Un lavoratore era stato coinvolto in un incidente stradale nel tragitto tra la sede dell’azienda e un dato cantiere presso il quale avrebbe dovuto espletare la prestazione lavorativa.

Tribunale e Corte di Appello hanno rigettato la domanda del lavoratore volta ad ottenere l’indennizzo perché non qualificato come infortunio in itinere, non essendo avvenuto durante il tragitto tra l’abitazione privata del lavoratore e il luogo di lavoro.

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del lavoratore precisando che, nel caso in cui lo spostamento del lavoratore sia funzionale allo svolgimento della prestazione lavorativa – come appunto avviene allorquando il lavoratore sia obbligato a presentarsi dapprima presso la sede aziendale e successivamente presso altre località (quali ad esempio un cantiere) al fine di svolgervi la prestazione lavorativa – l’infortunio occorso al medesimo durante il predetto spostamento è indennizzabile perché “funzionale allo svolgimento della mansioni che gli erano richieste dal datore di lavoro”. Solo nel caso in cui il lavoratore abbia posto in essere una condotta abnorme, in quanto tale “idonea ad elidere il nesso eziologico con lo svolgimento dell’attività lavorativa sopra indicata” allora può essere escluso il diritto del lavoratore all’indennizzo, appunto perché l’infortunio non sarebbe causalmente collegato con lo svolgimento dell’attività lavorativa.

Il caso

Un lavoratore assunto con il contratto di lavoro a tutele crescenti, occupato in un’impresa dalle ridotte dimensioni organiche, a cui pertanto non si applica l’art. 18 L. n. 300/1970, viene intimato un licenziamento per giusta causa che però non è stato preceduto dalla preventiva contestazione disciplinare ex art. 7 L. n. 300/1970.

Ferma l’illegittimità del licenziamento, si pone il problema di individuare la disciplina applicabile al caso specifico.

La decisione del Tribunale di Roma

Il Tribunale, innanzi tutto, muove dalla specificazione di “fatto contestato” operata dalla giurisprudenza della Cassazione. Secondo Cass. n. 4879/2020 il “fatto contestato”, la cui sussistenza fenomenica deve essere verificata in giudizio, deve essere delineato esattamente nella preventiva contestazione disciplinare. Quanto sopra, aggiunge la Cassazione, è coerente con l’esigenza di garantire idonee garanzie di difesa al lavoratore, posto che quest’ultimo non sarebbe in grado poter presentare le proprie giustificazioni se non gli venisse contestato esattamente e precisamente un fatto, le quali giustificazioni, “ove esaustive e dirimenti, potrebbero indurre il datore anche a desistere dal proseguire nel procedimento disciplinare ed a non irrogare la sanzione espulsiva rispetto alla quale la contestazione dell'addebito era funzionale”.

Il Tribunale procede, poi, ad una ricognizione della disciplina di cui al D. Lgs. n. 23/2015.

L’art. 2 del D. Lgs. n. 23/2015 disciplina il licenziamento discriminatorio o comunque nullo perché riconducibile agli altri casi di nullità previsti dalla legge, prevedendo che in tali casi debba trovare applicazione la reintegrazione.

L’art. 3 del D. Lgs. n. 23/2015, invece, disciplina le ipotesi in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore o (per effetto di quanto statuito da Corte Cost. n. 128/2024) del fatto materiale addotto dal datore a fondamento del licenziamento per g.m.o.: anche in tali casi trova applicazione la reintegrazione, ma l’indennizzo risarcitorio che la accompagna è limitato nell’ammontare massimo a 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo dell’indennità di fine rapporto.

L’art. 4 prevede che nell’ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito della motivazione o della procedura di cui all’art. 7 L. n. 300/1970, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria che non può essere inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, “a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del presente decreto”.

In questo contesto, come noto, ove le dimensioni dell’impresa non superino una certa soglia organica, è escluso che trovi applicazione la disciplina dell’art. 3: nelle imprese di minori dimensioni, quindi, è precluso il rimedio della reintegrazione. Al contrario, anche nelle imprese di minori dimensioni si applica la disciplina dell’art. 2 D. Lgs. n. 23/2015, sempre che, come ovvio, si sia in presenza di un licenziamento discriminatorio o nullo perché riconducibile agli altri casi di nullità previsti dalla legge.

Già in passato la Cassazione aveva affermato la nullità di una sanzione disciplinare che non fosse stata proceduta dall’espletamento della procedura di cui all’art. 7 Stat. Lav. (Cass. 17286/2015); trattasi di una nullità c.d. “di protezione”, con tale espressione intendendosi le nullità che possono farsi valere solo dal soggetto nel cui interesse la nullità è prevista. Esse, tuttavia, si caratterizzano altresì per la coesistenza di una legittimazione ristretta (potendo essere fatte valere solo dai soggetti nel cui interesse sono previste) e dalla rilevabilità d’ufficio. Viene quindi richiamata dal Tribunale Cass. 9530/2023, a mente della quale “poiché le fasi del procedimento disciplinare non possono essere omesse o concentrate, e, di conseguenza, la nullità di una sanzione disciplinare, per tale tipo di violazione, rientra nella categoria delle nullità di protezione, in quanto fondata sullo scopo di tutela del contraente debole del rapporto, tale violazione non è assimilabile a quelle procedurali (di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42”.

