Il caso
Un lavoratore chiede al datore di lavoro di poter fruire di un periodo di aspettativa non retribuita per un periodo di tre mesi, adducendo a fondamento della richiesta un certificato medico che attesta lo stato di gravidanza della moglie e la presenza di un pericolo di aborto. Il datore di lavoro accoglie la richiesta del lavoratore e la qualifica come aspettativa per gravi motivi familiari prevista dall’art. 4, L. n. 53/2000.
Nel periodo in cui l’attività lavorativa non viene espletata, il datore di lavoro, grazie a delle indagini investigative che nel frattempo aveva commissionato, scopre che il lavoratore, in ben sette occasioni distinte, ha svolto un’altra attività lavorativa. Per tale ragione il lavoratore viene licenziato per giusta causa.
La disciplina di legge
L’art. 4 della L. n. 53/2000 prevede che i dipendenti, pubblici o privati, possano “richiedere, per gravi e documentati motivi familiari, fra i quali le patologie individuate ai sensi del comma 4, un periodo di congedo, continuativo o frazionato, non superiore a due anni. Durante tale periodo il dipendente conserva il posto di lavoro, non ha diritto alla retribuzione e non può svolgere alcun tipo di attività lavorativa”.
La soluzione offerta dalla Corte di Cassazione con la pronuncia n. 19321/2022
La Corte conferma la decisione della Corte di Appello di Roma che aveva ritenuto legittimo e proporzionato il licenziamento fondato sull’inadempimento del divieto di legge di svolgere un’altra attività lavorativa durante la fruizione del periodo di aspettativa.
La decisione si pone in scia con la precedente pronuncia della Suprema Corte n. 6893/2018, la quale, sempre in tema di violazione del divieto di cui all’art. 4, L. n. 53/2000, aveva appunto ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore che vi aveva trasgredito. E ciò, pur mancando la relativa previsione nel codice disciplinare aziendale: trattandosi di un divieto posto dalla legge, infatti, non è appunto necessario che il codice disciplinare ricolleghi espressamente il licenziamento del dipendente a tale violazione, rientrando l’obbligo di astenersi dallo svolgimento di un’altra attività lavorativa nel c.d. “minimo etico”[1].
Benché non venga evocata esplicitamente la regola di cui all’art. 1375 c.c., vale a dire quella, ben nota, in base alla quale “il contratto deve essere eseguito secondo buona fede”, si ritiene che la decisione in commento sia una diretta applicazione al rapporto di lavoro di tale fondamentale regula iuris. In altri termini, a parere di chi scrive, la violazione di un divieto dal tenore letterale inequivocabile – quale quello previsto dall’art. 4 L. n. 53/2000, secondo cui, come visto, durante la fruizione del periodo di aspettativa per gravi motivi familiari, il lavoratore “non può svolgere alcun tipo di attività lavorativa” – oltre ad integrare l’inadempimento di uno specifico obbligo di legge, si pone in contrasto con il principio consolidato per cui “in tema di licenziamento per giusta causa l’obbligo di fedeltà è più ampio rispetto a quello risultante dall’art. 2105 c.c. atteso che tale obbligo deve essere integrato con gli obblighi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. che impongono al lavoratore di improntare la sua condotta al rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede”[2].
[1] Si veda, sul punto specifico, la recente Cass. n. 11120 del 27 aprile 2021
[2] In questi termini, Cass. 13/2/2017, n. 3739.
L’art. 18, co. 7°, L. n. 300/1970
Con riferimento al licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, è noto che, per effetto delle modifiche apportate all’art. 18 St. Lav. dalla L. n. 92/2012, la reintegrazione nel posto di lavoro è ora disposta dal giudice “nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”. Tale assetto normativo, invero, si deve altresì alla recente pronuncia n. 59/2021 della Corte Costituzionale, la quale ha eliminato il carattere facoltativo della reintegrazione nell’ipotesi in cui il giudice abbia appunto ritenuto insussistente il fatto posto a base del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo.
I dubbi di legittimità sollevati dal Tribunale di Ravenna
Con ordinanza n. 97 del 2021 il Tribunale di Ravenna ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 7°, L. n. 300/1970 “nella parte in cui prevede che, in caso di insussistenza del fatto, per disporre la reintegra, occorra un quid pluris rappresentato dalla dimostrazione della ‘manifesta’ insussistenza del fatto stesso”.
