La fattispecie che ha originato la pronuncia della Corte di Giustizia

Con la pronuncia del 15 luglio 2021 la Corte di Giustizia ha deciso le cause riunite C-152/20 e C-218/20. Le fattispecie da cui è scaturita la pronuncia, che qui si annota brevemente, ineriscono le vicende lavorative di due autotrasportatori, dipendenti di due distinte società rumene ed assunti con contratti di lavoro che prevedevano l’applicazione al singolo rapporto di lavoro della legge nazionale rumena, i quali prestatori eseguivano abitualmente la loro prestazione lavorativa al di fuori del confine nazionale, vale a dire, nello specifico, uno in Germania e l’altro in Italia.

Invocando l’art. 8 del Regolamento (CE) n. 593/2008, c.d. Roma I –  come noto il Regolamento dell’Unione Europea che disciplina la legge applicabile alle obbligazioni contrattuali che presentino caratteristiche di internazionalità – ciascun lavoratore ha chiesto l’applicazione delle leggi in materia di salario minimo del rispettivo Paese dove ha abitualmente eseguito la prestazione lavorativa; ciò in quanto più favorevoli rispetto a quella rumena, quest’ultima, come detto, scelta convenzionalmente dalle parti come legge applicabile al rapporto lavorativo.

La disciplina normativa che viene in rilievo

La questione di diritto che la Corte di Giustizia è stata chiamata a risolvere, pertanto, afferisce all’individuazione della legge applicabile ad un rapporto lavorativo che presenti caratteristiche di internazionalità, interessando l’interpretazione e la portata dell’art. 8 del Regolamento (CE) n. 593/2008, c.d. Roma I, il quale articolo “stabilisce norme speciali di conflitto di leggi relative al contratto di individuale di lavoro che si applicano quando, in esecuzione di un contratto di questo tipo, il lavoro è svolto in almeno uno Stato diverso da quello della legge scelta”.

Per meglio comprendere la decisione, è bene soffermarsi brevemente sul contenuto dell’art. 8.

Al primo comma esso prevede che, conformemente al dettato dell’art. 3, le parti di un rapporto di lavoro siano libere di scegliere la legge applicabile al suddetto rapporto. Tuttavia, è altresì sancito l’importante principio per cui tale scelta non può privare il lavoratore della protezione che gli è assicurata da quelle disposizioni di legge inderogabili che troverebbero applicazione ove tale scelta non fosse stata fatta dalle parti ed è proprio in base a tale ultimo principio che vengono decise le fattispecie concrete.

Il secondo, il terzo e il quarto comma dell’art. 8 disciplinano appunto i casi in cui le parti non abbiano individuato convenzionalmente la legge applicabile al rapporto di lavoro. In questi casi, quale criterio primario di individuazione della legge applicabile al rapporto, è stabilito che trovi applicazione la “legge del paese nel quale, o in mancanza, a partire dal quale il lavoratore, in esecuzione del contratto, svolge abitualmente il suo lavoro”. Ove in base a tale criterio non si riesca a determinare la legge applicabile al rapporto, quale criterio sussidiario, al terzo comma è previsto che il contratto sia disciplinato “dalla legge del paese nel quale si trova la sede” del datore di lavoro “che ha proceduto ad assumere il lavoratore”. Infine, quale criterio residuale, è previsto al quarto comma dell’art. 8 che se le circostanze di fatto del caso concreto non consentano di individuare la legge applicabile al rapporto, né valorizzando il criterio primario del Paese nel quale il rapporto è eseguito abitualmente, né quello sussidiario del Paese nel quale si trova la sede del datore di lavoro, trovi applicazione la legge del Paese con cui “il contratto di lavoro presenta un collegamento più stretto”.

La soluzione del caso concreto

Poste queste premesse, con la decisione che qui brevemente si annota la Corte di Giustizia ha descritto le tappe del processo logico-giuridico che il Giudice nazionale è chiamato a svolgere per individuare la legge applicabile al rapporto di lavoro che presenti elementi di transnazionalità, nel caso in cui una delle parti di esso invochi l’applicazione di una legge nazionale diversa da quella scelta convenzionalmente.

