della malattia, e non dalla sola intimazione del licenziamento, e dunque azionabile anche in un momento successivo.

Con riferimento alla seconda questione relativa alla asserita carenza di prova dello stato di malattia nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la Corte ha applicato il principio, pacifico, secondo il quale <<Nel giudizio di cassazione, l'esistenza del giudicato esterno è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile di ufficio anche quando il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, e, nel caso in cui consegua ad una sentenza della Corte di cassazione, la cognizione di quest'ultima può avvenire pure mediante quell'attività di istituto (relazioni, massime ufficiali) che costituisce corredo della ricerca del collegio giudicante, in tal senso deponendo il duplice dovere incombente sulla Corte di prevenire il contrasto tra giudicati, in coerenza con il divieto del "ne bis in idem", e di conoscere i propri precedenti, nell'adempimento del dovere istituzionale derivante dall'esercizio della funzione nomofilattica di cui all'art. 65 dell'ordinamento giudiziario >> (Cass. n. 30780/2011, seguita, in termini, tra le altre da Cass. n. 24740/2015, Cass. n. 18634/2017, Cass. n. 29923/2020). Con l’ordinanza in commento, la Suprema Corte ha dunque “corretto” una situazione di …“abuso” del principio di “abuso del processo” (in cui si sostanzia il principio del divieto di frazionamento del credito e della domanda) da parte dei giudici di merito: questi, infatti, nonostante a ciò sollecitati dalla parte allora ricorrente, avevano del tutto omesso di valutare, in senso positivo, la sussistenza dell’interesse dell’allora ricorrente ad attendere la cessazione dello stato di malattia del lavoratore prima di azionare la domanda di pagamento dell’indennità in parola, la cui esatta quantificazione dipendeva proprio dal momento della cessazione effettiva del rapporto di lavoro (accertamento divenuto definitivo con sentenza resa in altro giudizio dalla Corte di Cassazione e correttamente valutato dal giudice di legittimità quale giudicato esterno)


[1] Corte di Cassazione, SS. UU., sentenza n. 4090/2017 secondo cui <<Le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, benché relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi, ma, ove le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo, - sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell'identica vicenda sostanziale - le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata, e, laddove ne manchi la corrispondente deduzione, il giudice che intenda farne oggetto di rilievo dovrà indicare la relativa questione ex art. 183, c.p.c., riservando, se del caso, la decisione con termine alle parti per il deposito di memorie ex art. 101, comma 2, c.p.c.>>

La distinzione fra danno alla capacità lavorativa generica e quello alla capacità lavorativa specifica, fino a qualche tempo fa, dava luogo a non pochi malintesi nella pratica forense.  

La questione, sulla quale in più occasioni si sono soffermate la giurisprudenza di merito e di legittimità, è stata definitivamente chiarita dalla Suprema Corte, con la sentenza n. 28988/2020: diversamente dal danno alla capacità lavorativa generica, che rientra nella sfera concettuale “unitaria” del danno non patrimoniale, quello alla capacità lavorativa specifica, attinente cioè alla peculiare attività lavorativa svolta dal danneggiato e costituito dalla perdita, totale o parziale, del reddito generato da quest’ultima, integra invece un danno patrimoniale che, come ricorda la Suprema Corte, deve essere risarcito mediante la liquidazione di una somma da calcolarsi “ponendo a base del calcolo il reddito effettivamente perduto dalla vittima”.

Come tale, la liquidazione presuppone, quindi, non già solo la prova (sul piano medico-legale) dell’effettiva incidenza della menomazione sulla capacità lavorativa del danneggiato, ma altresì l’allegazione e la prova, da parte di quest’ultimo, della perdita reddituale subita.

Ovviamente tale accertamento è più difficile quando, come nel caso dei minori, “la vittima un lavoro non l'aveva, e non potrà più averlo a causa della invalidità: anche questo è un danno patrimoniale da lucro cessante, da liquidare in base al reddito che verosimilmente il soggetto leso, ove fosse rimasto sano, avrebbe percepito” (Cass. 28988/2020).

La prova dell’eventuale “reddito futuro”, dovrà darsi mediante “presunzioni gravi, precise e concordanti”.

E’ stato precisato, da ultimo, che “ove l’elevata percentuale di invalidità permanente renda altamente probabile, se non certa, la menomazione della capacità di svolgere qualsiasi attività lavorativa, il Giudice può accertare in via presuntiva la perdita patrimoniale occorsa alla vittima, e procedere alla sua valutazione in via equitativa, pur in assenza di concreti riscontri dai quali desumere i suddetti elementi (Cass. 3° civ., 15/05/2019, n. 11750)” (Così Cass. 3° civ. n. 32935/2022 del 9 novembre 2022).

