I fatti di causa

Un lavoratore viene licenziato per alcune condotte compiute due anni prima del licenziamento e che, fin dalla loro realizzazione, erano nella sfera di conoscibilità del datore di lavoro.

In giudizio, il lavoratore, tra le altre cose, deduce l’intempestività dell’atto di recesso datoriale.

Il Tribunale di Ravenna ritiene fondate le doglianze del lavoratore e, alla luce dei requisiti dimensionali del datore di lavoro, ritiene applicabile alla fattispecie l’art. 18, comma 4, L. 300/1970, disponendo pertanto la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato.

Il principio di tempestività o immediatezza della contestazione disciplinare

Il principio in parola, di creazione giurisprudenziale, è senz’altro strumentale ad un migliore esercizio del diritto di difesa del lavoratore. Egli, infatti, potrà efficacemente difendersi solo se, e nella misura in cui, sarà stato posto nelle condizioni di presentare le proprie giustificazioni in termini quanto più dettagliati e circostanziati possibile, cosa che, come ovvio, gli sarà tanto più difficile quanto è maggiore il tempo trascorso dai fatti che gli vengono contestati. In questo senso, benché non sia previsto dalla legge un termine massimo entro il quale il datore possa contestare un dato addebito di cui è a conoscenza, si è soliti ritenere che il principio di tempestività abbia natura procedurale, posto che, in ogni caso, attiene alla scansione procedimentale disciplinata dall’art. 7 L. n. 300/1970.

Per altro verso, poiché l’esercizio del potere disciplinare è facoltativo e poiché il datore di lavoro che, pur consapevole dell’illecito commesso, non procede alla contestazione disciplinare potrebbe indurre a pensare che egli abbia ritenuto che l’illecito disciplinare commesso non rivesta una gravità tale da integrare una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo idonei a legittimare il provvedimento espulsivo, è stato più volte sostenuto in giurisprudenza che il principio di tempestività inerisce, al contempo, al profilo causale del recesso. Ciò, in ragione del fatto che il decorso di un considerevole lasso di tempo tra la data di compiuta conoscenza del fatto e la sua contestazione lede l’affidamento, nel frattempo ragionevolmente ingeneratosi nel prestatore, circa la scarsa rilevanza disciplinare del fatto contestato o circa la mancata ricorrenza della causale di recesso.

La soluzione offerta dalle Sezioni Unite nel 2017...

Fatti questi brevissimi accenni di carattere teorico circa la natura “ambivalente” del principio di tempestività – là dove l’ambivalenza discende dalla sua contemporanea riferibilità agli aspetti procedurali/formali del licenziamento ma anche a quelli causali/sostanziali – il problema che già nel 2017 si era posto riguardava l’individuazione del rimedio sanzionatorio applicabile al licenziamento intempestivo. Ci si è chiesti, cioè, se ad esso dovesse essere applicato il rimedio dell’art. 18, comma 6, St. Lav. previsto per i vizi di natura procedurale, o se invece dovessero trovare applicazione i ben più incisivi rimedi previsti per i vizi del recesso di natura sostanziale, quelli, cioè, attinenti al profilo della giustificazione causale del licenziamento, e pertanto i rimedi previsti dal comma 4° o quelli del comma 5° del medesimo art. 18.

A fronte di un contrasto venutosi a determinare tra le Sezioni semplici, le Sezioni Unite della Cassazione, investite della relativa questione, con la pronuncia n. 30985/2017 hanno escluso che potesse applicarsi il rimedio reintegratorio di cui all’art. 18, comma 4.

E ciò, “per la semplice ragione che” esso è destinato ad operare allorquando sia stata accertata la non ricorrenza della causale addotta a fondamento del recesso per insussistenza del fatto contestato, ovvero per sua riconducibilità alle condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili, mentre “nelle ipotesi ... in cui sia accertata la sussistenza dell’illecito disciplinare posto a base del licenziamento, ma questo non sia stato preceduto da tempestiva contestazione, si è fuori dalla previsione di applicazione della tutela reale nella forma attenuata di cui al quarto comma del novellato art. 18 dello Statuto dei lavoratori”.

