L’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, nella sua attuale formulazione[1], prevede che gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti tecnologici che rendono materialmente possibile il controllo ‘a distanza’ dell’attività dei lavoratori possano essere installati dal datore di lavoro solo in presenza di ragioni organizzative e produttive, di ragioni inerenti alla sicurezza del lavoro o per la tutela del patrimonio aziendale. In ogni caso, l’installazione di tali strumenti deve essere preceduta da un accordo collettivo stipulato dalla R.S.U. o dalle diverse R.S.A. presenti in azienda. In mancanza di tali soggetti sindacali, l’installazione è possibile previo accordo con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative al livello nazionale. Nell’ipotesi in cui l’accordo con il sindacato non sia stato raggiunto, l’installazione deve comunque essere preceduta da un’autorizzazione dell’Ispettorato Nazionale del lavoro.

Tali disposizioni non si applicano, tuttavia, agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e quelli che consentono la rilevazione degli accessi e delle presenze.

Il terzo comma dell’art. 4 St. Lav. prevede poi che le informazioni raccolte dal datore di lavoro per il tramite degli impianti audiovisivi o degli altri strumenti tecnologici, installati per il perseguimento delle finalità tipiche e previo accordo sindacale o autorizzazione amministrativa, possano essere utilizzati “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro” (e quindi anche per fini disciplinari), a condizione che ai lavoratori sia stata data adeguata informazione sulle modalità di uso di tali strumenti e sull’effettuazione dei controlli da parte del datore di lavoro. In ogni caso tali controlli devono essere rispettosi della normativa sulla privacy.

Al di fuori di questi limiti e condizioni (finalità tipiche perseguite, installazione preceduta da accordo sindacale o autorizzazione amministrativa, adeguata informazione sulle modalità d’uso di tali strumenti da parte del lavoratore e sulle modalità con cui il datore può effettuare i controlli, rispetto della normativa sulla privacy) il controllo ‘a distanza’ dell’attività dei lavoratori è illegittimo, con il corollario dell’inutilizzabilità delle informazioni acquisite per effetto di tale illegittimità. In altri termini, il controllo ‘a distanza’ puro e semplice, vale a dire finalizzato a verificare l’esatto adempimento dell’obbligazione lavorativa da parte del lavoratore, era e resta vietato. Tuttavia, come accennato, ove l’attività di controllo sia rispettosa delle prescrizioni normative più sopra elencate, le informazioni acquisite potranno essere utilizzate anche a fini disciplinari: ove pertanto l’attività di controllo della prestazione lavorativa sia indiretta, ovvero attuata incidentalmente, vale a dire nel perseguimento delle finalità tipiche individuate dal legislatore e con modalità note al lavoratore, essa è perfettamente lecita, così come è lecito l’utilizzo a fini disciplinari delle informazioni che tale attività di controllo consente di raccogliere al datore di lavoro.

Poiché tuttavia, per effetto delle modifiche apportate dal D. Lgs. n. 151/2015, l’art. 4 St. Lav. attualmente prevede che tra le finalità potenzialmente perseguibili con l’installazione degli strumenti tecnologici vi sia la tutela del patrimonio aziendale, ci si è chiesti quale sia, attualmente, l’esatta collocazione normativa dei c.d. controlli difensivi[2].

Qui sia sufficiente rilevare che, per rispondere all’interrogativo di cui sopra, con la pronuncia n. 34092/2021 la Cassazione ha posto la necessità di distinguere tra controlli difensivi in senso lato e controlli difensivi in senso stretto.

I primi sono quelli posti a tutela del patrimonio aziendale, che riguardano tutti i dipendenti (o gruppi di dipendenti) che nello svolgimento della loro ordinaria prestazione di lavoro vengono fisiologicamente a contatto con tale patrimonio: questi controlli, afferma la Suprema Corte, “dovranno necessariamente essere realizzati nel rispetto delle previsioni dell’art. 4 novellato in tutti i suoi aspetti”.

I controlli difensivi in senso stretto, invece, anche se attuati per il tramite di strumenti tecnologici, non hanno ad oggetto la “normale” attività lavorativa del prestatore, presentando tali caratteristiche essenziali:

  • perseguono la finalità specifica di accertare, in presenza di concreti indizi, l’effettiva verificazione di illeciti ascrivibili ad uno o più lavoratori;
  • sono diretti ad accertare illeciti che ledono il patrimonio aziendale o l’immagine aziendale;
  • vengono attuati ex post, vale a dire successivamente alla commissione dell’illecito e dunque in presenza di indizi che ne facciano ragionevolmente presumere l’esistenza.

