La disciplina normativa
E’ noto che la L. n. 92/2012 ha modificato l’art. 18 della L. n. 300/1970 introducendo quattro distinti regimi di tutela, ciascuno destinato a trovare applicazione in diverse ipotesi di illegittimità dell’atto di recesso datoriale. Più in particolare, e soffermandosi su quelli che maggiormente rilevano ai fini della riflessione sull’ordinanza qui commentata, nel caso di un licenziamento disciplinare per cui sia stata accertata la non ricorrenza della causale di licenziamento addotta dal datore di lavoro a fondamento del medesimo, è previsto che il giudice dichiari risolto il rapporto di lavoro e condanni il datore di lavoro a corrispondere al lavoratore un’indennità risarcitoria ricompresa tra le 12 e le 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Ove tuttavia, oltre alla non ricorrenza della causale di recesso perché la gravità dell’addebito non è tale da integrare la nozione legale di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, il giudice accerti l’insussistenza del fatto contestato o la riconducibilità di esso alle “condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”, allora dovrà essere disposta la reintegrazione nel posto di lavoro con un risarcimento del danno che, nell’ammontare massimo, non potrà essere superiore a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Le soluzioni offerte dalla giurisprudenza di legittimità.
L’ordinanza qui annotata (che rimette la causa alla sezione semplice avendo evidentemente ritenuto insussistenti le ipotesi contemplate dall’art. 375, 1° co. n. 1 e 5 c.p.c. per decidere in camera di consiglio)ripercorre analiticamente gli orientamenti espressi dalla Suprema Corte, fin dal 2015, con riferimento all’ipotesi in cui la reintegrazione sia stata disposta dal giudice perché il fatto contestato al lavoratore, la cui gravità non è tale da poter essere qualificato in termini di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, rientra tra le condotte punibili dal contratto collettivo con una sanzione di tipo conservativo.
Più nel dettaglio, le pronunce su cui la Suprema Corte si sofferma sono quelle relative alle ipotesi in cui la fattispecie disciplinare contestata dal lavoratore è sì punita dal contratto collettivo con una sanzione conservativa, ma è descritta ed individuata facendo ricorso a “nozioni elastiche” o norme di chiusura, quali sono, solo per fare qualche esempio, quelle che descrivono gli addebiti come l’“insubordinazione” o la “negligente esecuzione del rapporto”. Si tratta di addebiti disciplinari che sono ex se espressione di concetti indeterminati, o comunque dai contorni non esattamente definiti e che dunque pongono all’interprete il problema di stabilire quando la fattispecie concreta contestata al lavoratore possa dirsi effettivamente integrata.
In tali casi, afferma la Corte di Cassazione, ad un iniziale orientamento che ha ritenuto che in presenza di fattispecie disciplinari descritte mediante “nozioni elastiche” sia compito del giudice di merito compiere un’attività di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta, ne è seguito un altro, di segno opposto, che, a partire da Cass. n. 12365/2019, ha invece ritenuto che “solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamnete contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con una sanzione conservativa, il licenziamento sarà non solo illegittimo ma anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dal comma 4 dell’art. 18 novellato. Coerentemente non può dirsi consentito al giudice, in presenza di una condotta accertata che non rientri in una di quelle descritte dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari punibili con una sanzione conservativa, applicare la tutela reintegratoria operando una estensione non consentita, per le ragioni suesposte, al caso non previsto sul presupposto del ritenuto pari disvalore disciplinare”. Secondo tale orientamento, il ricorso da parte del giudice di merito ad un’interpretazione della clausola elastica che ne allarghi i contorni oltre i casi espressamente contemplati, “sarebbe contraria alla ratio della nuova disciplina in cui la tutela reintegratoria presuppone l’abuso consapevole del potere disciplinare, che implica una sicura e chiaramente intellegibile conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoro, della illegittimità del provvedimento espulsivo derivante o dalla insussistenza del fatto contestato oppure della chiara riconducibilità del comportamento contestato nell’ambito della previsione della norma collettiva fra le fattispecie ritenute dalla parti sociali inidonee a giustificare l’espulsione”. Al fine di stabilire se il licenziamento non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo soggettivo debba esser sanzionato con il rimedio reintegratorio o con quello indennitario, sarebbe pertanto preclusa al giudice una valutazione comparativa tra il disvalore disciplinare dell’addebito contestato con quello di altre fattispecie del contratto collettivo, le quali tuttavia, a differenza del primo, sono espressamente tipizzate dal CCNL come addebiti da sanzionare con misure disciplinari di tipo conservativo. Ciò perché non sarebbe consentito al giudice avvalersi del principio di proporzionalità per determinare, in sostituzione delle parti collettive, un assetto pattizio che sia espressione di maggiore ragionevolezza, in quanto “il rischio di una disparità di trattamento in tema di tutela applicabile, connessa alla tipizzazione o meno operata dalle parti collettive delle condotte di rilievo disciplinare, costituisce…espressione di una libera scelta del legislatore, fondata sulla valorizzazione e il rispetto dell’autonomia collettiva in materia” (in questi termini Cass. n. 13533/2019).