Esclusa l’operatività dell’anzidetto rimedio, le Sezioni Unite hanno rilevato che “la soluzione del problema discende sostanzialmente dalla valenza che si intende attribuire al principio della tempestività della contestazione dell’illecito disciplinare”. Rammentata la – più sopra accennata –  “duplicità” del principio di tempestività del potere disciplinare, la Cassazione ha proseguito affermando che “la violazione della procedura di cui all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori”, che comporta l’applicazione del rimedio indennitario di cui all’art. 18, comma 6, L. n. 300/1970, “è da intendere, ai fini sanzionatori che qui rilevano, come violazione delle regole che scandiscono le modalità di esecuzione dell’intero iter procedimentale nelle sue varie fasi, mentre la violazione del principio generale di carattere sostanziale della tempestività della contestazione quando assume il carattere di ritardo notevole e non giustificato è idoneo a determinare un affievolimento della garanzia per il dipendente incolpato di espletare in modo pieno una difesa effettiva nell’ambito del procedimento disciplinare”. In tale ultima ipotesi, non qualificabile in termini di ‘violazione meramente procedurale’, hanno affermato le Sezioni Unite, deve trovare applicazione il rimedio indennitario di cui all’art. 18, comma 5, “da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla c.d. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale”.

Infatti, se, da un lato, “l’inerzia del datore di lavoro di fronte alla condotta astrattamente inadempiente del lavoratore può essere considerata quale dichiarazione implicita, per facta concludentia, dell’insussistenza in concreto di alcuna lesione del suo interesse” (e dunque della sua volontà di soprassedere all’esercizio del potere disciplinare), dall’altro, il rimedio indennitario di cui all’art. 18, comma 5, ha un’operatività generalizzata, posto che esso è destinato a trovare applicazione “nelle altre ipotesi in cui” il Giudice “accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro”.

...e quella offerta dal Tribunale di Ravenna nel 2022.

Noncurante della funzione nomofilattica che istituzionalmente è assegnata alla Corte di Cassazione, ed ancor più alle Sezioni Unite della Corte[1], il Tribunale di Ravenna ha ritenuto applicabile al licenziamento intempestivo il rimedio reintegratorio previsto dall’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970, discostandosi così dalle conclusioni cui sono pervenute le Sezioni Unite con la pronuncia n. 30985/2017 e dichiarando apertamente, peraltro, di essere in disaccordo con esse.

Il Giudice romagnolo muove, innanzi tutto, dalla ineccepibile constatazione per cui è ormai pacifico e consolidato il principio di diritto secondo cui il fatto posto a fondamento del licenziamento deve necessariamente presentare una – almeno minima – rilevanza disciplinare, posto che la contestazione di un fatto che ne è privo equivale alla contestazione di un fatto insussistente. Conseguentemente, secondo tale consolidato orientamento[2], un licenziamento irrogato per un fatto disciplinarmente irrilevante è sanzionato con lo stesso rimedio reintegratorio, quello di cui all’art. 18, comma 4, previsto appunto per il licenziato a fondamento del quale è stato posto un fatto insussistente, cioè un fatto non verificatosi nella realtà fenomenica o comunque non imputabile a quel lavoratore.

Muovendo da tale assunto, al fine di giustificare la ritenuta applicabilità del rimedio di cui all’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970, il Tribunale di Ravenna equipara il licenziamento intempestivo ad un licenziamento irrogato per un fatto disciplinarmente irrilevante, posto che “se un fatto non è stato tempestivamente represso, non avendo avuto il datore di lavoro alcun interesse a sanzionarlo in tempo utile, il licenziamento tardivo è evidentemente avvenuto non per quel fatto, sul quale si è appunto soprasseduto; dunque, il fatto non può sussistere (giuridicamente), come fondamento di quel determinato, tardivo licenziamento (essendo irrilevante stabilire se, col senno di poi, tale fatto, laddove

tempestivamente contestato, sarebbe stato sussistente o meno).

Si tratta di un fenomeno che potrebbe chiamarsi di insussistenza giuridica sopravvenuta del fatto”.

In estrema sintesi, l’equazione su cu si fonda la decisione del Tribunale è la seguente:

a) un fatto disciplinarmente irrilevante è un fatto insussistente;

b) un fatto contestato tardivamente è un fatto che il datore di lavoro – poiché al momento della commissione e nell’arco di tempo necessario per la sua emersione e valutazione ha soprasseduto dall’esercizio tempestivo del potere disciplinare – ha mostrato di ritenere disciplinarmente irrilevante;

c) ergo,un licenziamento tardivo è un licenziamento irrogato per un fatto insussistente.

