È noto che, per effetto delle modifiche apportate all’art. 18 St. Lav. dalla L. n. 92/2012, in caso di licenziamento disciplinare per cui il giudice abbia ritenuto non integrata la causale di licenziamento addotta dal datore di lavoro, la reintegrazione è disposta in due soli casi: nel caso in cui ricorra un’ipotesi di “insussistenza del fatto contestato” ovvero “perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”.
Il procedimento che, pertanto, il giudice è chiamato a svolgere è di natura bifasica. In prima battuta deve accertarsi se siano integrate – o meno – le nozioni legali di giusta causa o giustificato motivo soggettivo e, ove il licenziamento sia ritenuto illegittimo, deve verificare altresì se ricorrano i presupposti individuati dalla legge, più sopra trascritti, necessari perché possa essere disposta la reintegrazione: “nelle altre ipotesi”, cioè nei casi in cui tali presupposti non siano configurabili, allora, ai sensi dell’art. 18, comma 5, L. n. 300/1970, “dichiara risolto il rapporto di lavoro…e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto”.
Questo assetto normativo ha indotto gli interpreti a ritenere che, con riferimento alla frequenza di operatività dei due rimedi sanzionatori, il rimedio reintegratorio di cui all’art. 18, comma 4, sia ‘l’eccezione’ alla regola generale, costituita dall’indennità risarcitoria prevista dal successivo comma 5 del medesimo articolo art. 18 (Cass. n. 9560/2017).
Fatte queste rapide premesse, la sentenza della Cassazione dell’11 aprile 2022, n. 11665, affronta una delle questioni interpretative che si sono poste con riferimento all’ipotesi in cui il fatto contestato al lavoratore rientri tra le condotte che il contratto collettivo applicato al rapporto punisce con una sanzione conservativa. Tale questione verte, principalmente, sulla maggiore o minore possibilità di interpretare estensivamente, o addirittura analogicamente, le previsioni dei contratti collettivi che sanzionano una determinata condotta disciplinarmente rilevante con una sanzione conservativa, dove è evidente che la soluzione che si dia a tale questione influisce direttamente sulla maggiore o minore frequenza dei casi in cui potrà trovare applicazione la c.d. reintegrazione attenuata. Questione interpretativa che, a ben vedere, si pone in tutta la sua urgenza là dove si consideri la formulazione indeterminata e generica di molte previsioni di numerosi contratti collettivi[1]. Solo raramente, infatti, i contratti collettivi contengono un’elencazione davvero esaustiva dei molteplici illeciti disciplinari astrattamente ascrivibili ad un lavoratore; il più delle volte, invece, le elencazioni dei contratti collettivi sono solo esemplificative, rinvenendosi in ogni caso norme di chiusura, formulate in maniera elastica, che individuano gli illeciti disciplinari facendo ricorso a fattispecie astratte quali, ad esempio, la ‘negligenza lieve’, la ‘grave insubordinazione’, o la stessa formulazione delle nozioni legali di giustificato motivo soggettivo o giusta causa.
Posta questa ulteriore premessa, con la sentenza n. 11665/2022 la Suprema Corte muove innanzi tutto da un riepilogo dei propri orientamenti sul punto.
E così, alla luce della ratio della disciplina, secondo cui “nel nuovo regime la tutela reintegratoria presuppone l’abuso consapevole del potere disciplinare, che implica una sicura e chiaramente intellegibile conoscenza preventiva da parte del datore di lavoro della illegittimità del provvedimento espulsivo derivante o dalla insussistenza del fatto contestato oppure dalla chiara riconducibilità del comportamento contestato nell'ambito della previsione della norma collettiva fra le fattispecie ritenute dalle parti sociali inidonee a giustificare l'espulsione del lavoratore”, la Corte rammenta l’orientamento che si è andato consolidando secondo cui l’interpretazione estensiva delle previsioni dei contratti collettivi “è possibile solo ove risulti l’inadeguatezza per difetto dell’espressione letterale adottata dalle parti rispetto alla loro volontà, che si traduca in un contenuto carente rispetto all’intenzione”, richiamandosi tuttavia l’interprete ad una “particolare severità, dovendosi interpretare una norma che prevede una eccezione (la reintegrazione) alla regola generale (la tutela indennitaria)”; ciò in quanto “non si può ampliare il catalogo delle condotte che potrebbero essere sanzionate con misure conservative poiché in tal modo si ridurrebbe la portata della norma che costituisce la regola”(Cass. n. 9560/2017; Cass. n. 13533/2019; Cass. n. 19578/2019; Cass. n. 31839/2019).