Conseguentemente, il Giudice ritiene che in una fattispecie di licenziamento che non sia stata preceduta dalla contestazione disciplinare, “si sia in presenza, non già di una mera deviazione formale dallo schema procedimentale della norma disciplinare, bensì di una vera e propria nullità”.

Se a ciò si aggiunge che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 22 del 22 febbraio 2024, ha recentemente dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 D. Lgs. n. 23/2015 nella parte in cui il decreto limitava le ipotesi di reintegrazione ai casi di nullità “espressamente” previsti dalla legge, il Tribunale giunge alla conclusione per cui, per effetto di tale pronuncia della Consulta, “l’art. 2, comma 1 comprenda, tra le ipotesi meritevoli di tutela reintegratoria, anche quelle derivanti da nullità virtuali, da quelle cioè che, pur in mancanza di tale espressa previsione, costituiscano ipotesi di  contrarietà a norme imperative ai sensi del primo coma dell’art.1418 c.c. “salvo che la legge disponga diversamente”. Nel caso di specie, afferma il Tribunale, non vi è dubbio che la prescrizione di cui all’art. 7 Stat. Lav. che impone che l’irrogazione di una sanzione disciplinare debba essere preceduta dalla preventiva contestazione dell’addebito sia contenuta in una norma imperativa; conseguentemente, all’ipotesi del licenziamento che non sia stato preceduto dalla contestazione disciplinare, anche se irrogato in un’impresa dalle dimensioni organiche ridotte, trova applicazione l’art. 2 comma 1 D. Lgs. 23/2015 e dunque la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro senza alcuna limitazione quantitativa della correlativa indennità risarcitoria.

La questione si pone nei casi in cui, successivamente alla fruizione dell’indennità in questione, il lavoratore abbia ottenuto una sentenza che dichiara illegittimo il licenziamento e ordina al datore di lavoro la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro, oppure nel caso in cui venga pronunciata una sentenza che dichiara la nullità del termine apposto contratto di lavoro (con conseguente costituzione ex tunc di un unico rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato). In tali ipotesi, la ricostituzione giudiziale del rapporto di lavoro con efficacia retroattiva rende insussistente – dal punto di vista prettamente giuridico – il periodo di disoccupazione involontaria che ha giustificato l’erogazione dell’indennità.

Può pertanto l’I.N.P.S. chiedere la restituzione dell’indennità di disoccupazione sul presupposto che essa, per effetto del successivo pronunciamento giudiziale, sia divenuta un indebito?

Ha preso in esame il predetto quesito l’ordinanza n. 22985 del 21 agosto 2024 con cui la Corte di Cassazione ha rimesso la causa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione della medesima alle Sezioni Unite.

L’occasione è scaturita da un ricorso con cui l’I.N.P.S. ha impugnato una sentenza della Corte di Appello di Perugia che aveva ritenuto illegittima la richiesta dell’Ente previdenziale di restituzione dell’indennità di disoccupazione, che, successivamente alla scadenza del proprio rapporto di lavoro a tempo determinato, un lavoratore aveva percepito in ragione del proprio stato di disoccupazione involontaria. Lavoratore che, peraltro, aveva agito in giudizio, con esiti al medesimo favorevoli, al fine di veder dichiarata la nullità del termine apposto al proprio contratto di lavoro; quest’ultimo aveva pertanto ottenuto una sentenza di accertamento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato fin dal primo rapporto di lavoro a termine.

A fondamento della propria richiesta, l’Ente previdenziale ha sostenuto che, in seguito all’accertamento giurisdizionale, verrebbe meno lo stato di disoccupazione involontaria; inoltre, l’indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5, L. n. 183/2010, al pagamento della quale il datore è condannato in caso di accertata nullità del termine, sarebbe di per sé idonea a ristorare il pregiudizio subito dal lavoratore nel periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale sia stata ordinata la ricostituzione del rapporto, con il corollario che l’indennità di disoccupazione diverrebbe indebita.

La Corte di Cassazione muove, innanzi tutto, da un riepilogo della disciplina normativa e da una rapida analisi delle proprie pronunce sul tema. Rammenta quindi come sia stato affermato da Cass. 11 giugno 1998 n. 5850 che “l’effetto estintivo del rapporto di lavoro, proprio dell'atto di recesso, determina comunque lo stato di disoccupazione che rappresenta il fatto costitutivo del diritto alla prestazione stabilita dalla norma, sul quale non incide la contestazione in sede giudiziale della legittimità del licenziamento, impugnato dal lavoratore”.