Per arrivare a tale conclusione, tuttavia, il Tribunale di Ravenna motiva la propria decisione con argomentazioni che, sebbene siano espressione di un’innegabile ragionevolezza – che invero, ed ancor prima, caratterizza la precedente e preminente decisione delle Sezioni Unite e che è frutto della riconosciuta attinenza del principio di tempestività al profilo causale del recesso – si traducono in una evidente forzatura della constatazione circa l’operatività residuale del rimedio reintegratorio di cui all’art. 18. co. 4, L. n. 300/1970. Constatazione che, una volta ribadita la “natura sostanziale” e non solo procedurale del principio in parola, ha appunto consentito alle Sezioni Unite di ritenere applicabile al licenziamento intempestivo il rimedio indennitario di cui all’art. 18, co. 5.

Infatti, come visto, con la pronuncia n. 30985/2017 la Cassazione, pur dando atto che il “ritardo notevole e non giustificato” nella contestazione di un addebito determina “un affievolimento della garanzia per il dipendente incolpato di espletare in modo pieno una difesa effettiva nell’ambito del procedimento disciplinare”, così riconoscendone l’attinenza del relativo principio al profilo causale del licenziamento, ha esplicitamente affermato che il licenziamento intempestivo dovrà essere sanzionato con il rimedio indennitario di cui all’art. 18, comma 5, “da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla c.d. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale[3]. Al contrario, al fine di giustificare la ritenuta operatività del rimedio reintegratorio al licenziamento intempestivo, il Giudice romagnolo è costretto a degradare la riflessione ermeneutica delle Sezioni Unite riconducendola al novero degli “approcci interpretativi fondati su apriorismi filosofici (in larga misura dovuti all’idea che alla reintegra dovesse assegnarsi un ambito applicativo residuale)”. Tant’è che, prosegue il Tribunale, saremmo in presenza di un “mutamento di humus giuridico medio tempore verificatosi nell’approccio degli istituti inseriti dalla L. n. 92/2012 nell’art. 18, con un ritorno alla centralità dell’istituto della reintegra (Corte Cost. 59/2021; Corte Cost. 125/2022; Corte di Cassazione n. 11665/2022)”.

Non è questa la sede per confutare nel dettaglio la conclusione, che però pare un po’ affrettata, con cui il Tribunale ha liquidato la decisione delle Sezioni Unite come figlia di un apriorismo filosofico, né quella relativa ad un presunto “ritorno di centralità” del rimedio reintegratorio.

E’ solo il caso di rilevare che, in verità, non appare del tutto corretto riconoscere un tale effetto dirompente alle decisioni menzionate dal Tribunale di Ravenna a fondamento della preteso ‘ritorno di centralità’ del rimedio reintegratorio. Si ritiene, piuttosto che esse siano pronunce con cui si sono volute eliminare alcune imprecisioni lessicali nella formulazione della legge che ingeneravano sterili dubbi interpretativi (questo è a dirsi per le due sentenze della Corte Costituzionale) o con cui, e ciò vale per Cass. n. 11665/2022, la Suprema Corte abbia voluto rivendicare gli spazi, la dignità, l’importanza e l’insopprimibilità dell’attività interpretativa che è chiamato a svolgere il giudice nell’esercizio della sua funzione istituzionale[4].


[1] Il fondamento normativo di tale funzione è da individuarsi, innanzi tutto, nell’art. 65, comma 1, del T.U. sull’Ordinamento giudiziario (R.D. n. 12/1941), a mente del quale “La corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di competenza e di attribuzioni, ed adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge”.

Nel codice di procedura civile, all’art. 374, rubricato con la dicitura “pronuncia a sezioni unite”, è previsto che “Nei casi previsti nel n. 1 dell'articolo 360 e nell'articolo 362 [142 disp. att.]. Tuttavia, tranne che nei casi di impugnazione delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, il ricorso può essere assegnato alle sezioni semplici, se sulla questione di giurisdizione proposta si sono già pronunciate le sezioni unite.

Inoltre il primo presidente può disporre che la Corte pronunci a sezioni unite sui ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, e su quelli che presentano una questione di massima di particolare importanza.

Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso.

In tutti gli altri casi la Corte pronuncia a sezione semplice”.