I c.d. controlli difensivi in senso stretto, afferma la Corte di cassazione, si situano “anche oggi, all’esterno del perimetro applicativo dell’art. 4”, con il corollario che, per la legittimità dei medesimi e delle sanzioni disciplinari che eventualmente ne scaturiscono, non sarà necessario il rispetto delle prescrizioni di tale articolo di legge. Ciò non vuol dire, tuttavia, che essi possano essere attuati arbitrariamente, precisando la Corte che “in nessun caso può essere giustificato un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia e riservatezza del lavoratore” e che, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 8 della Convenzione Europea dei diritto dell’uomo, occorrerà comunque “assicurare un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, con un contemperamento che non può prescindere dalle circostanze del caso concreto”.

Poiché però il confine tra controllo difensivo lecito e quello illecito è labile, e poiché il c.d. controllo difensivo si colloca al di fuori delle prescrizioni e dei limiti sanciti dall’art. 4 Stat. Lav., la Corte si preoccupa di operare alcune importanti puntualizzazioni.

Il controllo difensivo non sarà lecito ove si sostanzi in una selezione successiva di dati o informazioni precedentemente acquisiti in violazione dell’art. 4 dello St. Lav.: “il datore di lavoro, infatti, potrebbe, in difetto di autorizzazione e/o di adeguata informazione delle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, nonché senza il rispetto della normativa sulla privacy, acquisire per lungo tempo ed ininterrottamente ogni tipologia di dato, provvedendo alla relativa conservazione, e, poi, invocare la natura mirata (ex post) del controllo incentrato sull'esame ed analisi di quei dati”.

Invece, affinché il controllo difensivo sia legittimo, è necessario che esso sia genuinamente ex post, cioè incominci ad essere attuato solo a partire dal momento in cui si registrano concreti indizi che lascino ragionevolmente presumere la commissione da parte del lavoratore di un illecito che leda il patrimonio o l’immagine aziendale: è il momento a partire dal quale l’attività di controllo viene posta in essere, pertanto, il discrimine che rende legittimo il c.d. controllo difensivo.


[1] Che è tale per effetto delle modifiche ad esso apportate dal D. Lgs. n. 151/2015 e dal D. Lgs. n. 185/2016.

[2] Per un rapido ma esaustivo approfondimento che chiarisca l’esatta natura dei c.d. controlli difensivi, si rimanda al contributo dell’avv. Panarella: https://www.studioclaudioscognamiglio.it/controllo-del-lavoratore-a-distanza-quando-sono-legittimi-i-c-d-controlli-difensivi/

Il caso da cui origina la pronuncia

Una lavoratrice, che da meno di un anno è diventata madre, si assenta ingiustificatamente dal lavoro per un periodo superiore ai cinque giorni. Il contratto collettivo che si applica al rapporto di lavoro prevede che l’assenza ingiustificata del dipendente per un periodo superiore ai cinque giorni integri un’ipotesi di giusta causa di licenziamento, motivo per il quale il datore di lavoro intima il licenziamento della lavoratrice ai sensi dell’art. 2119 c.c.

La soluzione del Tribunale di Brescia.

Il Giudice di merito, innanzi tutto, muove dalla ricognizione della disciplina legale che regolamenta la fattispecie del licenziamento della lavoratrice madre, rilevando che l’art. 54 del D. Lgs n. 151/2001 sancisce un vero e proprio divieto di licenziamento della lavoratrice-madre, dal periodo di inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di vita del bambino. Tale divieto, tuttavia, non è assoluto, ma appunto ammette delle eccezioni tipizzate dal legislatore: tra queste, per quel che qui rileva, il caso della “colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro”.

Ciò chiarito, il Tribunale di Brescia ha affermato che, in presenza di tale esplicito divieto di licenziamento – sancito dalla legge in considerazione della peculiare condizione, e funzione sociale, della donna-lavoratrice che ha partorito da meno di un anno – l’ipotesi derogatoria della colpa grave che integra una giusta causa di licenziamento costituisce una “fattispecie autonoma”, distinta dalle “ordinarie” causali di licenziamento disciplinare, quali la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo. Richiamando a sostegno della propria decisione alcune sentenze della Suprema Corte nell’ambito delle quali si è chiarito che la “colpa grave” che giustifica il licenziamento della lavoratrice-madre costituisce una fattispecie di giusta causa connotata da maggior disvalore e gravità (ed in particolare: Cass. civ. Sez. lav. n. 19912/2011; Cass. civ. Sez. lav. n. 2004/2017), il Tribunale giunge alla conclusione che il datore di lavoro si è limitato a richiamare la previsione del contratto collettivo che qualifica in termini di giusta causa una data condotta del lavoratore, senza appunto dimostrare che “la condotta della prestatrice possa aver integrato gli estremi di una colpa grave, né tanto meno” illustrare “le ragioni secondo cui sarebbe stato inoperante il divieto legale di licenziamento”. Il licenziamento è conseguentemente nullo ai sensi dell’art. 18, co. 1, L. n. 300/1970, appunto perché il datore di lavoro, sul quale grava il relativo onere probatorio, non ha dimostrato la ricorrenza dei presupposti causali, quali appunto la colpa grave “costituente gusta causa per la risoluzione del rapporto”, la cui sussistenza è invece necessaria affinché sia inoperante l’esplicito divieto di licenziamento della lavoratrice madre sancito dall’art. 54 D.Lgs. 151/2001.

