Breve nota a Cass. 33341/2022

Il c.d. obbligo di repêchage.

Come è noto, affinché un licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo sia legittimo è necessario che il datore sia in grado di provare che, prima di determinare l’interruzione del rapporto di lavoro, abbia adempiuto il c.d. obbligo di repêchage. E’ necessaria, in altri termini, la prova dell’impossibilità di collocare altrove il lavoratore che si intende licenziare; con la precisazione che tale soluzione di impiego alternativa deve potere offrire pari utilità al datore recedente, dovendosi peraltro individuare, come ovvio, entro il perimetro della propria organizzazione produttiva.

Si è soliti ritenere che tale obbligo, di matrice giurisprudenziale, sia posto a presidio della genuinità delle ragioni economiche che fondano il recesso datoriale; ad esso, in altri termini, è attribuita la funzione di “cartina di tornasole” dell’effettività delle ragioni che giustificano il licenziamento per g.m.o.. Infatti, solo nel caso in cui il lavoratore non possa essere collocato aliunde potranno ritenersi effettive, e non pretestuose, le ragioni economiche-organizzative sottese al recesso.

Il principio di diritto espresso da Cass. n. 33341/2022 in materia di onere probatorio.

Con la pronuncia qui in commento, la Corte di Cassazione ha innanzi tutto individuato la parte sulla quale ricade l’onere di provare l’adempimento dell’obbligo di repêchage..

Al riguardo, i principi generali che regolano la prova vogliono che spetti al debitore provare di avere adempiuto l’obbligo sul medesimo gravante, mentre il creditore ha solo l’onere di allegare l’inadempimento altrui. Nel caso di licenziamento per g.m.o., e segnatamente con riferimento all’obbligo di repêchage, se si ricorresse ad una meccanica applicazione dei predetti principi generali, se ne dovrebbe dedurre che per il lavoratore sia sufficiente allegare in giudizio l’inadempimento dell’obbligo di repêchage, mentre l’onere di provare il fatto contrario dell’esatto adempimento spetti al datore di lavoro. Tuttavia, a ben vedere, nelle imprese aventi dimensioni organiche ragguardevoli (si pensi a quelle aventi migliaia di sedi produttive e decine di migliaia di dipendenti), l’assolvimento di tale onere probatorio per il datore di lavoro sarebbe in un certo qual senso…“diabolico”, posto che esso, per potersi ritenere assolto, dovrebbe riguardare ogni posizione lavorativa alternativa a quella cui era assegnato il lavoratore licenziato, così come esistente nell’ambito dell’intera organizzazione produttiva datoriale ed in ipotesi vacante. Per tale motivo, per attenuare cioè le conseguenze che si produrrebbero in caso di un’applicazione rigida dei principi generali in materia di onere della prova, e quindi per rendere al datore di lavoro materialmente possibile l’assolvimento di tale onere probatorio, la giurisprudenza era solita ritenere che tale prova avrebbe dovuta essere fornita dal datore di lavoro nei limiti delle allegazioni offerte in giudizio dal lavoratore. Quest’ultimo, in sostanza, avrebbe dovuto cooperare, allegando ed individuando nei propri atti difensivi le posizioni lavorative alternative a quella presso cui era occupato, implicanti lo svolgimento di mansioni di equivalente contenuto professionale a quelle precedentemente svolte. Una volta individuate tali posizioni lavorative, nel caso in cui il datore di lavoro non fosse riuscito a provare in giudizio l’impossibilità di impiegarvi proficuamente il lavoratore, allora sarebbe stato ritenuto inadempiente all’obbligo di repêchage, con conseguente dichiarazione di illegittimità del licenziamento. E’ espressione di questo orientamento, tra le tante, Cassazione civile, sez. lav., 12/08/2016, n. 17091, a mente della quale “in caso di licenziamento per giustificato motivo obiettivo, la prova della impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni nell'ambito dell'organizzazione aziendale non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell'accertamento del possibile repêchage con mansioni diverse e anche inferiori a quelle originariamente svolte, mediante l’allegazione della esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato; a tale allegazione corrisponde l'onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità del lavoratore nei posti predetti”.