Anche l’art. 363 c.p.c. riguarda la funzione nomofilattica della Suprema Corte là dove prevede che “Quando le parti non hanno proposto ricorso nei termini di legge o vi hanno rinunciato, ovvero quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione può chiedere che la Corte enunci nell'interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi.

La richiesta del procuratore generale, contenente una sintetica esposizione del fatto e delle ragioni di diritto poste a fondamento dell'istanza, è rivolta al primo presidente, il quale può disporre che la Corte si pronunci a sezioni unite se ritiene che la questione è di particolare importanza.

Il principio di diritto può essere pronunciato dalla Corte anche d'ufficio, quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare importanza.

La pronuncia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito”.

[2] Si vedano, Cass. n. 29072/2017; Cass. n. 10019/2016; Cass. n. 20540/2015; Cass. 12174/2019

[3] E ciò, si badi bene, diversamente da quanto sostenuto dalla Sezione Lavoro della Cassazione con la precedente pronuncia n. 2513 del 31 gennaio 2017 che aveva ritenuto, così come poi ha fatto il Tribunale di Ravenna, che l’intempestività della contestazione impedisse al giudice di accertare o meno la sussistenza del “fatto contestato”, con conseguente equiparazione del licenziamento tardivo al licenziamento intimato sulla base di un fatto insussistente.

[4] Per un breve commento di Cass. n. 11665/2022 sia consentito rinviare a https://www.studioclaudioscognamiglio.it/la-reintegrazione-nel-posto-di-lavoro-in-caso-di-previsioni-collettive-formulate-in-maniera-elastica-o-tramite-il-ricorso-a-clausole-generali/; per un breve commento di Corte Cost. n. 125/2022 sia consentito rinviare a https://www.studioclaudioscognamiglio.it/lillegittimita-costituzionale-del-requisito-della-manifesta-insussistenza-del-fatto-posto-a-base-del-licenziamento-per-g-m-o/

Il caso

Un lavoratore chiede al datore di lavoro di poter fruire di un periodo di aspettativa non retribuita per un periodo di tre mesi, adducendo a fondamento della richiesta un certificato medico che attesta lo stato di gravidanza della moglie e la presenza di un pericolo di aborto. Il datore di lavoro accoglie la richiesta del lavoratore e la qualifica come aspettativa per gravi motivi familiari prevista dall’art. 4, L. n. 53/2000.

Nel periodo in cui l’attività lavorativa non viene espletata, il datore di lavoro, grazie a delle indagini investigative che nel frattempo aveva commissionato, scopre che il lavoratore, in ben sette occasioni distinte, ha svolto un’altra attività lavorativa. Per tale ragione il lavoratore viene licenziato per giusta causa.

La disciplina di legge

L’art. 4 della L. n. 53/2000 prevede che i dipendenti, pubblici o privati, possano “richiedere, per gravi e documentati motivi familiari, fra i quali le patologie individuate ai sensi del comma 4, un periodo di congedo, continuativo o frazionato, non superiore a due anni. Durante tale periodo il dipendente conserva il posto di lavoro, non ha diritto alla retribuzione e non può svolgere alcun tipo di attività lavorativa”.

La soluzione offerta dalla Corte di Cassazione con la pronuncia n. 19321/2022

La Corte conferma la decisione della Corte di Appello di Roma che aveva ritenuto legittimo e proporzionato il licenziamento fondato sull’inadempimento del divieto di legge di svolgere un’altra attività lavorativa durante la fruizione del periodo di aspettativa.

La decisione si pone in scia con la precedente pronuncia della Suprema Corte n. 6893/2018, la quale, sempre in tema di violazione del divieto di cui all’art. 4, L. n. 53/2000, aveva appunto ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore che vi aveva trasgredito. E ciò, pur mancando la relativa previsione nel codice disciplinare aziendale: trattandosi di un divieto posto dalla legge, infatti, non è appunto necessario che il codice disciplinare ricolleghi espressamente il licenziamento del dipendente a tale violazione, rientrando l’obbligo di astenersi dallo svolgimento di un’altra attività lavorativa nel c.d. “minimo etico”[1].