In relazione al concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro ed in base ai criteri elencati dai commi 2, 3 e 4 dell’art. 8 del Regolamento n. 593/2008, il Giudice nazionale deve innanzi tutto individuare la legge nazionale ad esso applicabile nel caso in cui le parti, in sede di stipula del contratto, non avessero compiuto ex ante alcuna scelta in punto di disciplina applicabile al rapporto. Così individuata la legge nazionale astrattamente applicabile al rapporto lavorativo, l’Organo giurisdizionale deve altresì stabilire se tale disciplina è in grado di assicurare una protezione degli interessi del lavoratore più efficace rispetto alle disposizioni di legge la cui applicabilità è stata scelta convenzionalmente dalle parti. Ove la disciplina astrattamente applicabile sia maggiormente protettiva e nel caso in cui essa, in base all’ordinamento di quel Paese dell’Unione, non possa essere derogata convenzionalmente dalle parti, allora si dovrà necessariamente prescindere dalla scelta compiuta dalle parti e dare ad essa esclusiva applicazione.

Detto altrimenti, ai sensi dell’art. 3 del Regolamento 593/2008, le parti di un contratto di lavoro che presenta elementi di transnazionalità sono libere di scegliere quale legge applicare al rapporto sottostante. Tuttavia tale scelta convenzionale potrà incidere effettivamente sulla legge applicabile al rapporto solo se, e nella misura in cui, le disposizioni di cui le parti auspicano l’applicazione assicurano una protezione del lavoratore almeno uguale a quella che gli sarebbe assicurata dalle disposizioni di legge inderogabili del Paese dove il rapporto di lavoro è eseguito abitualmente, oppure, nel caso in cui non si possa stabilire il luogo di esecuzione abituale della prestazione, da quelle del Paese dove ha sede il datore di lavoro, oppure ancora delle disposizioni inderogabili del Paese con cui “il contratto di lavoro presenta un collegamento più stretto”.

Detto ancora diversamente, sono i criteri stabiliti dai commi 2, 3 e 4 del Regolamento n. 593/2008 a determinare la legge applicabile al rapporto di lavoro che presenti elementi di transnazionalità. La scelta delle parti (che ricada su un’altra e diversa legislazione nazionale) può prevalere solo nel caso di cui le disposizioni di legge la cui applicazione è auspicata dalle parti non prevedano una regolamentazione per gli interessi del lavoratore che sia deteriore rispetto alle disposizioni di legge inderogabili destinate a trovare applicazione al rapporto in base ai criteri di cui all’art. 8 del Regolamento n. 593/2008: questi ultimi, come detto, sono destinati a trovare applicazione in ogni caso di mancata scelta convenzionale.

Posti questi principi, tornando alla soluzione del caso concreto, la Corte di Giustizia qualifica le disposizioni in materia di salario minimo italiane e tedesche come disposizioni di legge che, ai sensi di quanto previsto rispettivamente dai singoli, rispettivi ordinamenti, sono inderogabili convenzionalmente dalle parti: rilevato altresì che esse prevedono condizioni migliori rispetto alle corrispondenti norme di diritto rumeno e sulla premessa dell’accertamento che ai singoli rapporti lavorativi è stata data esecuzione abituale, rispettivamente, in Italia e in Germania, sono le norme di questi ultimi due Paesi che dovranno essere applicate ai rapporti di lavoro dedotti in lite. In tal modo, la natura inderogabile delle disposizioni di legge italiane e tedesche sul salario minimo, unita alla loro capacità di assicurare una maggiore protezione degli interessi del lavoratore rispetto alle corrispondenti norme di diritto rumeno, fa sì che esse prevalgano, trovando applicazione concreta ai rapporti lavorativi, sulla normativa scelta convenzionalmente dalle parti ed avente appunto ad oggetto l’applicazione del diritto rumeno.

Inoltre, per quel che riguarda l’esatta portata e l’individuazione dei confini della scelta della legge applicabile che, ai sensi dell’art. 3 del Regolamento n. 593/2008, può essere compiuta dalle parti di un contratto di lavoro, la Corte di Giustizia afferma due importanti principi.