La questione

Con la recente sentenza n. 2135/2022, la Corte d’Appello di Palermo ha ripercorso i principi da ultimo dettati dalla Suprema Corte in materia di risarcimento danni subiti da un neonato in fattispecie di colpa medica dei sanitari di un Nosocomio, il cui scorretto operato al momento del parto aveva causato il verificarsi di una gravissima patologia in danno della nascitura.

In particolare, la Corte territoriale, con un’ampia ed interessante motivazione, ha rigettato il motivo di appello formulato dall’Azienda Ospedaliera che riteneva che erroneamente il primo giudice aveva escluso che la liquidazione del danno biologico avesse assorbito quello da ridotta capacità lavorativa, non rilevandosi elementi da cui  desumere  l'incidenza  della  lesione  sull'eventuale attività di lavoro.

Così si legge, sul punto, nella sentenza in esame: “In ordine al secondo motivo dell'appello principale si osserva che il C.T.U. nella sua relazione di consulenza ha esposto che le menomazioni dell'integrità psicofisica rilevata in capo alla minore periziata  le precludono la possibilità di potere esercitare in futuro qualsiasi attività lavorativa.

Giova premettere, in proposito, che, per costante orientamento giurisprudenziale, gli effetti pregiudizievoli della lesione della salute del soggetto leso possono anche consistere in un danno patrimoniale da lucro cessante laddove vengano ad eliminare o a ridurre la capacità di produrre reddito (Cass., 24/2/2011, n. 4493; Cass. 12/06/2015, n. 12211). A tale stregua vanno al danneggiato risarciti non solo i danni patrimoniali subiti in ragione della derivata incapacità di continuare ad esercitare l'attività lavorativa prestata all'epoca del verificarsi del medesimo (danni da incapacità lavorativa specifica) ma anche quelli consistenti in eventuali danni patrimoniali ulteriori derivanti dalla perdita o dalla riduzione della capacità lavorativa generica, allorquando il grado di invalidità non consenta al danneggiato la possibilità di attendere a lavori, confacenti alle proprie attitudini e condizioni personali ed ambientali, idonei alla produzione di fonti di reddito.

E' stato altresì precisato come l'invalidità subita dal danneggiato in conseguenza del danno evento lesivo si riflette infatti comunque in una riduzione o perdita della sua capacità di guadagno, da risarcirsi sotto il profilo del lucro cessante ed al riguardo è stato escluso che il danno da incapacità lavorativa generica non attenga mai alla produzione del reddito e si sostanzi sempre e comunque in una menomazione dell'integrità psicofisica risarcibile quale danno biologico, costituendo una lesione di un'attitudine o di un modo di essere del soggetto (Cass., 16/1/2013, n. 908; Cass. 12/06/2015,n.12211)”.

Venendo alla questione specifica della liquidazione del danno patrimoniale futuro di soggetti non ancora produttivi di reddito a causa della giovane (o giovanissima) età, la Corte ha ribadito che “è indubbia la validità generale (e quindi anche nelle fattispecie come quella in esame) del principio dell'onere della prova (art. 2697 e.e.) e del principio secondo cui (ex art. 1226 cod. civ.) è consentita la liquidazione equitativa del danno solo se quest'ultimo è provato (o non è contestato) nella sua esistenza e non dimostrabile, se non con grande difficoltà, nel suo preciso ammontare (Cass. n. 12545 del 08/07/2004)”.

In effetti, come sottolineato dalla Corte, “l'intenzione di applicare con rigore tali due principi ha talora condotto a rendere in sostanza la liquidabilità del danno in questione meramente teorica ma non concretamente realizzabile in pratica.

E' in realtà ovvio che è (quasi) sempre impossibile dare la prova rigorosa, precisa ed incontestabile di un danno futuro (e ciò è stato giustamente affermato da molto tempo da parte della giurisprudenza; cfr. tra le tante: Cass. n. 495 del 20/01/1987: "Per la risarcibilità del danno patrimoniale futuro è sufficiente la prova che il danno si produrrà secondo una ragionevole e fondata attendibilità, non potendosene pretendere l'assoluta certezza"); infatti, persino se il danneggiato produceva un reddito al momento del sinistro, l'evoluzione successiva della sua capacità di produrlo (ovviamente nell'eventualità che il sinistro medesimo non si fosse verificato) può essere oggetto solo di un giudizio prognostico basato su presunzioni; la più importante e basilare delle quali è certamente costituita dall'entità del reddito già prodotto.