Pertanto, richiamati i limiti di operatività dell’interpretazione estensiva che abbia ad oggetto quelle previsioni dei contratti collettivi che contengano elencazioni esemplificative di condotte punite con una sanzione conservativa, la Corte di Cassazione, con la pronuncia che qui brevemente si commenta, ha esplicitamente ritenuto “necessaria una chiarificazione dell’orientamento che si è venuto consolidando”.
Più specificatamente, la sentenza in commento si sofferma sui limiti di ammissibilità dell’interpretazione estensiva in quei casi in cui le clausole dei contratti collettivi siano formulate con norme elastiche o mediante rinvii a clausole generali. La Corte, in proposito, muove da una considerazione di tipo empirico, là dove riconosce, come più sopra accennato, che il più delle volte i contratti collettivi non contengono tipizzazioni esaustive e rigide delle condotte del lavoratore punibili con una sanzione conservativa, essendo impossibile per il datore di lavoro prevedere ex ante tutte le condotte disciplinarmente rilevanti la cui gravità non è tale da giustificare l’espulsione dal contesto produttivo, tant’ è che “il dato oggettivo e razionalizzante che emerge è quello della previsione di clausole di chiusura generali che ovviano all'impossibilità o comunque estrema difficoltà di procedere ad una catalogazione dettagliata ed esaustiva”.
In questi casi, afferma la Corte,“l’attività di sussunzione della condotta contestata al lavoratore nella previsione contrattuale espressa attraverso clausole generali o elastiche non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione aspetto al fatto contestato, ma si arresta alla interpretazione ed applicazione della norma contrattuale, rimanendo nei limiti di attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo. Non si tratta di una autonoma valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto, ma di una interpretazione del contratto collettivo e della sua applicazione alla fattispecie concreta. In definitiva, ed in via esemplificativa, ciò che si deve accertare è se una determinata condotta sia o meno riconducibile alla nozione di negligenza lieve indicata nella norma collettiva come sanzionabile con una misura conservativa e non decidere se per la condotta di negligenza lieve sia proporzionata la sanzione conservativa o quella espulsiva”.
Per altro verso, la Corte – probabilmente preoccupata che la pronuncia possa esser tacciata di “aver tradito” lo spirito della Legge Fornero, la quale, come riconosciuto dalla Corte stessa in premessa, ha chiaramente inteso relegare la reintegrazione a rimedio destinato ad operare in via residuale – ha osservato che, se ai fini dell’operatività della reintegra si pretendesse che la fattispecie concreta sia “riconducibile” in una tipizzazione tassativa prevista dal contratto collettivo, ci si porrebbe in contrasto con la volontà delle parti sociali, che, “nell’aprire o chiudere la norma collettiva con una disposizione di contenuto generale hanno comunque inteso demandare all’interprete la sussunzione della condotta accertata nella nozione generale indicata dalla disposizione collettiva”.
Né, sostiene la Corte, tale operazione ermeneutica disattenderebbe la ratio della disciplina della L. n. 92/2012, poiché non è rinvenibile nel testo di legge alcun “richiamo ad una tipizzazione specifica e rigida delle singole fattispecie sicché laddove la disposizione collettiva contenga, accanto a fattispecie tipiche, clausole generali o elastiche di apertura o di chiusura è il giudice che dovrà riempirle di contenuto”.
Ed ancora, quasi a volersi giustificare degli effetti – verosimilmente dirompenti – che deriveranno dalla pronuncia qui in commento, la Cassazione, richiama un passaggio della motivazione della pronuncia n. 59/2021 della Corte Costituzionale, statuendo che il condizionare l’operatività del rimedio reintegratorio alla sussistenza di una specifica tipizzazione dell’illecito da parte del contratto collettivo, e quindi, per converso, escluderla nell’ipotesi di clausole formulate in maniera elastica o mediante in rinvio a clausole generali, determinerebbe un assetto protettivo del lavoratore del tutto irragionevole; e ciò nella misura in cui l’alternativa tra una più incisiva tutela reintegratoria e una meramente indennitaria dipenderebbe da “fattori contingenti impropri o privi di attinenza con il disvalore del licenziamento”, quali “eventuali approssimazioni e lacune della disciplina contrattuale collettiva” che “ricadrebbero, irragionevolmente, esclusivamente sui lavoratori”.
Pertanto, conclude la Corte, è consentita al giudice l’attività di sussunzione del fatto contestato al lavoratore nella previsione del contratto collettivo che punisce l’illecito con una sanzione conservativa attraverso una formulazione per clausole generali o elastiche; “tale operazione di interpretazione e sussunzione non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato restando nei limiti dell'attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo”.