Da un lato, è riconosciuto che il diritto delle parti di scegliere la legge applicabile al rapporto di lavoro può ritenersi rispettato nel caso in cui una disposizione di legge di un dato ordinamento nazionale si limiti a prevedere che le clausole di un dato contratto di lavoro siano integrate dal complesso di disposizioni integranti il “diritto del lavoro” nazionale, la cui applicazione è stata appunto auspicata in prima battuta dalle stesse parti del rapporto. Viceversa, tale diritto di scelta delle parti sarebbe inevitabilmente leso se una disposizione di un ordinamento nazionale imponesse alle parti di un dato contratto di lavoro l’applicazione esclusiva del complesso di disposizioni integranti “il diritto del lavoro” di quel determinato Paese dell’Unione.

Dall’altro lato, il diritto delle parti di scegliere la legge applicabile al rapporto di lavoro deve ritenersi rispettato anche nel caso in cui la clausola contrattuale relativa alla scelta della legge applicabile sia stata predisposta unilateralmente dal datore di lavoro e il lavoratore, nel sottoscrivere il contratto, si sia limitato ad accettarla.

Per leggere il testo integrale della pronuncia della Corte di Giustizia clicca qui: https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=244192&pageIndex=0&doclang=it&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=808450

La disciplina normativa

E’ noto che la L. n. 92/2012 ha modificato l’art. 18 della L. n. 300/1970 introducendo quattro distinti regimi di tutela, ciascuno destinato a trovare applicazione in diverse ipotesi di illegittimità dell’atto di recesso datoriale. Più in particolare, e soffermandosi su quelli che maggiormente rilevano ai fini della riflessione sull’ordinanza qui commentata, nel caso di un licenziamento disciplinare per cui sia stata accertata la non ricorrenza della causale di licenziamento addotta dal datore di lavoro a fondamento del medesimo, è previsto che il giudice dichiari risolto il rapporto di lavoro e condanni il datore di lavoro a corrispondere al lavoratore un’indennità risarcitoria ricompresa tra le 12 e le 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Ove tuttavia, oltre alla non ricorrenza della causale di recesso perché la gravità dell’addebito non è tale da integrare la nozione legale di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, il giudice accerti l’insussistenza del fatto contestato o la riconducibilità di esso alle “condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”, allora dovrà essere disposta la reintegrazione nel posto di lavoro con un risarcimento del danno che, nell’ammontare massimo, non potrà essere superiore a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Le soluzioni offerte dalla giurisprudenza di legittimità.

L’ordinanza qui annotata (che rimette la causa alla sezione semplice avendo evidentemente ritenuto insussistenti le ipotesi contemplate dall’art. 375, 1° co. n. 1 e 5 c.p.c. per decidere in camera di consiglio)ripercorre analiticamente gli orientamenti espressi dalla Suprema Corte, fin dal 2015, con riferimento all’ipotesi in cui la reintegrazione sia stata disposta dal giudice perché il fatto contestato al lavoratore, la cui gravità non è tale da poter essere qualificato in termini di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, rientra tra le condotte punibili dal contratto collettivo con una sanzione di tipo conservativo.

Più nel dettaglio, le pronunce su cui la Suprema Corte si sofferma sono quelle relative alle ipotesi in cui la fattispecie disciplinare contestata dal lavoratore è sì punita dal contratto collettivo con una sanzione conservativa, ma è descritta ed individuata facendo ricorso a “nozioni elastiche” o norme di chiusura, quali sono, solo per fare qualche esempio, quelle che descrivono gli addebiti come l’“insubordinazione” o la “negligente esecuzione del rapporto”. Si tratta di addebiti disciplinari che sono ex se espressione di concetti indeterminati, o comunque dai contorni non esattamente definiti e che dunque pongono all’interprete il problema di stabilire quando la fattispecie concreta contestata al lavoratore possa dirsi effettivamente integrata.