 E' palese che tale impossibilità è ancora più evidente nell'ipotesi di danneggiato che al momento del sinistro non produceva reddito, in quanto in tal caso viene meno anche quell'essenziale elemento presuntivo che è costituito dall'entità del reddito prodotto.

Ciò  non  significa  però  che tale  danneggiato  debba  restare privato  (applicando un errato "rigore" interpretativo che porterebbe in concreto ad escludere sempre la liquidabilità in questione) del risarcimento del danno patrimoniale; che  ben  può essere liquidato invece in base ad una corretta interpretazione della normativa in questione (in particolare in tema di presunzioni).

Si potrà discutere in ordine all'entità del presumibile reddito futuro che il minore non potrà più produrre, a causa delle menomazioni subite, in relazione agli elementi prognostici offerti, con riferimento allo specifico soggetto in questione, dalle risultanze processuali della particolare causa di cui si tratta”.

La questione diventa certamente più complessa, come si accennava, quando gli elementi probatori siano del tutto carenti.

In queste ipotesi, secondo la Corte palermitana, “nei casi in cui l'elevata percentuale di invalidità permanente rende altamente probabile, se non addirittura certa, la menomazione della capacità lavorativa specifica ed il danno che necessariamente da essa consegue, si può procedere all'accertamento presuntivo della predetta perdita patrimoniale, liquidando questa specifica voce di danno con criteri equitativi (Cass., 7/11/2005, n. 21497; Cass n. 11750 del 15/05/2018) trattandosi di danno provato nella sua esistenza e non dimostrabile se non con grande difficoltà nel suo preciso ammontare (Cass. 30/09/2009, n. 20943)”; nel caso di specie dunque, la Corte ha ritenuto che “nella liquidazione di tale danno, il criterio di determinazione della misura del reddito previsto dalla L. 26 febbraio  1977,  n.  39, art. 4 (triplo  della  pensione sociale), pur essendo applicabile esclusivamente nei confronti dell'assicuratore della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli e dei natanti, può essere utilizzato­ come è avvenuto nella specie - per l'esercizio del potere di liquidazione equitativa del danno patrimoniale conseguente all'invalidità (Cass. n. 15823 del 28/07/2005)”.

Per le suesposte considerazioni, la Corte d’Appello di Palermo ha rigettato il secondo motivo dell'appello principale proposto dall'Azienda Sanitaria e, quanto alla quantificazione del danno, ha confermato la statuizione del Tribunale secondo cui il danno andava liquidato con criteri “squisitamente equitativi” (nel caso in esame, nel quale la minore che aveva contratto l'infermità sin dalla nascita non avrebbe potuto mai svolgere alcuna attività  lavorativa, era davvero arduo presumere quale fosse l'attività lavorativa verso cui si sarebbe indirizzata e ciò era reso ancora più difficile dalla totale assenza di  allegazioni di parte attrice che fornissero indicazioni sull'ambiente sociale della famiglia e sull'attività svolta dai genitori: per questi motivi il Tribunale ha ritenuto di fare riferimento al criterio di  cui all'art. 4 d.l. 23 dicembre 1976 n. 857, conv. con  mod.,  in l. 26 febbraio 1977 n. 39, ponendo quindi a base della aestimatio una somma non inferiore al triplo dell'ammontare annuo della pensione sociale, “che  andava  capitalizzato adottando  i coefficienti   di   capitalizzazione   per  la costituzione di una rendita vitalizia immediata di cui alla tabella allegata al R.D. n. 1403/1922 - che aveva approvato le tariffe della cassa nazionale per le assicurazioni sociali - e pertanto, all'importo sopra indicato doveva essere applicato il coefficiente  di capitalizzazione relativo all'età in cui presumibilmente la minore avrebbe iniziato a lavorare; tale età, che col passare del tempo si discostava sempre più dal compimento della maggiore età, sia per la crisi occupazionale che per la tendenza sempre  maggiore della popolazione giovanile a proseguire gli studi, poteva farsi coincidere con il compimento del ventiquattresimo anno di età, ottenendosi così un importo che non andava ridotto - pur trattandosi di una reddito che la minore avrebbe percepito in futuro e che dovrebbe, quindi, in astratto, subire una falcidia - in considerazione del fatto che la tabella allegata al r.d. n. 1403 cit. era stata costruita in base alle tavole di sopravvivenza della popolazione italiana calcolata in base ai censimenti del 1901 e del 1911 ed alle statistiche mortuarie del biennio 1910- 1912, mentre  attualmente  la  durata  della  vita  media era sensibilmente  cresciuta, e, dunque, il coefficiente indicato dalla tabella rendeva oggi un capitale leggermente inferiore a quello che risulterebbe dall'applicazione di un coefficiente aggiornato”.