In sintesi, l’orientamento giurisprudenziale che fino alla pronuncia in commento si stava consolidando era quello in base al quale, ai fini dell’applicabilità del rimedio reintegratorio, era necessario che il fatto contestato fosse stato preventivamente ed espressamente tipizzato dal contratto collettivo applicato al rapporto, a tal punto che per i contratti collettivi che contengono clausole generali e dunque privi di tipizzazioni si è giunti ad escludere in radice l’operatività del rimedio reintegratorio di cui all’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970.
Nel premettere innanzi tutto che, a parere di chi scrive, nell’ambito della pronuncia che qui si commenta la Suprema Corte sembrerebbe aver utilizzato il termine “clausole generali” per far in realtà riferimento alle “norme o clausole elastiche”[1], il Collegio muove dalla necessità di “chiarire se in presenza di fattispecie punite con misure conservative e descritte attraverso clausole generali, l’attività compiuta dal giudice abbia ad oggetto l’interpretazione della fonte negoziale e la sussumibilità del fatto contestato nella disposizione contrattuale oppure implichi o si esaurisca in una valutazione di proporzionalità della sanzione rispetto all’addebito mosso”.
Ed a questo riguardo la Corte rileva che l’orientamento che richiede che il rimedio reintegratorio possa trovare applicazione solo nei casi in cui l’addebito contestato sia stato previamente tipizzato presenti profili di irragionevolezza, dato che “le fattispecie punitive contemplate dai contratti collettivi non sono definite secondo una rigorosa applicazione del principio di tassatività, ma hanno in prevalenza carattere indeterminato, in relazione alla indeterminatezza degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà del dipendente, alla cui violazione è connesso l’esercizio del potere disciplinare”. In linea con quanto sopra, viene rilevato dalla Corte che nell’ambito del potere disciplinare del datore di lavoro il principio di tassatività degli illeciti non può essere inteso in senso rigoroso, analogamente a quanto prevede l’art. 25 della Costituzione per gli illeciti di carattere penale. Poiché per la contrattazione collettiva è concretamente impossibile tipizzare tutte le condotte disciplinari di cui un lavoratore si potrebbe rendere responsabile, “non appare rispondente ad un criterio di ragionevolezza attribuire alla tipizzazione, ad opera dei contratti collettivi, delle condotte punibili con sanzione conservativa il ruolo di discrimine per la selezione, in ipotesi di illegittimità del licenziamento, tra la tutela reintegratoria e quella indennitaria”.
La tipizzazione degli illeciti disciplinari di cui frequentemente si rinviene traccia nei contratti collettivi, afferma la Corte, non è rigorosamente correlata alla diversa gravità degli illeciti ivi menzionati, non solo perché – frequentemente – essa non è stata concepita dalle parti sociali in vista del ruolo di discrimine tra tutela reintegratoria ed indennitaria che, a partire dal 2012, essa ha incominciato a svolgere, ma anche perché “non è realizzata secondo un criterio idoneo a dare ragione del fatto che solo alcuni illeciti disciplinari, e non altri, meritino la tutela reintegratoria”, con il corollario, definito appunto “irragionevole”, “di far ricadere sui lavoratori le lacune e la approssimazione della disciplina contrattuale collettiva”. Ancorare l’operatività del rimedio reintegratorio alla tipizzazione dello specifico illecito disciplinare contestato al lavoratore, afferma la Corte, realizza un’irrazionale disparità di trattamento tra casi di licenziamento fondati su illeciti disciplinari non gravi, tipizzati dal contratto collettivo, e licenziamenti fondati su altri illeciti disciplinari, di pari o minore gravità rispetto ai primi, che però, non essendo tipizzati dal CCNL applicato al rapporto, danno luogo esclusivamente all’applicazione del rimedio indennitario.
Verso una rimeditazione del contenuto precettivo dell’art. 18, co. 4° e 5°?