Punto di partenza da cui muove il Tribunale è il diritto vivente e l’interpretazione, ormai consolidata, che la giurisprudenza ha fornito del requisito della ‘manifesta insussistenza’: esso si configurerebbe come un’assenza, particolarmente evidente e facilmente verificabile in giudizio, dei presupposti che legittimano il recesso, tale da rivelarne il carattere pretestuoso. Il giudice rimettente esclude che tale interpretazione possa essere conforme alla Costituzione e, in linea con tale assunto, delinea diversi profili di presunta illegittimità costituzionale della disposizione in parola.
Viene in primo luogo denunciato un possibile contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, in ragione della differenza di disciplina, ritenuta appunto arbitraria, prevista per il licenziamento disciplinare e per licenziamento per motivo oggettivo: solo nel secondo caso, “senza alcun fondamento logico-giuridico”, è richiesto che l’insussistenza del fatto sia manifesta affinché il rimedio reintegratorio possa essere disposto dal giudice. Secondo il Tribunale di Ravenna, inoltre, il criterio di matrice processuale della “manifesta insussistenza” sarebbe del tutto irrazionale, potenzialmente foriero di “risultati bizzarri ed imponderabili”, rimettendo alla “scelta totalmente discrezionale del giudice la determinazione delle tutele spettanti al lavoratore ingiustamente licenziato, senza fornire alcun criterio serio ed omogeneo, uguale per tutti”. Né si potrebbe sostenere, rileva il giudice rimettente, che tale disciplina sia correlata alla necessità di tutelare più efficacemente l’interesse costituzionale del datore di lavoro alla libertà dell’iniziativa economica privata, determinando unicamente l’effetto di realizzare un “assetto marcatamente ed ingiustificatamente sbilanciato in favore del datore di lavoro e, di contro, ingiustificatamente penalizzante per il lavoratore”. Ciò in quanto pone a carico del lavoratore l’onere di provare un fatto dai contorni incerti, qual è appunto il fatto manifestamente insussistente, un fatto negativo che, per di più, rientrerebbe “nella sfera di disponibilità anche probatoria del datore di lavoro”, così rendendo “eccessivamente difficoltoso l’esercizio del suo diritto di agire in giudizio”: in questo senso, la disciplina di legge si porrebbe altresì in contrasto con l’art. 24 della Costituzione.
La decisione della Consulta
In linea con quanto già affermato con la pronuncia n. 46 del 2000, la Corte Costituzionale ribadisce, innanzi tutto, che la reintegrazione non è l’unico rimedio sanzionatorio del licenziamento illegittimo idoneo a dare attuazione ai principi costituzionali in materia di lavoro delineati dagli artt. 4 e 35 della Costituzione. Tuttavia, ammonisce la Corte, pur nell’ampio margine di apprezzamento di cui il Legislatore dispone per dare attuazione ai predetti principi, è necessario che “la diversità dei rimedi previsti dalla legge” sia “sempre sorretta da una giustificazione plausibile”, dovendo tali rimedi “assicurare l’adeguatezza delle tutele riservate al lavoratore illegittimamente espulso”.
Inoltre, prima di esporre i motivi per cui il requisito della ‘manifesta insussistenza’ debba ritenersi illegittimo costituzionalmente, la Corte, sia pure in via incidentale, ricorre ad un’importantissima precisazione teorico-dogmatica: il fatto posto a base del recesso per g.m.o (ed alla cui manifesta insussistenza è subordinata, allo stato dell’assetto normativo su cui interviene la pronuncia, la reintegrazione) ricomprende sia le regioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, sia, “in via prioritaria, il nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso dal contratto, che si configura come extrema ratio, per l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore”. Con queste poche righe, pertanto, la Corte chiarisce inequivocabilmente che il “fatto posto a base del licenziamento” per g.m.o. si compone di più elementi oggettivi: le ragioni tecnico-organizzative, il nesso causale tra le stesse e il recesso di quel dato lavoratore (elemento la cui sussistenza e verificabilità in giudizio consente di escludere la pretestuosità del singolo recesso), nonché l’impossibilità di utilizzare quel lavoratore aliunde in maniera altrettanto proficua per l’azienda. E’ questo il c.d. obbligo di repechage di creazione giurisprudenziale, un obbligo che il datore di lavoro che ha proceduto al licenziamento deve provare in giudizio di aver adempiuto (sia pure nel tracciato delle allegazioni difensive del lavoratore circa le possibili utilizzazioni alternative del medesimo), posto anch’esso a presidio dell’imprescindibile assenza di pretestuosità del recesso; ciò, in quanto diretto a dimostrare “l’effettività e la genuinità della scelta imprenditoriale”, aspetti, questi ultimi, sui quali il giudice compie una valutazione di mera legittimità, che non può “sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità (sentenza n. 59 del 2021, punto 5 del Considerato in diritto)”.