Il Giudice dell’appello può disporre con ordinanza non impugnabile che l’esecuzione (e non anche l’efficacia esecutiva) di sentenze favorevoli al lavoratore sia sospesa quando possa derivare all’altra parte, ovvero al datore di lavoro, un “gravissimo danno”. E’ questa la previsione dell’art. 431 comma 3 c.p.c., mentre il successivo 4° co. prevede l’ipotesi di una sospensione parziale dell’esecuzione, in relazione al danno minacciato.

Proprio con riferimento a quest’ultima ipotesi, si segnala una recente ordinanza della Corte d’Appello di Roma (resa in data 9 aprile 2021).

Chiamata a pronunciarsi su una istanza di inibitoria proposta da un’Azienda contro una sentenza del Tribunale che, accertata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, aveva condannato il datore di lavoro al pagamento di cospicui importi in favore della ricorrente, la Corte ha ravvisato il “gravissimo danno” nel rischio di mancato recupero all’esito della riforma della sentenza esecutiva.

In particolare, la Corte ha ritenuto sussistere detto presupposto “sul piano patrimoniale - nell’ingiustificato squilibrio tra i vantaggi che l’esecuzione arreca ad una parte del processo ed il pregiudizio che potrebbe derivare dal sacrificio economico imposta all’altra”; ha rilevato poi che “nel merito la richiesta si appalesa solo in parte meritevole di accoglimento, giacché sotto il su evidenziato profilo, sussistono ad avviso della Corte i gravi motivi che giustificano in parte l’invocato provvedimento di sospensione, tenuto conto dell’entità dei crediti presso terzi sottoposti a pignoramento (che superano l’importo di € 400.000,00) rispetto al bene della vita conseguito e ancora da conseguire da parte dell’odierna appellata; ritenuto, per altro verso, (che) è concreto (il) pericolo di non recuperare la somma, in caso di riforma della sentenza, tenuto conto della consistenza patrimoniale della predetta appellata; che pertanto, … appare opportuno sospendere parzialmente l’esecuzione, in modo da realizzare un giusto equilibrio fra i contrapposti interessi delle parti”; per questi motivi, la Corte ha ritenuto di sospendere l’esecuzione della sentenza impugnata per la parte eccedente il credito complessivo di € 100.000,00.

Con la pronuncia in esame, la Corte territoriale si è sostanzialmente discostata da quell’orientamento secondo il quale il “gravissimo danno” dovrebbe identificarsi sostanzialmente con una sorta di “rovina economica” (danno irreparabile) del datore di lavoro - ciò che circoscrive l’applicabilità dell’istanza ad ipotesi davvero di scuola - ma ha lasciato spazio ad una interpretazione più coerente che tenga conto della “valutazione dei contrapposti interessi” delle parti.

Il “gravissimo danno” cui è condizionata la sospensione dell’esecuzione della sentenza, è stato infatti inteso, dalla giurisprudenza prevalente, in senso molto restrittivo ed è stato concretamente ravvisato in situazioni davvero limitate che comportino la seria compromissione dello svolgimento dell’attività dell’impresa (a titolo esemplificativo, Corte appello Roma, 17 dicembre 2001, aveva ritenuto che tale presupposto si verificasse nel caso in cui il datore di lavoro corresse il rischio di proseguire la propria attività di impresa a causa dell’esecuzione, ad esempio attraverso il pignoramento dei beni strumentali dell’azienda).

Nella specie, la Corte d’Appello di Roma ha dunque valutato la consistenza patrimoniale del lavoratore ed ha ridotto l’ammontare dell’esborso da parte del datore di lavoro, nel limite della recuperabilità, così ritenendo realizzato un giusto equilibrio tra l’interesse del lavoratore alla riscossione immediata del credito maturato nei confronti del datore e l’interesse di quest’ultimo a contenere appunto in un ambito di recuperabilità il pagamento del proprio debito.

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