Alcune brevi considerazioni
Con la sentenza qui in commento la Suprema Corte sembrerebbe aver voluto rivendicare gli spazi, la dignità, l’importanza e l’insopprimibilità dell’attività interpretativa che è chiamato a svolgere il giudice nell’esercizio della sua funzione istituzionale. Attività interpretativa che la riforma Fornero, nel prevedere che la reintegrazione potesse essere disposta solo ove il fatto contestato potesse essere ricondotto ad una previsione del contratto collettivo punibile esclusivamente con una sanzione conservativa, sembrava aver soppresso o, comunque, fortemente inciso, affidando alle parti sociali il fondamentale compito di stabilire ex ante le ipotesi in cui la tutela del lavoratore ingiustificatamente licenziato dovesse essere per il medesimo più o meno protettiva. Invero, afferma la Cassazione a fondamento della propria statuizione, l’attività di sussunzione della fattispecie concreta in una fattispecie astratta – formulata in maniera elastica, e dunque, in quanto tale, suscettibile di esser riempita di contenuto dall’interprete – è l’attività ermeneutica che caratterizza ontologicamente il ruolo del giudice, ruolo che, già nel 2013, un Autore aveva individuato in termini di “estremo terminale della giustizia (del singolo caso) ed insostituibile mediatore sociale e culturale”[2].
[1] L’indeterminatezza delle formulazioni dei contratti collettivi e financo l’ambiguità di alcune clausole degli stessi è stata più volte messa in luce dalla dottrina; essa ha peraltro evidenziato come tale peculiare formulazione sia spesso adottata consapevolmente dalle parti collettive in tutti quei casi in cui non si riesca a raggiungere un compromesso soddisfacente sulla regolamentazione di determinate materie, con il proposito di rinviare alla sede giudiziaria il compito di risolvere tematiche delicate che, in quanto tali, potrebbero produrre una notevole perdita di consenso. Si veda, fra gli altri, Vidiri, L’interpretazione del contratto collettivo nel settore privato e nel pubblico, RIDL, 2003, I, pag. 88 ss.
[2] Mazzotta, Il giudice del lavoro, la Costituzione e il sistema giuridico: fra metodo e merito, RIDL, 2013, pag. 235 ss., il quale, in particolare, a pag. 239, ha affermato che “il lavoro umile, quotidiano ed oscuro, del giurista-interprete, parte proprio da qui: deve contribuire al processo di integrazione della norma fondamentale nel sistema giuridico. Le conseguenze per l’interprete possono consistere in una presa d’atto che il legislatore ha inteso procedere in modo inequivocabile ad un certo bilanciamento dei contrapposti valori scritti nella norma fondamentale (ad es. spostando in avanti – a favore dell’impresa – la frontiera mobile fra capitale e lavoro) ovvero – ove tale conseguenza non sia enucleabile con chiarezza dal diritto positivo – nella necessità di porre un argine ad una legislazione che cerchi di scardinare il sistema in modo incongruo. Ed è inutile sottolineare che, in quest’opera di ricucitura, il ruolo del giudice del lavoro è essenziale come estremo terminale della giustizia (del caso singolo) ed insostituibile mediatore sociale e culturale”.
Con la pronuncia n. 2414/2022 la Suprema Corte di Cassazione ha ribadito la distinzione tra licenziamento intimato per motivo illecito determinante e licenziamento discriminatorio. Entrambi i licenziamenti sono nulli, pertanto le conseguenze sanzionatorie di tale nullità sono le medesime; tuttavia, ribadisce la Cassazione, ognuna delle due fattispecie presenta delle peculiarità che implicano alcuni riflessi sugli oneri probatori delle parti in causa.
Non è questa la sede che consente di delineare compiutamente la diversità tra le due fattispecie di licenziamento, venutesi a determinare per effetto di un’evoluzione dottrinaria, giurisprudenziale e normativa lunga diversi decenni. Ciò premesso, il licenziamento discriminatorio è quell’atto di recesso datoriale che è motivato, sia pure non esplicitamente, da una delle ragioni indicate dall’art. 15 L. n. 300/1970, dall’art. 2 D. Lgs. n. 215/2003 e dall’art. 2 D. Lgs. 216/2003; conseguentemente è discriminatorio il licenziamento intimato in ragione dell’appartenenza sindacale del singolo, della sua partecipazione ad uno sciopero o ad altra attività sindacale, per ragioni di razza o origine etnica, per ragioni inerenti la religione, il sesso, le convinzioni personali, gli handicap, l’età o l’orientamento sessuale. Un atto di recesso datoriale che sia fondato (lo si ribadisce, sia pure non esplicitamente) su una di queste ragioni “tipizzate” è nullo; e ciò anche nell’ipotesi in cui tale ragione discriminatoria concorra con una diversa ed effettiva causale di licenziamento, cioè anche nel caso in cui il recesso discriminatorio sia contemporaneamente fondato su di un motivo che è perfettamente riconducibile ad una delle due nozioni legali idonee a fondare il recesso datoriale, quali sono, come noto, la giusta causa e il giustificato motivo (nella sua duplice declinazione oggettiva e soggettiva).