Sottolinea poi la Corte che la previsione di operatività del rimedio reintegratorio circoscritta alle ipotesi di insussistenza manifesta del fatto si spiega in ragione della volontà del Legislatore di circoscrivere il rimedio più afflittivo ai casi di invalidità più gravi del recesso; viceversa, la tutela indennitaria trova applicazione allorquando l’illegittimità del licenziamento è correlata ad aspetti che “esulano dal fatto giuridicamente rilevante, inteso in senso stretto”, quale è, ad esempio, “il mancato rispetto della buona fede e della correttezza che presiedono alla scelta dei lavoratori da licenziare, quando questi appartengono a personale omogeneo e fungibile”.
Fatte queste premesse, la Consulta rileva che la previsione che subordina l’operatività della reintegrazione al carattere “manifesto” dell’insussistenza del fatto posto a base del recesso per g.m.o. “presenta profili di irragionevolezza intrinseca” in quanto “è problematico, nella prassi, il discrimine tra l’evidenza conclamata del vizio e l’insussistenza pura e semplice del fatto”. Tale assetto normativo fa sì che la scelta tra il rimedio reintegratorio e quello indennitario non sia ancorata a punti di riferimento chiari ed intellegibili. Non si tratta, precisa la Corte, di svalutare il valore decisorio della “discrezionalità del giudice”, intesa come prudente apprezzamento delle peculiarità del caso concreto “in base a puntuali e molteplici criteri desumibili dall’ordinamento, frutto di una evoluzione normativa risalente e di una prassi collaudata”. Peraltro, aggiunge la Consulta, al giudice viene chiesto di accertare se l’insussistenza del fatto posto a base del recesso sia o meno manifesta in assenza di alcun criterio direttivo certo, posto che “la sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma evoca piuttosto una alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi”.
Il criterio della manifesta insussistenza, soggiunge la Corte, è altresì irragionevole in quanto non è correlato con la maggiore o minore gravità del vizio di illegittimità del licenziamento, “che non è più grave solo perché l’insussistenza del fatto può essere agevolmente accertata in giudizio”. In questo senso, tale criterio si colloca “al di fuori” della logica su cui è strutturato l’intero apparato dei rimedi del licenziamento illegittimo, imperniato com’è “sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale, legata alla linearità e alla celerità dell’accertamento”. Ne deriva che la scelta concreta fra due rimedi, quello indennitario o quello reintegratorio, profondamente diversi tra loro quanto alla capacità di “ristorare” il lavoratore illegittimamente licenziato, finisce per dipendere dall’imprevedibile dialettica processuale e da numerose variabili che però sono “slegate” dalla “tipologia del vizio dell’atto espulsivo o dal ricorrere di altri razionali elementi distintivi”.
La Corte, pertanto, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, co. 7°, L. n. 300/1970 limitatamente alla parola “manifesta”.
Alcune considerazioni conclusive
A parere di chi scrive, l’originaria formulazione dell’art. 18, co. 7°, L. n. 300/1970 – che richiedeva appunto che l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per g.m.o. fosse “manifesta” – non era il portato di una volontà effettivamente “inconsapevole” delle criticità, immediate ed urgenti, che essa poneva, ma era in verità figlia di un “sofferto” compromesso politico che ha consentito di trovare uno spazio applicativo, sia pure ristretto, al rimedio reintegratorio. Si vuole dire, in altri termini, che tale formulazione sembrerebbe essere stata il frutto della contaminazione della “iniziale intenzione” di escludere in radice l’operatività della reintegrazione con riferimento al licenziamento intimato per g.m.o., che appunto si sarebbe in seguito “piegata” al compromesso di rendere estremamente residuali i casi di operatività di tale rimedio. In questo senso, non pare quindi azzardato sostenere che il “disegno” di escludere l’operatività del rimedio reintegratorio per il licenziamento intimato per g.m.o., portato a definitivo compimento con il successivo D. Lgs. n. 23/2015, era invero già delineato, perlomeno nei suoi tratti essenziali, fin dalla L. n. 92/2012.