Sono proprio le considerazioni qui sintetizzate che inducono la Corte, chiamata a pronunciarsi sulla vicenda nell’ambito del procedimento in camera di consiglio previsto dall’art. 380 – bis c.p.c. (e, dunque, all’interno della sezione VI – Lavoro), a ritenere insussistenti i presupposti per la decisione con quella modalità ed a rimettere la causa alla sezione Lavoro ordinaria.
A questo punto, occorrerà attendere la pronuncia di quest’ultima, per verificare se le perplessità, sollevate dall’ordinanza che qui si è segnalata circa l’orientamento che si stava consolidando nella giurisprudenza di legittimità, si trasformeranno in un overruling del medesimo.
[1] Esempi di c.d. clausole generali sono la correttezza e la buona fede nell’esecuzione del contratto: esse contengono enunciazioni di criteri di valutazione “del comportamento delle parti” che vanno integrate in sede di interpretazione valutativa, conformandosi sia ai principi dell’ordinamento sia ad una serie di standards valutativi esistenti nella realtà sociale che unitamente a detti principi costituiscono “il diritto vivente”.
Esempi di norme o clausole elastiche sono la giusta causa ed il giustificato motivo di risoluzione del contratto, ovvero la proporzionalità della sanzione), che sono propriamente, invece, “norme complete (…) che contengono formulazioni idonee ad identificare non una precisa fattispecie ma una ipotesi-tipo, un modulo generico da applicare alla singola fattispecie concreta in via interpretativa”; così. Adalberto Perulli, Il controllo giudiziale dei poteri dell’imprenditore tra evoluzione legislativa e diritto vivente, RIDL, 2015, I, pag. 83 ss.
Corte di Appello di Roma, sez. Lavoro, sentenza 18 maggio 2021
L’assenza ingiustificata del periziando alla visita medica del CTU comporta la decadenza dalla possibilità di provare il danno biologico lamentato. La Corte d’Appello romana ha recentemente rigettato la domanda di risarcimento del danno biologico avanzata da un lavoratore che, in primo grado aveva dimostrato di essere stato vittima di una condotta di demansionamento, produttiva di danno.
E’ accaduto in particolare che il Collegio, avendo ritenuto fondate le censure mosse dalla parte datoriale appellante alla consulenza tecnica di primo grado finalizzata a determinare il danno biologico subito, avesse disposto la rinnovazione della CTU. Prestato il giuramento di rito, il CTU aveva comunicato alle parti, presso l’indirizzo PEC dalle medesime indicato nei rispettivi atti di causa, la data, l’ora e il luogo di inizio delle operazioni peritali. In occasione della prevista visita medica, tuttavia né il lavoratore danneggiato, né il CTP da questi nominato erano presenti; inoltre il CTU non era stato informato in precedenza da alcuno di tale loro assenza.
La tesi svolta dalla difesa del lavoratore, per giustificare l’assenza, ha posto l’accento sul fatto che l’indirizzo PEC indicato nell’atto difensivo, benché attivo, non era più in uso da anni.
Ha rilevato tuttavia la Corte romana che “come si evince dalla procura allegata alla memoria difensiva ex art. 436 c.p.c…., l’indirizzo di posta elettronica certificata cui l'appellato ha dichiarato di voler ricevere le comunicazioni è: ......@ordineavvocatiroma.org, ossia proprio l'indirizzo oggetto dell'elezione di domicilio. Ogni ulteriore notazione è superflua. La mancata presentazione a visita è pertanto ingiustificata”.
Muovendo da tale premessa, tenuto conto della necessità di salvaguardare il principio di ragionevole durata del processo che impedisce la rinnovazione della perizia medica, in presenza di una situazione nella quale la rinnovazione sarebbe stata dovuta ad una condotta negligente della parte (la mancata presentazione ingiustificata alla visita), la Corte di Appello ha affermato che, ferma la necessaria prova del demansionamento subito, grava sull’interessato ad ottenere il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno uno specifico onere di collaborazione, rientrante nell’ambito del generale onere di provare la fondatezza del diritto controverso, consistente nella sottoposizione alla visita medica disposta in sede di consulenza tecnica di ufficio. Pertanto, la mancata presentazione dell’interessato alla visita peritale disposta in fase di appello comporta il rigetto della domanda per difetto di prova. A sostegno della propria decisione la Corte territoriale romana ha menzionato Cass. ord. n. 2361/2019 e Cass. n. 19577/2013, richiamando esplicitamente le motivazioni di tali sentenze in applicazione del principio di cui all’art. 118 disp. att. c.p.c., il quale, come è noto, consente al giudice di esporre le ragioni giuridiche della decisione, “anche con riferimento a precedenti conformi”.