Nella vigenza dell’art. 18 L. n. 300/1970 (nella versione anteriore alla riforma apportata dalla L. n. 92/2012), è stato altresì affermato (Cass. n. 18/10/2022 n. 30553) che l’indennità di disoccupazione spetti al lavoratore illegittimamente licenziato che, nonostante l’ordine di reintegrazione, non sia stato riammesso in servizio: ciò perché “lo stato di disoccupazione è pur sempre involontario, in quanto frutto dell'atto datoriale di risoluzione e non della mancata esecuzione del provvedimento giudiziale e dunque l'erogazione della prestazione previdenziale mantiene la medesima finalità di sostegno al reddito a cui è ordinariamente finalizzata”. Un punto più volte ribadito da diverse pronunce è quello per cui l’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore costituisce un diritto e non anche un obbligo, con il corollario per cui la mancata impugnazione del licenziamento non fa venir meno il diritto all’indennità di disoccupazione, posto che “diversamente opinando, si dovrebbe ritenere che non spetti l'indennità di disoccupazione ogni qual volta il lavoratore ometta di impugnare un licenziamento che pur si presenti manifestamente illegittimo oppure ogni qual volta transiga la lite prima ancora della (possibile) sentenza di reintegra”.

E’ stato quindi precisato, più chiaramente, che il diritto alla ripetizione dell’indennità di disoccupazione sussista solo nel caso in cui la ricostituzione del rapporto, oltre che giuridica, sia stata anche economica, circostanza che non si verifica “nel caso in cui si accerti che la ricostituzione del rapporto non sia mai intervenuta ed il lavoratore non abbia ricevuto le proprie spettanze retributive” (Cass. n. 28295/2019).

E così, recentemente, con l’ordinanza n. 22850 del 21/07/2022 (che si colloca nel solco di quanto sancito da Cass. n. 24950/2021, n. 17793/2020 e n. 28295/201) la Suprema Corte ha ritenuto che, in caso di accertata illegittimità del licenziamento cui sia seguita la reintegrazione nel posto di lavoro, “solo per effetto del ripristino del rapporto l’INPS potrà e dovrà procedere al recupero delle somme indebite non senza ricordare che, se alla pronunzia non segue l'effettiva reintegra anche perché non viene posta in esecuzione la sentenza favorevole, l’erogazione dell’indennità di disoccupazione non diviene indebita”.

Sembrerebbe quindi che, rileva la Corte con l’ordinanza che qui si commenta, il requisito della disoccupazione involontaria potrebbe venir meno per effetto di un sopravvenuto accertamento giudiziale (della nullità del termine o dell’illegittimità del licenziamento) con conseguente diritto dell’Ente previdenziale a ripetere quanto erogato, purché “sia ripristinato lo status di lavoratore occupato sotto tutti i profili, anche quello economico”.

Ribadito dunque il principio per cui l’effettivo ed integrale ripristino – anche economico – del rapporto di lavoro fa venir meno lo stato di disoccupazione involontaria e, per converso, fonda il diritto dell’I.N.P.S. alla ripetizione dell’indennità di disoccupazione,  ecco che la Sezione rimettente si confronta con il mutato quadro delle tutele di tipo economico che – a partire dalla Legge n. 183/2010 per il contratto a termine e dalla Legge n. 92/2012 per il licenziamento illegittimo – sono destinate a trovare applicazione, rispettivamente, in caso nullità del termine apposto al contratto di lavoro e in caso di invalidità del licenziamento.

L’innegabile e progressivo ridursi di tali tutele economiche rende necessario chiedersi, ad avviso della Sezione rimettente, se esse siano effettivamente in grado realizzare la finalità di sostegno al reddito a cui è preordinata l’indennità di disoccupazione che, “come ripetutamente affermato da questa Corte, ha natura previdenziale e svolge la funzione di fornire nel periodo di involontaria disoccupazione ai lavoratori (e alle loro famiglie) un sostegno al reddito, in attuazione della previsione dell'art. 38 secondo comma della Costituzione”.

Per questo motivo, ovvero per “la natura intrinsecamente di massima di particolare importanza della questione esposta e il latente contrasto esistente nella giurisprudenza di questa Corte circa l’interpretazione delle disposizioni sopra richiamate” (riferibile soprattutto a Cass. n. 24645/2023 che per la ripetizione dell’indennità di disoccupazione ritiene sufficiente la sola ricostituzione giuridica del rapporto), la Sezione Lavoro, come accennato, ha rimesso la causa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione dalla medesima alle Sezioni Unite.

Non resta che attendere l’intervento chiarificatore di queste ultime su un tema di notevole rilevanza all’interno del sistema di tutela previdenziale del lavoratore rimasto involontariamente disoccupato.

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