Benché non venga evocata esplicitamente la regola di cui all’art. 1375 c.c., vale a dire quella, ben nota, in base alla quale “il contratto deve essere eseguito secondo buona fede”, si ritiene che la decisione in commento sia una diretta applicazione al rapporto di lavoro di tale fondamentale regula iuris. In altri termini, a parere di chi scrive, la violazione di un divieto dal tenore letterale inequivocabile – quale quello previsto dall’art. 4 L. n. 53/2000, secondo cui, come visto, durante la fruizione del periodo di aspettativa per gravi motivi familiari, il lavoratore “non può svolgere alcun tipo di attività lavorativa” – oltre ad integrare l’inadempimento di uno specifico obbligo di legge, si pone in contrasto con il principio consolidato per cui “in tema di licenziamento per giusta causa l’obbligo di fedeltà è più ampio rispetto a quello risultante dall’art. 2105 c.c. atteso che tale obbligo deve essere integrato con gli obblighi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. che impongono al lavoratore di improntare la sua condotta al rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede[2].


[1] Si veda, sul punto specifico, la recente Cass. n. 11120 del 27 aprile 2021

[2] In questi termini, Cass. 13/2/2017, n. 3739.

L’art. 18, co. 7°, L. n. 300/1970

Con riferimento al licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, è noto che, per effetto delle modifiche apportate all’art. 18 St. Lav. dalla L. n. 92/2012, la reintegrazione nel posto di lavoro è ora disposta dal giudice “nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”. Tale assetto normativo, invero, si deve altresì alla recente pronuncia n. 59/2021 della Corte Costituzionale, la quale ha eliminato il carattere facoltativo della reintegrazione nell’ipotesi in cui il giudice abbia appunto ritenuto insussistente il fatto posto a base del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo.

I dubbi di legittimità sollevati dal Tribunale di Ravenna

Con ordinanza n. 97 del 2021 il Tribunale di Ravenna ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 7°, L. n. 300/1970 “nella parte in cui prevede che, in caso di insussistenza del fatto, per disporre la reintegra, occorra un quid pluris rappresentato dalla dimostrazione della ‘manifesta’ insussistenza del fatto stesso”.

Punto di partenza da cui muove il Tribunale è il diritto vivente e l’interpretazione, ormai consolidata, che la giurisprudenza ha fornito del requisito della ‘manifesta insussistenza’: esso si configurerebbe come un’assenza, particolarmente evidente e facilmente verificabile in giudizio, dei presupposti che legittimano il recesso, tale da rivelarne il carattere pretestuoso. Il giudice rimettente esclude che tale interpretazione possa essere conforme alla Costituzione e, in linea con tale assunto, delinea diversi profili di presunta illegittimità costituzionale della disposizione in parola.

Viene in primo luogo denunciato un possibile contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, in ragione della differenza di disciplina, ritenuta appunto arbitraria, prevista per il licenziamento disciplinare e per licenziamento per motivo oggettivo: solo nel secondo caso, “senza alcun fondamento logico-giuridico”, è richiesto che l’insussistenza del fatto sia manifesta affinché il rimedio reintegratorio possa essere disposto dal giudice. Secondo il Tribunale di Ravenna, inoltre, il criterio di matrice processuale della “manifesta insussistenza” sarebbe del tutto irrazionale, potenzialmente foriero di “risultati bizzarri ed imponderabili”, rimettendo alla “scelta totalmente discrezionale del giudice la determinazione delle tutele spettanti al lavoratore ingiustamente licenziato, senza fornire alcun criterio serio ed omogeneo, uguale per tutti”. Né si potrebbe sostenere, rileva il giudice rimettente, che tale disciplina sia correlata alla necessità di tutelare più efficacemente l’interesse costituzionale del datore di lavoro alla libertà dell’iniziativa economica privata, determinando unicamente l’effetto di realizzare un “assetto marcatamente ed ingiustificatamente sbilanciato in favore del datore di lavoro e, di contro, ingiustificatamente penalizzante per il lavoratore”. Ciò in quanto pone a carico del lavoratore l’onere di provare un fatto dai contorni incerti, qual è appunto il fatto manifestamente insussistente, un fatto negativo che, per di più, rientrerebbe “nella sfera di disponibilità anche probatoria del datore di lavoro”, così rendendo “eccessivamente difficoltoso l’esercizio del suo diritto di agire in giudizio”: in questo senso, la disciplina di legge si porrebbe altresì in contrasto con l’art. 24 della Costituzione.