Sicché il monito della Corte romana è categorico: guai a omettere di monitorare la casella di posta elettronica certificata verso cui si è dichiarato di voler ricevere comunicazioni e guai a non presentarsi alla visita medica disposta con la CTU; l’assenza ingiustificata del periziando a tale visita produce l’irrimediabile preclusione della possibilità di provare il danno di cui egli chiede il risarcimento.
Un altro significativo capo della sentenza riguarda la (mancata) prova del danno alla professionalità di cui il lavoratore demansionato chiede il risarcimento.
Dando applicazione al consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, la Corte romana ha affermato che in presenza di una accertata fattispecie di demansionamento, affinché il danno alla professionalità possa essere risarcito è onere del lavoratore allegare e provare di aver sofferto un pregiudizio risarcibile in conseguenza dell’inadempimento datoriale; gli elementi di prova devono ricadere su circostanze diverse ed ulteriori rispetto alla fattispecie di dequalificazione, essendo onere del lavoratore allegare e provare l’impoverimento della capacità professionale acquisita o la mancata acquisizione di una maggiore capacità professionale, la perdita di chances di progressione di carriera o di maggiori possibilità di guadagno.
E’ esplicitamente richiesta, pertanto, una prova specifica e rigorosa del danno da dequalificazione risarcibile, sia nella sua componente di danno professionale sia in quella di danno non patrimoniale. Questo orientamento – solidamente fondato sul principio generale della effettività del danno e sulla necessaria distinzione tra mera lesione del diritto e danno che ne può, solo eventualmente, derivare – è stato ribadito, nel solco di Cass. S.U. 6572/06, dalle sentenze delle Sezioni Unite della Suprema Corte c.d. di San Martino del 2008 (nn. 26972 – 5 dell’11 novembre 2008) e, da ultimo, da Cass. civ. Sez. lavoro Ord., 23 marzo 2020, n. 7483.
Trib. Roma, sez. Lavoro, sentenza n. 3605/2021: la massima
La temporanea contrazione economica dell’attività produttiva ed il conseguente processo di ridimensionamento dell’organico aziendale adottato dal datore di lavoro per farvi fronte integrano il concetto di “giustificatezza” che rende legittimo il licenziamento del dirigente, categoria legale che non rientra, pertanto, nell’ambito applicativo della misura eccezionale del c.d. “blocco dei licenziamenti”.
La disciplina normativa
Nei termini sopra accennati si è recentemente pronunciato il Tribunale di Roma con la sentenza n. 3605/2021, affermando un principio di diritto esattamente contrario a quello già affermato dal medesimo Tribunale con la precedente ordinanza ex art. 1, comma 49, L. n. 92/2012 del 26 febbraio 2021, anch’essa brevemente annotata su questo sito (https://www.studioclaudioscognamiglio.it/ancora-sul-divieto-dei-licenziamenti-per-ragioni-economiche-produttive-ed-organizzative-2/)
La disciplina di legge che ha introdotto nel nostro ordinamento la misura di carattere eccezionale (D.L. n. 18/2020, conv. con modifiche in L. n. 27/2020), comunemente definita con l’espressione “blocco dei licenziamenti”, non indica – perlomeno esplicitamente – a quali categorie di lavoratori essa si applichi, posto che, dall’esordio della disciplina limitativa, il legislatore si è limitato a prevedere che le procedure di licenziamento collettivo non potessero essere avviate per un periodo di sessanta giorni a partire dalla data di entrata in vigore del Decreto Legge (17 marzo 2020), che quelle già avviate alla data del 23 febbraio 2020 restassero sospese per il medesimo periodo di tempo e che non potessero essere intimati licenziamenti per giustificato motivo oggettivo fino alla scadenza del termine di efficacia di sessanta giorni della predetta misura legislativa. Tuttavia, l’orizzonte temporale della vigenza normativa di tale divieto di licenziamento, così come previsto dall’art. 46 del D.L. n. 18/2020, è stato progressivamente spostato in avanti da Decreti Legge emanati in successione (a cominciare dal D.L. n. 34/2020 e da ultimo dal D.L. n. 41/2021), essendo stato in particolare previsto che restasse precluso l’avvio di procedure di licenziamento collettivo o l’intimazione di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo a tutti quei datori di lavoro che non avessero integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale istituiti specificamente dal legislatore dell’emergenza,oppure nel caso in cui non avessero fatto ricorso all’istituto dell’esonero dei contributi previdenziali. Del pari, è stata fin dal principio preclusa, e resta tutt’ora vigente la relativa previsione, l’intimazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un dato lavoratore nel caso in cui il medesimo non abbia fruito dei peculiari trattamenti di integrazione salariale o dell’istituto dell’esonero dei contributi previdenziali.