In tali casi, afferma la Corte di Cassazione, ad un iniziale orientamento che ha ritenuto che in presenza di fattispecie disciplinari descritte mediante “nozioni elastiche” sia compito del giudice di merito compiere un’attività di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta, ne è seguito un altro, di segno opposto, che, a partire da Cass. n. 12365/2019, ha invece ritenuto che “solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamnete contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con una sanzione conservativa, il licenziamento sarà non solo illegittimo ma anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dal comma 4 dell’art. 18 novellato. Coerentemente non può dirsi consentito al giudice, in presenza di una condotta accertata che non rientri in una di quelle descritte dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari punibili con una sanzione conservativa, applicare la tutela reintegratoria operando una estensione non consentita, per le ragioni suesposte, al caso non previsto sul presupposto del ritenuto pari disvalore disciplinare”. Secondo tale orientamento, il ricorso da parte del giudice di merito ad un’interpretazione della clausola elastica che ne allarghi i contorni oltre i casi espressamente contemplati, “sarebbe contraria alla ratio della nuova disciplina in cui la tutela reintegratoria presuppone l’abuso consapevole del potere disciplinare, che implica una sicura e chiaramente intellegibile conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoro, della illegittimità del provvedimento espulsivo derivante o dalla insussistenza del fatto contestato oppure della chiara riconducibilità del comportamento contestato nell’ambito della previsione della norma collettiva fra le fattispecie ritenute dalla parti sociali inidonee a giustificare l’espulsione”. Al fine di stabilire se il licenziamento non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo soggettivo debba esser sanzionato con il rimedio reintegratorio o con quello indennitario, sarebbe pertanto preclusa al giudice una valutazione comparativa tra il disvalore disciplinare dell’addebito contestato con quello di altre fattispecie del contratto collettivo, le quali tuttavia, a differenza del primo, sono espressamente tipizzate dal CCNL come addebiti da sanzionare con misure disciplinari di tipo conservativo. Ciò perché non sarebbe consentito al giudice avvalersi del principio di proporzionalità per determinare, in sostituzione delle parti collettive, un assetto pattizio che sia espressione di maggiore ragionevolezza, in quanto “il rischio di una disparità di trattamento in tema di tutela applicabile, connessa alla tipizzazione o meno operata dalle parti collettive delle condotte di rilievo disciplinare, costituisce…espressione di una libera scelta del legislatore, fondata sulla valorizzazione e il rispetto dell’autonomia collettiva in materia” (in questi termini Cass. n. 13533/2019).

In sintesi, l’orientamento giurisprudenziale che fino alla pronuncia in commento si stava consolidando era quello in base al quale, ai fini dell’applicabilità del rimedio reintegratorio, era necessario che il fatto contestato fosse stato preventivamente ed espressamente tipizzato dal contratto collettivo applicato al rapporto, a tal punto che per i contratti collettivi che contengono clausole generali e dunque privi di tipizzazioni si è giunti ad escludere in radice l’operatività del rimedio reintegratorio di cui all’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970.

Nel premettere innanzi tutto che, a parere di chi scrive, nell’ambito della pronuncia che qui si commenta la Suprema Corte sembrerebbe aver utilizzato il termine “clausole generali” per far in realtà riferimento alle “norme o clausole elastiche”[1], il Collegio muove dalla necessità di “chiarire se in presenza di fattispecie punite con misure conservative e descritte attraverso clausole generali, l’attività compiuta dal giudice abbia ad oggetto l’interpretazione della fonte negoziale e la sussumibilità del fatto contestato nella disposizione contrattuale oppure implichi o si esaurisca in una valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto all’addebito mosso”.

Ed a questo riguardo la Corte rileva che l’orientamento che richiede che il rimedio reintegratorio possa trovare applicazione solo nei casi in cui l’addebito contestato sia stato previamente tipizzato presenti profili di irragionevolezza, dato che “le fattispecie punitive contemplate dai contratti collettivi non sono definite secondo una rigorosa applicazione del principio di tassatività, ma hanno in prevalenza carattere indeterminato, in relazione alla indeterminatezza degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà del dipendente, alla cui violazione è connesso l’esercizio del potere disciplinare”. In linea con quanto sopra, viene rilevato dalla Corte che nell’ambito del potere disciplinare del datore di lavoro il principio di tassatività degli illeciti non può essere inteso in senso rigoroso, analogamente a quanto prevede l’art. 25 della Costituzione per gli illeciti di carattere penale. Poiché per la contrattazione collettiva è concretamente impossibile tipizzare tutte le condotte disciplinari di cui un lavoratore si potrebbe rendere responsabile, “non appare rispondente ad un criterio di ragionevolezza attribuire alla tipizzazione, ad opera dei contratti collettivi, delle condotte punibili con sanzione conservativa il ruolo di discrimine per la selezione, in ipotesi di illegittimità del licenziamento, tra la tutela reintegratoria e quella indennitaria”.