Viceversa, con la pronuncia n. 33341/2022 che qui si commenta, la Suprema Corte ha statuito che “spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di “repêchage” del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri”; ciò in quanto, afferma la Corte, “incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell’esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l’impossibilità del c.d. “repêchage”, ossia dell’inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore”.

Benché tale statuizione si collochi nel solco di un indirizzo giurisprudenziale che recentemente si è andato consolidando[1], a parere di chi scrive essa è espressione di un principio di diritto che, dietro lo “schermo” dell’ossequio alle regole in materia di accollo dell’onere della prova, finisce per addossare al datore di lavoro un onere probatorio che, di fatto, è assai arduo da assolvere, soprattutto nei casi in cui le dimensioni organiche dell’apparato produttivo siano particolarmente estese. In altri termini, ritenere che sul lavoratore che abbia impugnato il licenziamento non gravi l’onere di indicare, sia pure in maniera non necessariamente specifica e puntuale, “i posti assegnabili” perché “una divaricazione tra i suddetti oneri” sarebbe contraria “agli ordinari principi processuali”, rischia di trascurare le serie difficoltà probatorie a cui va incontro il datore di lavoro recedente, soprattutto nel caso in cui la sua organizzazione produttiva sia di notevoli dimensioni.

Va a peraltro dato atto della circostanza che le predette difficoltà probatorie potranno essere attenuate per mezzo dell’uso della prova presuntiva: infatti, e non potendo ovviamente essere sindacata la scelta del datore di lavoro di imprimere alla propria azienda un dato assetto dimensionale, la totale mancanza di nuove assunzioni di lavoratori di qualifica analoga a quella del licenziato entro un certo arco temporale dal recesso potrà essere apprezzata dal giudice, accanto alla prova positiva della integrale saturazione dei posti contemplati dall’organigramma aziendale, ove esistente, per la qualifica in considerazione, per ritenere assolta la prova dell’impossibilità del repêchage.

…ed il principio di diritto espresso in materia di rimedio sanzionatorio applicabile.

Particolarmente interessante, e senz’altro innovativa, è l’affermazione del principio – che pare desumersi dall’ordinanza oggetto di queste considerazioni -  per cui, nell’ipotesi in cui il datore di lavoro non abbia provato di aver adempiuto l’obbligo di repêchage, il lavoratore licenziato avrà diritto ad esser reintegrato nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18, comma 4°, L. n. 300/1970

Infatti, ha rilevato la Suprema Corte nella pronuncia qui annotata, “nelle more della definizione del giudizio è intervenuta la sentenza n. 125 del 19 maggio 2022” con cui la Corte Costituzionale ha previsto che, in caso di illegittimità di un licenziamento intimato per g.m.o., affinché la reintegrazione possa essere disposta, è sufficiente che il fatto posto alla base del medesimo sia ritenuto dal giudice “insussistente”, non essendo più necessario che esso, invece, sia “manifestamente insussistente” (per un più esaustivo commento della pronuncia della Corte Costituzione summenzionata sia consentito rinviare a https://www.studioclaudioscognamiglio.it/lillegittimita-costituzionale-del-requisito-della-manifesta-insussistenza-del-fatto-posto-a-base-del-licenziamento-per-g-m-o/).

Pertanto, è dato leggere in Cass. n. 33341/2022, la sentenza della Corte di appello che, reputato violato l’obbligo di repêchage, aveva applicato l’indennità risarcitoria di cui all’ar.t 18, comma 5°, L. n. 300/1970, appunto ritenendo che il fatto posto a base del licenziamento non fosse “manifestamente insussistente”, “ha negato la tutela reintegratoria al xxx sulla base di un parametro normativo oramai espunto dall’ordinamento”, con il corollario che essa dovrà essere cassata “per consentire al giudice del rinvio di riconoscere la tutela dovuta secondo il modificato quadro normativo”.