La decisione della Consulta

In linea con quanto già affermato con la pronuncia n. 46 del 2000, la Corte Costituzionale ribadisce, innanzi tutto, che la reintegrazione non è l’unico rimedio sanzionatorio del licenziamento illegittimo idoneo a dare attuazione ai principi costituzionali in materia di lavoro delineati dagli artt. 4 e 35 della Costituzione. Tuttavia, ammonisce la Corte, pur nell’ampio margine di apprezzamento di cui il Legislatore dispone per dare attuazione ai predetti principi, è necessario che “la diversità dei rimedi previsti dalla legge” sia “sempre sorretta da una giustificazione plausibile”, dovendo tali rimedi “assicurare l’adeguatezza delle tutele riservate al lavoratore illegittimamente espulso”.

Inoltre, prima di esporre i motivi per cui il requisito della ‘manifesta insussistenza’ debba ritenersi illegittimo costituzionalmente, la Corte, sia pure in via incidentale, ricorre ad un’importantissima precisazione teorico-dogmatica: il fatto posto a base del recesso per g.m.o (ed alla cui manifesta insussistenza è subordinata, allo stato dell’assetto normativo su cui interviene la pronuncia, la reintegrazione) ricomprende sia le regioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, sia, “in via prioritaria, il nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso dal contratto, che si configura come extrema ratio, per l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore”. Con queste poche righe, pertanto, la Corte chiarisce inequivocabilmente che il “fatto posto a base del licenziamento” per g.m.o. si compone di più elementi oggettivi: le ragioni tecnico-organizzative, il nesso causale tra le stesse e il recesso di quel dato lavoratore (elemento la cui sussistenza e verificabilità in giudizio consente di escludere la pretestuosità del singolo recesso), nonché l’impossibilità di utilizzare quel lavoratore aliunde in maniera altrettanto proficua per l’azienda. E’ questo il c.d. obbligo di repechage di creazione giurisprudenziale, un obbligo che il datore di lavoro che ha proceduto al licenziamento deve provare in giudizio di aver adempiuto (sia pure nel tracciato delle allegazioni difensive del lavoratore circa le possibili utilizzazioni alternative del medesimo), posto anch’esso a presidio dell’imprescindibile assenza di pretestuosità del recesso; ciò, in quanto diretto a dimostrare “l’effettività e la genuinità della scelta imprenditoriale”, aspetti, questi ultimi, sui quali il giudice compie una valutazione di mera legittimità, che non può “sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità (sentenza n. 59 del 2021, punto 5 del Considerato in diritto)”.

Sottolinea poi la Corte che la previsione di operatività del rimedio reintegratorio circoscritta alle ipotesi di insussistenza manifesta del fatto si spiega in ragione della volontà del Legislatore di circoscrivere il rimedio più afflittivo ai casi di invalidità più gravi del recesso; viceversa, la tutela indennitaria trova applicazione allorquando l’illegittimità del licenziamento è correlata ad aspetti che “esulano dal fatto giuridicamente rilevante, inteso in senso stretto”, quale è, ad esempio, “il mancato rispetto della buona fede e della correttezza che presiedono alla scelta dei lavoratori da licenziare, quando questi appartengono a personale omogeneo e fungibile”.

Fatte queste premesse, la Consulta rileva che la previsione che subordina l’operatività della reintegrazione al carattere “manifesto” dell’insussistenza del fatto posto a base del recesso per g.m.o. “presenta profili di irragionevolezza intrinseca” in quanto “è problematico, nella prassi, il discrimine tra l’evidenza conclamata del vizio e l’insussistenza pura e semplice del fatto”. Tale assetto normativo fa sì che la scelta tra il rimedio reintegratorio e quello indennitario non sia ancorata a punti di riferimento chiari ed intellegibili. Non si tratta, precisa la Corte, di svalutare il valore decisorio della “discrezionalità del giudice”, intesa come prudente apprezzamento delle peculiarità del caso concreto “in base a puntuali e molteplici criteri desumibili dall’ordinamento, frutto di una evoluzione normativa risalente e di una prassi collaudata”. Peraltro, aggiunge la Consulta, al giudice viene chiesto di accertare se l’insussistenza del fatto posto a base del recesso sia o meno manifesta in assenza di alcun criterio direttivo certo, posto che “la sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma evoca piuttosto una alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi”.