La tipizzazione degli illeciti disciplinari di cui frequentemente si rinviene traccia nei contratti collettivi, afferma la Corte, non è rigorosamente correlata alla diversa gravità degli illeciti ivi menzionati, non solo perché – frequentemente – essa non è stata concepita dalle parti sociali in vista del ruolo di discrimine tra tutela reintegratoria ed indennitaria che, a partire dal 2012, essa ha incominciato a svolgere, ma anche perché “non è realizzata secondo un criterio idoneo a dare ragione del fatto che solo alcuni illeciti disciplinari, e non altri, meritino la tutela reintegratoria”, con il corollario, definito appunto “irragionevole”, “di far ricadere sui lavoratori le lacune e la approssimazione della disciplina contrattuale collettiva”. Ancorare l’operatività del rimedio reintegratorio alla tipizzazione dello specifico illecito disciplinare contestato al lavoratore, afferma la Corte, realizza un’irrazionale disparità di trattamento tra casi di licenziamento fondati su illeciti disciplinari non gravi, tipizzati dal contratto collettivo, e licenziamenti fondati su altri illeciti disciplinari, di pari o minore gravità rispetto ai primi, che però, non essendo tipizzati dal CCNL applicato al rapporto, danno luogo esclusivamente all’applicazione del rimedio indennitario.

Verso una rimeditazione del contenuto precettivo dell’art. 18, co. 4° e 5°?

Sono proprio le considerazioni qui sintetizzate che inducono la Corte, chiamata a pronunciarsi sulla vicenda nell’ambito del procedimento in camera di consiglio previsto dall’art. 380 – bis c.p.c. (e, dunque, all’interno della sezione VI – Lavoro), a ritenere insussistenti i presupposti per la decisione con quella modalità ed a rimettere la causa alla sezione Lavoro ordinaria.

A questo punto, occorrerà attendere la pronuncia di quest’ultima, per verificare se le perplessità, sollevate dall’ordinanza che qui si è segnalata circa l’orientamento che si stava consolidando nella giurisprudenza di legittimità, si trasformeranno in un overruling del medesimo.


[1] Esempi di c.d. clausole generali sono la correttezza e la buona fede nell’esecuzione del contratto: esse  contengono enunciazioni di criteri di valutazione “del comportamento delle parti” che vanno integrate in sede di interpretazione valutativa, conformandosi sia ai principi dell’ordinamento sia ad una serie di standards valutativi esistenti nella realtà sociale che unitamente a detti principi costituiscono “il diritto vivente”.

Esempi di norme o clausole elastiche sono la giusta causa ed il giustificato motivo di risoluzione del contratto, ovvero la proporzionalità della sanzione), che sono propriamente, invece, “norme complete (…) che contengono formulazioni idonee ad identificare non una precisa fattispecie ma una ipotesi-tipo, un modulo generico da applicare alla singola fattispecie concreta in via interpretativa”; così.  Adalberto Perulli, Il controllo giudiziale dei poteri dell’imprenditore tra evoluzione legislativa e diritto vivente, RIDL, 2015, I, pag. 83 ss.

Corte di Appello di Roma, sez. Lavoro, sentenza 18 maggio 2021

L’assenza ingiustificata del periziando alla visita medica del CTU comporta la decadenza dalla possibilità di provare il danno biologico lamentato. La Corte d’Appello romana ha recentemente rigettato la domanda di risarcimento del danno biologico avanzata da un lavoratore che, in primo grado aveva dimostrato di essere stato vittima di una condotta di demansionamento, produttiva di danno.