Differisce dal licenziamento discriminatorio il licenziamento per motivo illecito determinante, che è una fattispecie di recesso la cui nullità deriva dal combinato disposto degli artt. 1345 e 1324 del Codice Civile. E’ questa una nullità di diritto comune che colpisce tutti quei tipi di recesso che sono fondati su di un motivo illecito non tipizzato dall’ordinamento. Tipico esempio di licenziamento intimato per motivo illecito determinante è il licenziamento ritorsivo, cioè il recesso che costituisce una reazione, o meglio, una ritorsione, all’esercizio di una legittima prerogativa del lavoratore. Anche in questo caso non è necessario che il motivo illecito sia stato posto esplicitamente a fondamento del recesso: la natura illecita del motivo può essere provata con il ricorso alla prova presuntiva. E’ necessario però – ha ribadito la Cassazione con la pronuncia che qui brevemente si annota – che, a differenza dell’ipotesi del licenziamento discriminatorio, il motivo illecito sia “determinante ed esclusivo”, vale a dire, rispettivamente, tale da “costituire l’unica effettiva ragione di recesso”, e che nel riscontro giudiziale “il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente”.
Pertanto, concludendo, l’errore di diritto in cui è incorsa la sentenza della Corte territoriale cassata dalla pronuncia n. 2414/2022 della Corte di Cassazione consiste nel non aver distinto l’ipotesi “in cui venga in rilievo un motivo ritorsivo e quella in cui si denunzi il carattere discriminatorio del licenziamento, in relazione al quale la esistenza di un motivo legittimo alla base del recesso datoriale non esclude la nullità del provvedimento ove venga accertata la finalità discriminatoria dello stesso”.
Il caso
Una dipendente pubblica viene rinviata a giudizio per truffa ai danni dello Stato in relazione ad alcune sue assenze ingiustificate dal posto di lavoro, occultate attraverso la falsa attestazione della presenza in servizio. L’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari dell’ Amministrazione datrice di lavoro, ricevuta la relativa notizia, contesta alla dipendente il fatto e, contemporaneamente, ritenendo di non disporre di elementi sufficienti per irrogare una sanzione disciplinare, sospende il procedimento disciplinare, avvalendosi della facoltà riconosciuta dall’art. 55 ter, comma 1, del D. Lgs. n. 165/2011[1].
Successivamente alla condanna in primo grado ad un anno e sei mesi di reclusione riportata dalla dipendente, l’UPD riattiva il procedimento disciplinare in precedenza sospeso e le intima il licenziamento per giusta causa.
La lavoratrice ricorre dunque in Cassazione per ottenere la riforma della sentenza con cui la Corte di Appello aveva riconosciuto la legittimità del licenziamento irrogato.
La pronuncia della Suprema Corte n. 41892/2021
La sentenza che qui brevemente si annota è l’occasione per la Cassazione per ribadire alcuni consolidati principi di diritto in materia di procedimento disciplinare che “abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l’autorità giudiziaria”.
E così, in primo luogo, sul piano dell’efficacia temporale delle norme, la Suprema Corte ribadisce che la disciplina del procedimento disciplinare del pubblico dipendente – così come prevista dal c.d. T.U. sul Pubblico Impiego modificato dal D. Lgs. n. 150/2009 (c.d. “decreto Brunetta”) – si applica a tutti quei fatti disciplinarmente rilevanti di cui la singola P.A. acquisisce notizia successivamente all’entrata in vigore del D. Lgs. n. 150/2009, e dunque successivamente al 16 novembre 2009.