Le soluzioni contrastanti offerte dal Giudice romano.
Si è detto che le disposizioni di legge che regolano il c.d. “blocco dei licenziamenti” non indicano la tipologia di lavoratori cui esso è destinato a trovare applicazione. Ci si è allora chiesti se essa proteggesse, o meno, anche la stabilità del rapporto lavorativo dirigenziale.
Nel febbraio 2021, con un’ordinanza emessa a definizione della fase sommaria di un giudizio di licenziamento, il Tribunale di Roma ha ritenuto che il rapporto lavorativo dirigenziale dovesse ricondursi nel novero dei rapporti di lavoro subordinato la cui stabilità è “protetta” dal c.d. blocco dei licenziamenti.
In primo luogo perché tale inclusione sarebbe in un certo senso imposta dalla ratio ispiratrice della misura legislativa di carattere eccezionale del c.d. blocco dei licenziamenti, così come individuabile nella necessità “di evitare che le pressocché generalizzate conseguenze economiche della pandemia si traducano nella soppressione immediata dei posti di lavoro”. In secondo luogo perché, pur riconoscendo il Tribunale che il c.d. “blocco dei licenziamenti” fa esplicito riferimento al recesso per giustificato motivo oggettivo, una causale di recesso che notoriamente non si applica al licenziamento del dirigente, l’inclusione della categoria dei dirigenti nel novero di quelle protette dalla misura di legge di cui si sta discorrendo si giustificherebbe in ragione della necessità di salvaguardare la “razionalità intrinseca” della normativa in analisi. Infatti, ha rilevato il Tribunale di Roma con l’ordinanza del febbraio 2021, se i dirigenti non possono essere legittimamente coinvolti in misure di licenziamento collettivo, non sarebbe ragionevole ritenere che, al contempo, essi possano essere licenziati individualmente per ragioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di esso. In sintesi, muovendo dal rilievo della sostanziale coincidenza tipologica delle ragioni sottese ad un licenziamento collettivo con quelle sottese ad un licenziamento individuale “di tipo oggettivo” e facendo leva sul fatto – pacifico – che i dirigenti non possano essere (allo stato) coinvolti in procedure collettive di riduzione del personale, il Tribunale, ravvisandone la contrarietà con una disciplina di carattere imperativo, quale quella che ha introdotto e disciplinato il c.d. “blocco dei licenziamenti” , ha concluso per la nullità del licenziamento intimato al dirigente per ragioni inerenti l’attività produttiva o l’organizzazione del lavoro, non ritenendo necessario o utile stabilire se esse integrassero o meno il concetto di “giustificatezza” del recesso.
Viceversa, con la sentenza n. 3605/2021 che qui brevemente si commenta, il Tribunale di Roma ha escluso che la figura del dirigente rientri nel novero di quei dipendenti la cui stabilità è protetta in misura straordinaria ed eccezionale dal c.d. “blocco dei licenziamenti”. Anche in questo caso, tuttavia, il Tribunale di Roma è giunto a tale conclusione – che dunque è esattamente opposta a quella già raggiunta nel febbraio 2021 – per due ordini di ragioni.
La prima ragione si fonda sul tenore letterale della disciplina di legge, e quindi sul dato oggettivo costituito dal riferimento esplicito ai licenziamenti individuali intimati per giustificato motivo, tipologia di licenziamenti che, come noto e come già accennato, non si applica al recesso dal rapporto di lavoro dirigenziale.
Il secondo motivo che ha indotto il Tribunale di Roma ad escludere il rapporto di lavoro dirigenziale dal novero dei rapporti lavorativi la cui stabilità occupazionale è eccezionalmente protetta dal legislatore dell’emergenza si fonda, invece, sulla ratio della disciplina normativa qui in esame, individuata tuttavia in maniera difforme da quanto già ravvisato e valorizzato dal Tribunale di Roma nel precedente pronunciamento. Infatti, se, come detto, con l’ordinanza del febbraio 2021 il Tribunale ha ritenuto che la necessità “di evitare che le pressocché generalizzate conseguenze economiche della pandemia si traducano nella soppressione immediata dei posti di lavoro” dovesse tradursi in una protezione diffusa della stabilità dei rapporti lavorativi, tra cui quello dirigenziale, stavolta, invece, per giungere alla conclusione opposta, il Tribunale di Roma ha valorizzato il parallelismo normativamente sancito tra il (presunto) ambito applicativo del c.d. blocco dei licenziamenti, così come desumibile dalla lettera delle disposizioni di legge che lo prevedono, e il recente ampliamento del novero delle aziende che, in deroga agli ordinari requisiti dimensionali, possono beneficiare degli ammortizzatori sociali.