Al riguardo, si deve allora evidenziare che la pronuncia qui in commento si pone nel solco tracciato dalla Corte Costituzionale, la quale, con la sentenza n. 125/2022, aveva in effetti chiarito che il “fatto posto a base del licenziamento” per g.m.o. deve ritenersi composto da una pluralità di elementi oggettivi: dalle ragioni tecnico-organizzative, dal nesso causale tra le stesse e il recesso di quel dato lavoratore (elemento la cui sussistenza e verificabilità in giudizio consente di escludere la pretestuosità del singolo recesso), nonché dall’impossibilità di utilizzare quel lavoratore aliunde in maniera altrettanto proficua per l’azienda, ossia dal c.d. obbligo di repêchage. Se, dunque, questo ultimo aspetto compone, al pari degli altri, il presupposto oggettivo del licenziamento, la sua mancanza dovrebbe risolversi nella insussistenza del fatto, cosicché – una volta accertato nel giudizio di merito l’inadempimento dell’obbligo di repêchage – il corollario ineludibile, sul piano dei rimedi, dovrebbe essere la reintegra; eppure l’ordinanza in commento, in termini – a questo punto, non del tutto consequenziali – rimette al Giudice del rinvio di verificare “quale sia la tutela in concreto applicabile alla fattispecie sulla base della nuova dizione letterale dell’art. 18 comma 7 della legge n. 300 del 1970…”, senza decidere la causa nel merito, con la pronuncia dell’ordine di reintegra. La successiva evoluzione della giurisprudenza di legittimità consentirà di capire se si sia trattato di un’incoerenza della pronuncia qui commentata o – ma è davvero l’ipotesi meno probabile – se l’inadempimento dell’obbligo di repêchage possa essere destinato, sul piano dei rimedi, a ricevere un trattamento diverso da quello dell’insussistenza degli altri elementi che compongono la fattispecie del giustificato motivo oggettivo.


[1] In termini analoghi a Cass. 33341/2022 si sono già espresse:

  • Cassazione civile, sez. lav., 12/02/2020, n. 3475: “In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repêchage del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri”;
  • Cassazione civile, sez. lav., 05/01/2017, n. 160: “Poiché onere di allegazione e onere probatorio non possono che incombere sulla medesima parte, nel senso che chi ha l'onere di provare un fatto primario (costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo od estintivo dello stesso) ha altresì l'onere della relativa compiuta allegazione, non incombe sul lavoratore l'onere di indicare posizioni di lavoro in cui essere utilmente riallocato”;
  • Cassazione civile, sez. lav., 13/06/2016, n. 12101: “In materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spettano al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repêchage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di un onere di allegazione a carico del secondo, perché contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi gravanti sulla parte deducente”;
  • Cassazione civile, sez. lav., 22/03/2016, n. 5592: “In materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repêchage del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri”.

Lo ha stabilito la recente pronuncia n. 26198/2022 della Corte di Cassazione.

Come noto, l’art. 30 Stat. Lav. prevede che i componenti degli organi direttivi, provinciali e nazionali, delle rappresentanze sindacali aziendali possano beneficiare di permessi retribuiti al fine partecipare alle riunioni di tali organi.

Tale permesso era stato utilizzato dal lavoratore per finalità diverse dalla partecipazione alle suddette riunioni, ed in particolare per lo svolgimento di attività lavorativa in favore di terzi.

Il principio di diritto sancito dalla Corte.

La condotta del lavoratore è qualificata come una fattispecie di abuso del diritto, posto che il permesso sindacale era stato utilizzato per finalità estranee a quelle per cui è normativamente riconosciuto.

Non è questa la sede per approfondire la complessa tematica dell’abuso del diritto: qui è sufficiente rilevare che, con tale espressione, si è soliti indicare le ipotesi in cui un diritto viene esercitato dal suo titolare per finalità diverse da quelle per cui gli è stato riconosciuto dall’ordinamento. In questo senso, l’abuso del diritto integra una violazione della buona fede oggettiva, intesa come regola generale in base alla quale la condotta di ciascun contraente deve essere improntata a correttezza e reciproca lealtà.