E’ accaduto in particolare che il Collegio, avendo ritenuto fondate le censure mosse dalla parte datoriale appellante alla consulenza tecnica di primo grado finalizzata a determinare il danno biologico subito, avesse disposto la rinnovazione della CTU. Prestato il giuramento di rito, il CTU aveva comunicato alle parti, presso l’indirizzo PEC dalle medesime indicato nei rispettivi atti di causa, la data, l’ora e il luogo di inizio delle operazioni peritali. In occasione della prevista visita medica, tuttavia né il lavoratore danneggiato, né il CTP da questi nominato erano presenti; inoltre il CTU non era stato informato in precedenza da alcuno di tale loro assenza.

La tesi svolta dalla difesa del lavoratore, per giustificare l’assenza, ha posto l’accento sul fatto che l’indirizzo PEC indicato nell’atto difensivo, benché attivo, non era più in uso da anni.

Ha rilevato tuttavia la Corte romana che “come si evince dalla procura allegata alla memoria difensiva ex art. 436 c.p.c…., l’indirizzo di posta elettronica certificata cui l'appellato ha dichiarato di voler ricevere le comunicazioni è: ......@ordineavvocatiroma.org, ossia proprio l'indirizzo oggetto dell'elezione di domicilio. Ogni ulteriore notazione è superflua. La mancata presentazione a visita è pertanto ingiustificata”.

Muovendo da tale premessa, tenuto conto della necessità di salvaguardare il principio di ragionevole durata del processo che impedisce la rinnovazione della perizia medica, in presenza di una situazione nella quale la rinnovazione sarebbe stata dovuta ad una condotta negligente della parte (la mancata presentazione ingiustificata alla visita), la Corte di Appello ha affermato che, ferma la necessaria prova del demansionamento subito, grava sull’interessato ad ottenere il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno uno specifico onere di collaborazione, rientrante nell’ambito del generale onere di provare la fondatezza del diritto controverso, consistente nella sottoposizione alla visita medica disposta in sede di consulenza tecnica di ufficio. Pertanto, la mancata presentazione dell’interessato alla visita peritale disposta in fase di appello comporta il rigetto della domanda per difetto di prova. A sostegno della propria decisione la Corte territoriale romana ha menzionato Cass. ord. n. 2361/2019 e Cass. n. 19577/2013, richiamando esplicitamente le motivazioni di tali sentenze in applicazione del principio di cui all’art. 118 disp. att. c.p.c., il quale, come è noto, consente al giudice di esporre le ragioni giuridiche della decisione, “anche con riferimento a precedenti conformi”.

Sicché il monito della Corte romana è categorico: guai a omettere di monitorare la casella di posta elettronica certificata verso cui si è dichiarato di voler ricevere comunicazioni e guai a non presentarsi alla visita medica disposta con la CTU; l’assenza ingiustificata del periziando a tale visita produce l’irrimediabile preclusione della possibilità di provare il danno di cui egli chiede il risarcimento.

Un altro significativo capo della sentenza riguarda la (mancata) prova del danno alla professionalità di cui il lavoratore demansionato chiede il risarcimento.

Dando applicazione al consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, la Corte romana ha affermato che in presenza di una accertata fattispecie di demansionamento, affinché il danno alla professionalità possa essere risarcito è onere del lavoratore allegare e provare di aver sofferto un pregiudizio risarcibile in conseguenza dell’inadempimento datoriale; gli elementi di prova devono ricadere su circostanze diverse ed ulteriori rispetto alla fattispecie di dequalificazione, essendo onere del lavoratore allegare e provare l’impoverimento della capacità professionale acquisita o la mancata acquisizione di una maggiore capacità professionale, la perdita di chances di progressione di carriera o di maggiori possibilità di guadagno.

E’ esplicitamente richiesta, pertanto, una prova specifica e rigorosa del danno da dequalificazione risarcibile, sia nella sua componente di danno professionale sia in quella di danno non patrimoniale. Questo orientamento – solidamente fondato sul principio generale della effettività del danno e sulla necessaria distinzione tra mera lesione del diritto e danno che ne può, solo eventualmente, derivare – è stato ribadito, nel solco di Cass. S.U. 6572/06, dalle sentenze delle Sezioni Unite della Suprema Corte c.d. di San Martino del 2008 (nn. 26972 – 5 dell’11 novembre 2008) e, da ultimo, da Cass. civ. Sez. lavoro Ord., 23 marzo 2020, n. 7483.

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