Le indennità corrisposte dal datore in ragione del trasferimento del lavoratore possono essere recuperate nei confronti di coloro che, successivamente alla dichiarazione dello stato emergenziale legato alla diffusione del virus SarsCovid-19, abbiano scelto di lavorare con modalità di lavoro agile?

La questione viene affrontata in via generale e con riferimento al caso del rapporto lavorativo disciplinato dal CCNL Credito.

Senza ombra di dubbio, uno degli aspetti della vita quotidiana degli individui su cui la diffusione del virus Covid-19 ha più inciso è quello relativo alla vita lavorativa. Se, a livello etico, prima ancora che giuridico, grava sul singolo la responsabilità di evitare occasioni che possano agevolare la diffusione del contagio, ad un livello produttivo/professionale i datori di lavoro si sono trovati a dover fronteggiare le problematiche connesse alla sopravvenuta, parziale inidoneità degli spazi lavorativi di uso comune. Infatti, come purtroppo noto, tante più persone sono presenti contemporaneamente in un dato ambiente, quale potrebbe essere appunto un qualsiasi ufficio, tanto più elevato è il rischio di contagio da Covid-19.

Ecco allora che l’adozione generalizzata della modalità lavorativa, c.d. di lavoro agile, è divenuta una soluzione possibile – se non addirittura, in alcune ipotesi, necessitata – per fronteggiare le problematiche relative al sopravvenuto sovraffollamento degli ambienti lavorativi destinati ad uso comune.

La disciplina di legge che regola tale peculiare modalità di svolgimento della lavorativa – dettata agli artt. 18-24 L. n. 81/2017 – prevede che essa non possa essere imposta unilateralmente dal datore di lavoro, ma possa adottarsi solo a seguito e per l’effetto del raggiungimento di un accordo tra le due parti del rapporto di lavoro. Tuttavia, fin dal D.P.C.M. n. 52/2020 del 1° marzo 2020, proprio al fine di contenere quanto più possibile la diffusione del contagio da Sars-Covid19, è stato normativamente previsto che la modalità di lavoro agile potesse essere adottata “anche in assenza degli accordi individuali” previsti dalla L. n. 81/2017. Peraltro, al fine di agevolare l’adozione diffusa di tale peculiare modalità lavorativa, è stata altresì introdotta una facilitazione in punto di assolvimento degli obblighi di comunicazione che devono necessariamente precederne l’adozione con riferimento al singolo rapporto lavorativo. Con il perdurare dell’emergenza sanitaria, inoltre, la possibilità di “collocare” il lavoratore in modalità di lavoro agile prescindendo dal consenso del medesimo è stata poi prevista dal D.L. n. 34/2020, convertito con modificazioni in L. n. 77/2020 e, da ultimo, dal D.L. n. 183/2020, convertito con modificazioni in L. n. 21/2021.

Fine ultimo di questo breve contributo non è quello di descrivere le caratteristiche del c.d. smart working, ma quello di individuare la più corretta soluzione giuridica al quesito se le indennità corrisposte dal datore di lavoro in ragione del trasferimento del lavoratore possano o meno essere recuperate nei confronti di tutti quei lavoratori che, successivamente alla dichiarazione dello stato emergenziale legato alla diffusione del virus SarsCovid-19, abbiano espletato la prestazione lavorativa con modalità di lavoro agile.

Si può subito premettere che, nel caso in cui la prestazione lavorativa sia resa con la modalità di lavoro agile – e quindi “in parte all'interno di locali aziendali e in parte all'esterno senza una postazione fissa” (art. 18 L. n. 81/2017) – viene meno il motivo fondante l’erogazione delle indennità accessorie, riconosciute proprio in ragione dello svolgimento della prestazione lavorativa in una “sede” lavorativa diversa da quella cui il lavoratore era precedentemente assegnato. Quindi, trattandosi di indennità (appunto accessorie al trattamento retributivo relativo ad una data qualifica contrattuale) che vengono riconosciute ai dipendenti in ragione della maggiore gravosità della prestazione lavorativa allorquando questa è resa lontano dalla propria pregressa sede lavorativa, la circostanza che la suddetta maggiore gravosità, appunto per effetto del c.d. smart working, sia venuta temporaneamente meno, legittima la temporanea mancata erogazione (o il successivo recupero) delle anzidette indennità da parte del datore di lavoro. Si tratta, infatti, di voci del trattamento economico del lavoratore che si pongono in uno stretto rapporto causale con le peculiari modalità di svolgimento della prestazione lavorativa che sono destinate a compensare.