Il criterio della manifesta insussistenza, soggiunge la Corte, è altresì irragionevole in quanto non è correlato con la maggiore o minore gravità del vizio di illegittimità del licenziamento, “che non è più grave solo perché l’insussistenza del fatto può essere agevolmente accertata in giudizio”. In questo senso, tale criterio si colloca “al di fuori” della logica su cui è strutturato l’intero apparato dei rimedi del licenziamento illegittimo, imperniato com’è “sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale, legata alla linearità e alla celerità dell’accertamento”. Ne deriva che la scelta concreta fra due rimedi, quello indennitario o quello reintegratorio, profondamente diversi tra loro quanto alla capacità di “ristorare” il lavoratore illegittimamente licenziato, finisce per dipendere dall’imprevedibile dialettica processuale e da numerose variabili che però sono “slegate” dalla “tipologia del vizio dell’atto espulsivo o dal ricorrere di altri razionali elementi distintivi”.

La Corte, pertanto, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, co. 7°, L. n. 300/1970 limitatamente alla parola “manifesta”.

Alcune considerazioni conclusive

A parere di chi scrive, l’originaria formulazione dell’art. 18, co. 7°, L. n. 300/1970 – che richiedeva appunto che l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per g.m.o. fosse “manifesta” – non era il portato di una volontà effettivamente “inconsapevole” delle criticità, immediate ed urgenti, che essa poneva, ma era in verità figlia di un “sofferto” compromesso politico che ha consentito di trovare uno spazio applicativo, sia pure ristretto, al rimedio reintegratorio. Si vuole dire, in altri termini, che tale formulazione sembrerebbe essere stata il frutto della contaminazione della “iniziale intenzione” di escludere in radice l’operatività della reintegrazione con riferimento al licenziamento intimato per g.m.o., che appunto si sarebbe in seguito “piegata” al compromesso di rendere estremamente residuali i casi di operatività di tale rimedio. In questo senso, non pare quindi azzardato sostenere che il “disegno” di escludere l’operatività del rimedio reintegratorio per il licenziamento intimato per g.m.o., portato a definitivo compimento con il successivo D. Lgs. n. 23/2015, era invero già delineato, perlomeno nei suoi tratti essenziali, fin dalla L. n. 92/2012.

A seguito della pronuncia n. 125/2022 della Corte costituzionale, più sopra brevemente annotata, è ragionevole prevedere che - in futuro - i maggiori problemi interpretativi che la giurisprudenza sarà chiamata a risolvere, saranno incentrati sulla nozione di “fatto posto a base del licenziamento” per giustificato motivo oggettivo. Per esso deve intendersi solamente la regione economico-organizzativa che è la giustificazione causale del provvedimento organizzativo del recesso o anche il nesso causale tra la prima ed il recesso? Ragionevolezza vorrebbe che anche il nesso causale giochi un ruolo fondamentale e rientri a pieno titolo nella nozione di “fatto”, pena il riconoscimento della possibilità che un licenziamento pretestuoso – quale sarebbe quello che non presenta alcun saldo nesso causale tra la ragione economica e il licenziamento di un dato lavoratore – non sia punito con la più afflittiva delle sanzioni, cioè con la reintegrazione. E quale ruolo riconoscere all’obbligo di repechage? Anch’esso è posto a presidio della prova dell’assenza di pretestuosità del recesso intimato per g.m.o. Che ne sarà, quindi, di un recesso intimato in aperta violazione dell’obbligo di repechage? A seconda di dove si colloca il repechage, se dentro o fuori il nucleo essenziale del “fatto posto a base del licenziamento” per g.m.o. si potrà avere un licenziamento sanzionato con la sola tutela indennitaria o uno sanzionato con la reintegrazione.

L’importante ed inequivocabile inciso operato dalla Corte con la pronuncia n. 125/2022 – con cui ha chiarito che il fatto posto a base del recesso per g.m.o. ricomprende sia le regioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, sia, “in via prioritaria, il nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso dal contratto, che si configura come extrema ratio, per l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore” – dovrebbe consentire di fugare ogni dubbio, rendendo gli interrogativi più sopra abbozzati privi di senso pratico: solo l’ulteriore consolidarsi della giurisprudenza, tuttavia, consentirà di affermare con certezza che la parola “fine” sulle questioni interpretative che affliggono il licenziamento per g.m.o. sia stata effettivamente pronunciata con la sentenza n. 125/2022 della Corte Costituzionale.

Per leggere il testo integrale della sentenza clicca qui:

https://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do

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