Osserva la Corte che, nel caso di specie, deve escludersi la riconducibilità della condotta del lavoratore alle ipotesi di ‘assenza ingiustificata dal lavoro’ o ‘abbandono ingiustificato del posto di lavoro’, fattispecie, queste ultime, sanzionate dal contratto collettivo applicato al rapporto con una sanzione di tipo conservativo; infatti, non rileva “la mera assenza dal lavoro, ma un comportamento del dipendente connotato da un quid pluris rappresentato dall’utilizzazione del permesso sindacale per finalità diverse da quelle istituzionali”.

Inoltre, rammenta la Cassazione, la ‘giusta causa’ di licenziamento è una nozione di tipo elastico o una c.d. norma in bianco (benché, a dire il vero, nella sentenza qui in commento la Cassazione la definisca più precisamente – ma ad avviso di chi scrive, del tutto erroneamente – in termini di ‘clausola generale’), vale a dire un concetto giuridico suscettibile di essere ‘riempito’ di contenuto –  o meglio, concretizzato – dall’interprete “tramite valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi tacitamente richiamati dalla norma”.

Precisa infine la Cassazione, al fine di disattendere le doglianze del lavoratore dirette a sostenere la violazione del principio di proporzionalità, che la lesione del vincolo fiduciario addotta dal datore di lavoro a fondamento del licenziamento “investe la generalità del possibili futuri inadempimenti del lavoratore”.

I fatti di causa

Un lavoratore viene licenziato per alcune condotte compiute due anni prima del licenziamento e che, fin dalla loro realizzazione, erano nella sfera di conoscibilità del datore di lavoro.

In giudizio, il lavoratore, tra le altre cose, deduce l’intempestività dell’atto di recesso datoriale.

Il Tribunale di Ravenna ritiene fondate le doglianze del lavoratore e, alla luce dei requisiti dimensionali del datore di lavoro, ritiene applicabile alla fattispecie l’art. 18, comma 4, L. 300/1970, disponendo pertanto la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato.

Il principio di tempestività o immediatezza della contestazione disciplinare

Il principio in parola, di creazione giurisprudenziale, è senz’altro strumentale ad un migliore esercizio del diritto di difesa del lavoratore. Egli, infatti, potrà efficacemente difendersi solo se, e nella misura in cui, sarà stato posto nelle condizioni di presentare le proprie giustificazioni in termini quanto più dettagliati e circostanziati possibile, cosa che, come ovvio, gli sarà tanto più difficile quanto è maggiore il tempo trascorso dai fatti che gli vengono contestati. In questo senso, benché non sia previsto dalla legge un termine massimo entro il quale il datore possa contestare un dato addebito di cui è a conoscenza, si è soliti ritenere che il principio di tempestività abbia natura procedurale, posto che, in ogni caso, attiene alla scansione procedimentale disciplinata dall’art. 7 L. n. 300/1970.

Per altro verso, poiché l’esercizio del potere disciplinare è facoltativo e poiché il datore di lavoro che, pur consapevole dell’illecito commesso, non procede alla contestazione disciplinare potrebbe indurre a pensare che egli abbia ritenuto che l’illecito disciplinare commesso non rivesta una gravità tale da integrare una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo idonei a legittimare il provvedimento espulsivo, è stato più volte sostenuto in giurisprudenza che il principio di tempestività inerisce, al contempo, al profilo causale del recesso. Ciò, in ragione del fatto che il decorso di un considerevole lasso di tempo tra la data di compiuta conoscenza del fatto e la sua contestazione lede l’affidamento, nel frattempo ragionevolmente ingeneratosi nel prestatore, circa la scarsa rilevanza disciplinare del fatto contestato o circa la mancata ricorrenza della causale di recesso.

La soluzione offerta dalle Sezioni Unite nel 2017...