A seguito della pronuncia n. 125/2022 della Corte costituzionale, più sopra brevemente annotata, è ragionevole prevedere che - in futuro - i maggiori problemi interpretativi che la giurisprudenza sarà chiamata a risolvere, saranno incentrati sulla nozione di “fatto posto a base del licenziamento” per giustificato motivo oggettivo. Per esso deve intendersi solamente la regione economico-organizzativa che è la giustificazione causale del provvedimento organizzativo del recesso o anche il nesso causale tra la prima ed il recesso? Ragionevolezza vorrebbe che anche il nesso causale giochi un ruolo fondamentale e rientri a pieno titolo nella nozione di “fatto”, pena il riconoscimento della possibilità che un licenziamento pretestuoso – quale sarebbe quello che non presenta alcun saldo nesso causale tra la ragione economica e il licenziamento di un dato lavoratore – non sia punito con la più afflittiva delle sanzioni, cioè con la reintegrazione. E quale ruolo riconoscere all’obbligo di repechage? Anch’esso è posto a presidio della prova dell’assenza di pretestuosità del recesso intimato per g.m.o. Che ne sarà, quindi, di un recesso intimato in aperta violazione dell’obbligo di repechage? A seconda di dove si colloca il repechage, se dentro o fuori il nucleo essenziale del “fatto posto a base del licenziamento” per g.m.o. si potrà avere un licenziamento sanzionato con la sola tutela indennitaria o uno sanzionato con la reintegrazione.
L’importante ed inequivocabile inciso operato dalla Corte con la pronuncia n. 125/2022 – con cui ha chiarito che il fatto posto a base del recesso per g.m.o. ricomprende sia le regioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, sia, “in via prioritaria, il nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso dal contratto, che si configura come extrema ratio, per l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore” – dovrebbe consentire di fugare ogni dubbio, rendendo gli interrogativi più sopra abbozzati privi di senso pratico: solo l’ulteriore consolidarsi della giurisprudenza, tuttavia, consentirà di affermare con certezza che la parola “fine” sulle questioni interpretative che affliggono il licenziamento per g.m.o. sia stata effettivamente pronunciata con la sentenza n. 125/2022 della Corte Costituzionale.
Per leggere il testo integrale della sentenza clicca qui:
https://www.cortecostituzionale.it/actionPronuncia.do
Con la pronuncia n. 12321/2022 la Cassazione ha colto l’occasione per ribadire alcuni importanti principi di diritto in materia di licenziamento disciplinare intimato per fatti che, al contempo, sono oggetto di accertamento da parte dell’Autorità giudiziaria penale.
E così, con riferimento al principio di consunzione del potere disciplinare, riassunto nel noto brocardo latino ne bis in idem, la Cassazione ha ribadito la regola in base alla quale il datore di lavoro non può esercitare due volte il potere disciplinare per uno medesimo fatto, anche se quel fatto, in un secondo momento, assume una configurazione giuridica – quale potrebbe essere la sopravvenuta rilevanza penale – che originariamente non possedeva.
In punto di onere della prova, è ribadito il principio per cui “il giudice civile può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale già definito”, senza che sia necessaria la preventiva acquisizione degli atti del procedimento penale, potendo anzi bastare le sole risultanze della sentenza penale. Nel caso in cui invece la sentenza penale non sia passata in giudicato, benché “non faccia stato nel giudizio civile circa il compiuto accertamento dei fatti materiali formanti oggetto del giudizio penale”, essa costituisce in ogni caso una fonte di prova dalla quale il giudice può trarre elementi di giudizio “su dati e circostanze ivi acquisiti con le garanzie di legge”.
Per quel che riguarda, inoltre, il principio di immediatezza della contestazione disciplinare, la Suprema Corte ribadisce il consolidato orientamento a mente del quale, nel caso in cui il fatto disciplinarmente rilevante presenti anche rilievo penale, non può ritenersi che il principio dell’immediatezza della contestazione sia leso dalla scelta del datore di lavoro di attendere, al fine di muovere la contestazione ex art. 7 L. n. 300/1970, l’esito degli accertamenti svolti in sede penale, ben potendo egli trarre da tale esito la ragionevole sussistenza dei fatti disciplinarmente rilevanti.
Infine, viene affermato che l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha una valenza meramente esemplificativa, così che, stante la nozione legale di giusta causa prevista dall’art. 2119 c.c., ben può il giudice di merito ritenere integrata la anzidetta causale di licenziamento nel caso di “grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile”, ipotesi, quest’ultima, che non rende nemmeno necessaria l’affissione del codice disciplinare nei locali aziendali, stante la violazione da parte del lavoratore “di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione”.