Il caso concreto

Un inquilino di uno stabile residenziale realizza un secondo bagno nella stanza adiacente la camera da letto dell’immobile del dirimpettaio, collocando la cassetta di incasso del wc nel sottile muro divisorio dei due appartamenti.

Viene quindi instaurato un giudizio nel quale si chiede al giudice di accertare l’intollerabilità delle immissioni sonore provocate dagli scarichi del bagno realizzato ex novo. Ammessa la C.T.U., il consulente tecnico riscontra il superamento della normale tollerabilità delle immissioni sonore e l’impossibilità per l’attore di organizzare diversamente gli spazi all’interno dell’immobile, eventualmente spostando la camera da letto, date le modestissime dimensioni dell’immobile in questione. Inoltre, alla luce dell’accertato utilizzo frequente del bagno da parte del convenuto nelle ore notturne, viene rilevata dalla Corte territoriale la sussistenza di un danno “alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita, diritti costituzionalmente garantiti e tutelati dall’art. 8 CEDU”.

La soluzione della Cassazione.

La Suprema Corte muove innanzi tutto dal rilievo per cui l’art. 844 c.c. - che come noto detta la disciplina delle immissioni tra fondi confinanti o comunque vicini - reca una locuzione ampia e generica di immissione intollerabile, con il corollario che spetta al giudice del merito accertare in concreto se l’immissione effettivamente superi, o meno, la normale tollerabilità. Nel compiere tale valutazione, il giudice sarà tenuto a prendere in considerazione elementi quali ‘la situazione ambientale’, le ‘caratteristiche della zona’ e ‘le abitudini di vita degli abitanti’, il tutto nell’ottica di tutelare “il diritto al riposo, alla serenità e all’equilibrio della mente, nonché alla vivibilità dell’abitazione che il rumore e il frastuono mette a repentaglio”. Rileva la Corte che il diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, così come sancito dall’art. 8 CEDU, è stato tradotto e può tradursi nel diritto alla tutela della vivibilità dell’abitazione e alla qualità della vita all’interno di essa, la cui lesione ad opera dell’autore delle immissioni intollerabili è in grado di determinare un danno non patrimoniale in colui che tali immissioni subisce.

Nel caso di specie, afferma la Cassazione, è stata concretamente accertata “la sussistenza di un danno risarcibile correlato al pregiudizio del diritto al riposo, che ridonda sulla qualità della vita di un individuo e conseguentemente sul diritto alla salute costituzionalmente garantito”, con l’importante precisazione che “non si tratta di un danno in re ipsa ma di danno conseguenza…provato in termini di disagi sofferti in dipendenza della difficile vivibilità della casa”.

La vicenda è di sicuro interesse in quanto riguarda il diritto di proprietà e le limitazioni al godimento del bene che forma oggetto di tale diritto. Esso, come noto, è definito dall’art. 832 c.c. come il diritto di godere della cosa “in modo pieno ed esclusivo”, dove la pienezza deve essere intesa come “potenzialità del diritto dominicale a comprendere la generalità astratta delle forme di godimento e di disposizione relative al bene” (Bianca, La proprietà, Giuffré editore, 2017, Milano, 153) e l’esclusività è riferita al potere del titolare del diritto di escludere ogni ingerenza da parte di terzi dal godimento di quel medesimo bene. Tuttavia è noto che lo stesso art. 832 c.c. prevede che il diritto di godimento riconosciuto al proprietario non sia assoluto (come invece era previsto dal codice del 1865) ma che esso possa essere esercitato “entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”. E’ questa una delimitazione positiva del contenuto del diritto che trova poi maggiore specificazione nella già menzionata disciplina delle immissioni di cui all’art. 844 c.c. ed in altre, numerose disposizioni dell’ordinamento che, per la brevità che caratterizza il presente contributo, non possono nemmeno essere accennate in questa sede.

Ed ecco allora che, per tornare a ‘volo d’uccello’ alla fattispecie concreta, il diritto del proprietario di godere della cosa in modo pieno ed esclusivo decidendo di realizzare un bagno in una stanza del proprio immobile, incontra un preciso limite, ed è destinato a soccombere (si legge nella sentenza che il CTU ha individuato una serie di opere idonee a ridurre le immissioni), di fronte alla prevalente e primaria esigenza di tutelare il diritto al riposo notturno, e quindi alla salute, del dirimpettaio che dall’utilizzo di tale bagno riceve una lesione “alla vivibilità dell’abitazione e alla qualità della vita all’interno di essa”.

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