Fatti questi brevissimi accenni di carattere teorico circa la natura “ambivalente” del principio di tempestività – là dove l’ambivalenza discende dalla sua contemporanea riferibilità agli aspetti procedurali/formali del licenziamento ma anche a quelli causali/sostanziali – il problema che già nel 2017 si era posto riguardava l’individuazione del rimedio sanzionatorio applicabile al licenziamento intempestivo. Ci si è chiesti, cioè, se ad esso dovesse essere applicato il rimedio dell’art. 18, comma 6, St. Lav. previsto per i vizi di natura procedurale, o se invece dovessero trovare applicazione i ben più incisivi rimedi previsti per i vizi del recesso di natura sostanziale, quelli, cioè, attinenti al profilo della giustificazione causale del licenziamento, e pertanto i rimedi previsti dal comma 4° o quelli del comma 5° del medesimo art. 18.

A fronte di un contrasto venutosi a determinare tra le Sezioni semplici, le Sezioni Unite della Cassazione, investite della relativa questione, con la pronuncia n. 30985/2017 hanno escluso che potesse applicarsi il rimedio reintegratorio di cui all’art. 18, comma 4.

E ciò, “per la semplice ragione che” esso è destinato ad operare allorquando sia stata accertata la non ricorrenza della causale addotta a fondamento del recesso per insussistenza del fatto contestato, ovvero per sua riconducibilità alle condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili, mentre “nelle ipotesi ... in cui sia accertata la sussistenza dell’illecito disciplinare posto a base del licenziamento, ma questo non sia stato preceduto da tempestiva contestazione, si è fuori dalla previsione di applicazione della tutela reale nella forma attenuata di cui al quarto comma del novellato art. 18 dello Statuto dei lavoratori”.

Esclusa l’operatività dell’anzidetto rimedio, le Sezioni Unite hanno rilevato che “la soluzione del problema discende sostanzialmente dalla valenza che si intende attribuire al principio della tempestività della contestazione dell’illecito disciplinare”. Rammentata la – più sopra accennata –  “duplicità” del principio di tempestività del potere disciplinare, la Cassazione ha proseguito affermando che “la violazione della procedura di cui all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori”, che comporta l’applicazione del rimedio indennitario di cui all’art. 18, comma 6, L. n. 300/1970, “è da intendere, ai fini sanzionatori che qui rilevano, come violazione delle regole che scandiscono le modalità di esecuzione dell’intero iter procedimentale nelle sue varie fasi, mentre la violazione del principio generale di carattere sostanziale della tempestività della contestazione quando assume il carattere di ritardo notevole e non giustificato è idoneo a determinare un affievolimento della garanzia per il dipendente incolpato di espletare in modo pieno una difesa effettiva nell’ambito del procedimento disciplinare”. In tale ultima ipotesi, non qualificabile in termini di ‘violazione meramente procedurale’, hanno affermato le Sezioni Unite, deve trovare applicazione il rimedio indennitario di cui all’art. 18, comma 5, “da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla c.d. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale”.

Infatti, se, da un lato, “l’inerzia del datore di lavoro di fronte alla condotta astrattamente inadempiente del lavoratore può essere considerata quale dichiarazione implicita, per facta concludentia, dell’insussistenza in concreto di alcuna lesione del suo interesse” (e dunque della sua volontà di soprassedere all’esercizio del potere disciplinare), dall’altro, il rimedio indennitario di cui all’art. 18, comma 5, ha un’operatività generalizzata, posto che esso è destinato a trovare applicazione “nelle altre ipotesi in cui” il Giudice “accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro”.

...e quella offerta dal Tribunale di Ravenna nel 2022.

Noncurante della funzione nomofilattica che istituzionalmente è assegnata alla Corte di Cassazione, ed ancor più alle Sezioni Unite della Corte[1], il Tribunale di Ravenna ha ritenuto applicabile al licenziamento intempestivo il rimedio reintegratorio previsto dall’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970, discostandosi così dalle conclusioni cui sono pervenute le Sezioni Unite con la pronuncia n. 30985/2017 e dichiarando apertamente, peraltro, di essere in disaccordo con esse.