In altri termini, il Tribunale di Roma, da ultimo, muove dalla considerazione per cui il legislatore dell’emergenza, da un lato, ha introdotto il c.d. blocco dei licenziamenti – misura di carattere straordinario, posto che, impedendo appunto il licenziamento del lavoratore o dei lavoratori in una situazione di oggettiva difficoltà economica dell’impresa, limita fortemente la libertà di iniziativa economica privata del datore di lavoro –, dall’altro, ha allargato la platea delle imprese abilitate a fare ricorso alla cassa integrazione guadagni, ricomprendendovi – in via parimenti straordinaria – anche quelle di minori dimensioni che solitamente vi sono escluse. Pertanto, la “chiara ed evidente simmetria tra il blocco dei licenziamenti e soccorso della collettività generale (attraverso gli ammortizzatori sociali)” è la chiave di volta che consente di delimitare i contorni dell’ambito applicativo del c.d. “blocco dei licenziamenti”: infatti, poiché è pacifico che i dirigenti non possano fruire degli strumenti di sostegno del reddito quale la cassa integrazione guadagni, allora deve ritenersi altrettanto pacifico che possano essere oggetto di licenziamento e non rientrino quindi nel novero dei lavoratori la cui stabilità è protetta dal c.d. “blocco dei licenziamenti”, poiché, afferma il Tribunale, se così non fosse, “della categoria dei dirigenti dovrebbe necessariamente farsene carico il datore di lavoro, pur in presenza di motivi tali da configurare un’ipotesi di giustificatezza del recesso. E ciò potrebbe determinare un profilo di incoerenza costituzionale tra estensione del blocco dei licenziamenti e principio di libertà economica”.
Considerazioni
La conclusione cui è pervenuto il Tribunale con la sentenza n. 3605/2021 ha innanzi tutto il pregio di basarsi su di un’interpretazione letterale della norma, così dando concreta applicazione al consolidato orientamento della Suprema Corte secondo cui “nell’ipotesi in cui l’interpretazione letterale di una norma di legge o (come nella specie) regolamentare sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l’interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l’esame complessivo del testo, della mens legis, specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore. Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l’elemento letterale e l’intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, sì che il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all’equivocità del testo da interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l’effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito all’interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell’ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è intesa” (in questi termini, Cass. n. 5128/2001).
Per di più, ove si volesse ritenere che la lettera della disposizione non sia sufficientemente chiara nello stabilire se la categoria dei dirigenti debba o meno rientrare nel novero di quelle protette dal c.d. “blocco dei licenziamenti”, è indubbio che il legislatore dell’emergenza abbia effettivamente sancito un indissolubile legame tra divieto di recesso per ragioni oggettive e ampliamento della platea dei soggetti che possono beneficiare dei trattamenti di sostegno del reddito attraverso una temporanea sospensione del rapporto di lavoro. Ed allora è parimenti indubbia la ragionevolezza e l’equilibrio di cui è espressone una decisione, quale quella che qui è oggetto di commento, che ritenga che alla mancata possibilità per il datore di ricorrere a tali strumenti di sostegno del reddito per una determinata categoria di lavoratori, quale appunto quella dei dirigenti, debba fare da pendant la possibilità per il medesimo datore di lavoro di sciogliersi dal vincolo contrattuale, ovviamente allorquando ricorrano ragioni di carattere oggettivo che siano effettive non meramente pretestuose ed arbitrarie. Tale assetto normativo parrebbe peraltro realizzare un’equa ed efficiente ripartizione dei costi sociali ed economici correlati alla diffusa contrazione economica causata dalla pandemia ancora in atto, ponendo a carico della fiscalità generale gli strumenti di sostegno del reddito di cui beneficia la stragrande maggioranza dei lavoratori ed evitando che i costi di quei lavoratori che invece non possono beneficiare di tali strumenti di sostegno debbano essere sopportati, in ultima istanza, esclusivamente dalle imprese.