Viene poi affermato nuovamente il principio in base al quale la P.A., una volta esercitata la facoltà di sospendere il procedimento disciplinare in ragione della particolare complessità dell’accertamento del fatto ed in ragione della insussistenza di elementi sufficienti a fondare l’irrogazione di una sanzione disciplinare, può successivamente riattivare il procedimento disciplinare senza dover attendere il passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio penale. Del resto, quanto sopra si spiega, da un lato, in considerazione della pacifica autonomia del procedimento disciplinare dal procedimento penale, dall’altro, in ragione del fatto che la norma in questione, a seguito della aggiunta ad essa apportata dal D. Lgs. n. 75/2017, inequivocabilmente prevede che “il procedimento disciplinare sospeso può essere riattivato qualora l'amministrazione giunga in possesso di elementi nuovi, sufficienti per concludere il procedimento, ivi incluso un provvedimento giurisdizionale non definitivo”. Il giudicato penale, afferma la Suprema Corte, è il termine massimo finale della sospensione, che dunque non può protrarsi oltre di esso, ma non vincola la P.A., che appunto non è tenuta ad attendere che l’accertamento della responsabilità penale del dipendente sia definitivo ed immutabile per esercitare legittimamente il potere disciplinare.
Ad ulteriore conferma dell’autonomia tra procedimento disciplinare e procedimento penale e della conseguente facoltà della P.A. di riattivare e concludere il procedimento disciplinare sospeso anche in assenza di un accertamento definitivo della responsabilità penale del dipendente pubblico, la Cassazione rammenta che l’art. 27, comma 2, Cost. “concerne le garanzie relative all’attuazione della pretesa punitiva dello Stato, e non può essere applicato, in via analogica o estensiva, all’esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore suscettibile di integrare gli estremi del reato, se i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di improseguibilità, anche provvisoria, del rapporto”.
E’ altresì ribadito il riconoscimento della natura imperativa della disciplina di cui all’art. 55 ter D. Lgs. n. 165/2001, con il corollario che la facoltà di sospensione del procedimento disciplinare non può ritenersi derogabile dalla contrattazione collettiva di settore.
Nel caso in cui la P.A., afferma ancora la Corte, riattivi il procedimento disciplinare (rinnovando quindi la contestazione disciplinare) senza attendere la sentenza che definisca anche solo il primo grado del giudizio penale, è previsto che il procedimento disciplinare “riattivato” si svolga “secondo quanto previsto nell’articolo 55-bis con integrale nuova decorrenza dei termini ivi previsti per la conclusione dello stesso”, con il corollario che non si dovrà tenere conto dell’arco temporale già decorso dalla data dell’originaria contestazione a quella della sospensione del procedimento disciplinare.
Ed ancora, è ribadita la regola per cui il datore di lavoro, ai fini dell’esercizio del potere disciplinare, oltre che delle prove dibattimentali, può desumere la rilevanza disciplinare della condotta del dipendente anche dagli atti acquisiti nel corso delle indagini preliminari.
Altro orientamento consolidato da cui la Suprema Corte non ritiene di doversi discostare, che del resto è valido anche per il rapporto di lavoro privato, è quello secondo il quale, nell’ipotesi in cui la condotta disciplinarmente rilevante consista nell’assenza ingiustificata del lavoratore, il datore di lavoro può limitarsi a provare l’assenza nella sua oggettività, essendo onere del lavoratore che voglia contrastare la pretesa datoriale provare “gli elementi che possano giustificarla”.
Con tale pronuncia, pertanto, la Suprema Corte ha colto l’occasione per affermare nuovamente alcuni significativi principi di diritto in materia di procedimento disciplinare del pubblico dipendente, un aspetto del rapporto di pubblico impiego che presenta dei tratti di peculiarità rispetto alla disciplina legale del potere disciplinare del datore di lavoro privato.
[1] L’art. 55 ter del D. Lgs. 165/2001, così come modificato dal D. Lgs. n. 150/2009, al primo comma così dispone: “Il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l'autorità giudiziaria, è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale. Per le infrazioni per le quali è applicabile una sanzione superiore alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a dieci giorni, l'ufficio competente per i procedimenti disciplinari, nei casi di particolare complessità dell'accertamento del fatto addebitato al dipendente e quando all'esito dell'istruttoria non dispone di elementi sufficienti a motivare l'irrogazione della sanzione, può sospendere il procedimento disciplinare fino al termine di quello penale. Fatto salvo quanto previsto al comma 3, il procedimento disciplinare sospeso può essere riattivato qualora l'amministrazione giunga in possesso di elementi nuovi, sufficienti per concludere il procedimento, ivi incluso un provvedimento giurisdizionale non definitivo. Resta in ogni caso salva la possibilità di adottare la sospensione o altri provvedimenti cautelari nei confronti del dipendente”.