Il Giudice romagnolo muove, innanzi tutto, dalla ineccepibile constatazione per cui è ormai pacifico e consolidato il principio di diritto secondo cui il fatto posto a fondamento del licenziamento deve necessariamente presentare una – almeno minima – rilevanza disciplinare, posto che la contestazione di un fatto che ne è privo equivale alla contestazione di un fatto insussistente. Conseguentemente, secondo tale consolidato orientamento[2], un licenziamento irrogato per un fatto disciplinarmente irrilevante è sanzionato con lo stesso rimedio reintegratorio, quello di cui all’art. 18, comma 4, previsto appunto per il licenziato a fondamento del quale è stato posto un fatto insussistente, cioè un fatto non verificatosi nella realtà fenomenica o comunque non imputabile a quel lavoratore.

Muovendo da tale assunto, al fine di giustificare la ritenuta applicabilità del rimedio di cui all’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970, il Tribunale di Ravenna equipara il licenziamento intempestivo ad un licenziamento irrogato per un fatto disciplinarmente irrilevante, posto che “se un fatto non è stato tempestivamente represso, non avendo avuto il datore di lavoro alcun interesse a sanzionarlo in tempo utile, il licenziamento tardivo è evidentemente avvenuto non per quel fatto, sul quale si è appunto soprasseduto; dunque, il fatto non può sussistere (giuridicamente), come fondamento di quel determinato, tardivo licenziamento (essendo irrilevante stabilire se, col senno di poi, tale fatto, laddove

tempestivamente contestato, sarebbe stato sussistente o meno).

Si tratta di un fenomeno che potrebbe chiamarsi di insussistenza giuridica sopravvenuta del fatto”.

In estrema sintesi, l’equazione su cu si fonda la decisione del Tribunale è la seguente:

a) un fatto disciplinarmente irrilevante è un fatto insussistente;

b) un fatto contestato tardivamente è un fatto che il datore di lavoro – poiché al momento della commissione e nell’arco di tempo necessario per la sua emersione e valutazione ha soprasseduto dall’esercizio tempestivo del potere disciplinare – ha mostrato di ritenere disciplinarmente irrilevante;

c) ergo,un licenziamento tardivo è un licenziamento irrogato per un fatto insussistente.

Per arrivare a tale conclusione, tuttavia, il Tribunale di Ravenna motiva la propria decisione con argomentazioni che, sebbene siano espressione di un’innegabile ragionevolezza – che invero, ed ancor prima, caratterizza la precedente e preminente decisione delle Sezioni Unite e che è frutto della riconosciuta attinenza del principio di tempestività al profilo causale del recesso – si traducono in una evidente forzatura della constatazione circa l’operatività residuale del rimedio reintegratorio di cui all’art. 18. co. 4, L. n. 300/1970. Constatazione che, una volta ribadita la “natura sostanziale” e non solo procedurale del principio in parola, ha appunto consentito alle Sezioni Unite di ritenere applicabile al licenziamento intempestivo il rimedio indennitario di cui all’art. 18, co. 5.

Infatti, come visto, con la pronuncia n. 30985/2017 la Cassazione, pur dando atto che il “ritardo notevole e non giustificato” nella contestazione di un addebito determina “un affievolimento della garanzia per il dipendente incolpato di espletare in modo pieno una difesa effettiva nell’ambito del procedimento disciplinare”, così riconoscendone l’attinenza del relativo principio al profilo causale del licenziamento, ha esplicitamente affermato che il licenziamento intempestivo dovrà essere sanzionato con il rimedio indennitario di cui all’art. 18, comma 5, “da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla c.d. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale[3]. Al contrario, al fine di giustificare la ritenuta operatività del rimedio reintegratorio al licenziamento intempestivo, il Giudice romagnolo è costretto a degradare la riflessione ermeneutica delle Sezioni Unite riconducendola al novero degli “approcci interpretativi fondati su apriorismi filosofici (in larga misura dovuti all’idea che alla reintegra dovesse assegnarsi un ambito applicativo residuale)”. Tant’è che, prosegue il Tribunale, saremmo in presenza di un “mutamento di humus giuridico medio tempore verificatosi nell’approccio degli istituti inseriti dalla L. n. 92/2012 nell’art. 18, con un ritorno alla centralità dell’istituto della reintegra (Corte Cost. 59/2021; Corte Cost. 125/2022; Corte di Cassazione n. 11665/2022)”.

Non è questa la sede per confutare nel dettaglio la conclusione, che però pare un po’ affrettata, con cui il Tribunale ha liquidato la decisione delle Sezioni Unite come figlia di un apriorismo filosofico, né quella relativa ad un presunto “ritorno di centralità” del rimedio reintegratorio.

E’ solo il caso di rilevare che, in verità, non appare del tutto corretto riconoscere un tale effetto dirompente alle decisioni menzionate dal Tribunale di Ravenna a fondamento della preteso ‘ritorno di centralità’ del rimedio reintegratorio. Si ritiene, piuttosto che esse siano pronunce con cui si sono volute eliminare alcune imprecisioni lessicali nella formulazione della legge che ingeneravano sterili dubbi interpretativi (questo è a dirsi per le due sentenze della Corte Costituzionale) o con cui, e ciò vale per Cass. n. 11665/2022, la Suprema Corte abbia voluto rivendicare gli spazi, la dignità, l’importanza e l’insopprimibilità dell’attività interpretativa che è chiamato a svolgere il giudice nell’esercizio della sua funzione istituzionale[4].


[1] Il fondamento normativo di tale funzione è da individuarsi, innanzi tutto, nell’art. 65, comma 1, del T.U. sull’Ordinamento giudiziario (R.D. n. 12/1941), a mente del quale “La corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di competenza e di attribuzioni, ed adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge”.

Nel codice di procedura civile, all’art. 374, rubricato con la dicitura “pronuncia a sezioni unite”, è previsto che “Nei casi previsti nel n. 1 dell'articolo 360 e nell'articolo 362 [142 disp. att.]. Tuttavia, tranne che nei casi di impugnazione delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, il ricorso può essere assegnato alle sezioni semplici, se sulla questione di giurisdizione proposta si sono già pronunciate le sezioni unite.

Inoltre il primo presidente può disporre che la Corte pronunci a sezioni unite sui ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, e su quelli che presentano una questione di massima di particolare importanza.

Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso.

In tutti gli altri casi la Corte pronuncia a sezione semplice”.

Anche l’art. 363 c.p.c. riguarda la funzione nomofilattica della Suprema Corte là dove prevede che “Quando le parti non hanno proposto ricorso nei termini di legge o vi hanno rinunciato, ovvero quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione può chiedere che la Corte enunci nell'interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi.

La richiesta del procuratore generale, contenente una sintetica esposizione del fatto e delle ragioni di diritto poste a fondamento dell'istanza, è rivolta al primo presidente, il quale può disporre che la Corte si pronunci a sezioni unite se ritiene che la questione è di particolare importanza.

Il principio di diritto può essere pronunciato dalla Corte anche d'ufficio, quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare importanza.

La pronuncia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito”.

[2] Si vedano, Cass. n. 29072/2017; Cass. n. 10019/2016; Cass. n. 20540/2015; Cass. 12174/2019

[3] E ciò, si badi bene, diversamente da quanto sostenuto dalla Sezione Lavoro della Cassazione con la precedente pronuncia n. 2513 del 31 gennaio 2017 che aveva ritenuto, così come poi ha fatto il Tribunale di Ravenna, che l’intempestività della contestazione impedisse al giudice di accertare o meno la sussistenza del “fatto contestato”, con conseguente equiparazione del licenziamento tardivo al licenziamento intimato sulla base di un fatto insussistente.

[4] Per un breve commento di Cass. n. 11665/2022 sia consentito rinviare a https://www.studioclaudioscognamiglio.it/la-reintegrazione-nel-posto-di-lavoro-in-caso-di-previsioni-collettive-formulate-in-maniera-elastica-o-tramite-il-ricorso-a-clausole-generali/; per un breve commento di Corte Cost. n. 125/2022 sia consentito rinviare a https://www.studioclaudioscognamiglio.it/lillegittimita-costituzionale-del-requisito-della-manifesta-insussistenza-del-fatto-posto-a-base-del-licenziamento-per-g-m-o/

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