In sostanza, si può ritenere che per effetto dello smart working sia temporaneamente venuta meno la causa delle attribuzioni patrimoniali riconosciute ai lavoratori, là dove la causa è intesa come giustificazione giuridica delle stesse, di modo che l’erogazione di tali indennità, originariamente giustificata, diviene successivamente ingiustificata.

E la validità di tale prima conclusione è tale, sia nel caso in cui questa  modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, in ossequio a quanto disposto dall’art. 18 L. n. 81/2017, scaturisca da un accordo delle parti, sia nel caso in cui la modalità di lavoro smart working sia stata, per così dire, “imposta” unilateralmente dal datore di lavoro per effetto delle disposizioni di legge che, nel periodo di maggiore gravità dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, come visto, glielo consentono.

Nel primo caso, infatti, l’esistenza di una manifestazione di volontà del lavoratore il cui effetto primario e principale è quello di consentire lo svolgimento della prestazione lavorativa “in parte all'interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa” (art. 18 L. n. 81/2017), consente ragionevolmente di ritenere che tale manifestazione di volontà si estenda anche alla volontà del lavoratore di “evitare” la maggiore gravosità della prestazione lavorativa resa in una sede lontana dalla pregressa sede lavorativa. E’ ragionevole dunque ritenere che il “lavoratore agile” implicitamente esprima la volontà di rinunciare alla percezione di quelle indennità che appunto trovavano la loro giustificazione fondante nella maggiore gravosità della prestazione lavorativa resa in una sede lavorativa lontana da quella cui egli era precedentemente assegnato;caratteristica della prestazione, quest’ultima, che per effetto della scelta consapevole di lavorare “in parte all'interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa” è tuttavia venuta meno in maniera consapevole.

Nel secondo caso, ovvero nell’ipotesi di lavoro agile “imposto” ai lavoratori durante il c.d. periodo di lockdown, o durante un periodo in cui per effetto di un provvedimento dell’Autorità è fortemente limitata la circolazione degli individui, si potrebbe ritenere che per il lavoratore agile ricorra un’ipotesi di “impossibilità parziale” della prestazione principale, là dove la parte di prestazione divenuta impossibile è da individuarsi nello svolgimento della prestazione lavorativa nella sede lavorativa lontana da quella cui era precedentemente assegnato. Ed allora, applicando alla suddetta fattispecie concreta le regole codicistiche, ed in particolare quelle di cui agli art. 1258 c.c. e 1464 c.c., da un lato, ed in ossequio alla disciplina di cui all’art. 1258 c.c., il lavoratore si libererebbe dell’obbligazione principale (cioè dell’obbligazione lavorativa) “eseguendo la prestazione per la parte che è rimasta possibile”, e dunque lavorando con modalità di lavoro agile, conseguendo così il diritto alla retribuzione (che si pone in rapporto di corrispettività con lo svolgimento della sola prestazione lavorativa) ma non anche il diritto alla percezione delle indennità accessorie (che invece abbiamo visto essere in rapporto di corrispettività con quelle peculiari e gravose modalità di svolgimento della prestazione lavorativa che però sono divenute impossibili). Dall’altro lato del rapporto obbligatorio ed in ossequio a quanto previsto dall’art. 1464 c.c., si può poi coerentemente ritenere che, a fronte della impossibilità parziale della prestazione lavorativa, il datore di lavoro abbia diritto “ad una corrispondente riduzione della prestazione” dovuta, e dunque il diritto a corrispondere al lavoratore la sola retribuzione (che è appunto correlata allo svolgimento della prestazione lavorativa con modalità di smart working) ma non anche le indennità accessorie.

Passando poi ad esaminare la questione sul piano dello specifico rapporto lavorativo disciplinato dal CCNL del credito, la condivisibilità della soluzione più sopra raggiunta in via generale, vale a dire in applicazione dei principi codicistici, sembrerebbe esser stata riconosciuta anche dalle Organizzazioni Sindacali.

Infatti, nel settore bancario, da un lato, è stato decisamente massivo il ricorso allo strumento del c.d. “lavoro agile” nel periodo più emergenziale di contrasto alla diffusione del virus Sars-Covid 19, dall’altro, la regolamentazione collettiva sembrerebbe aver condiviso il giudizio in merito alla sussistenza di un nesso di stretta corrispettività tra l’erogazione delle indennità accessorie ed un determinato e peculiare svolgimento della prestazione lavorativa.

E così, quanto al frequente ricorso alla peculiare modalità di svolgimento della prestazione lavorativa di cui si sta discorrendo, nel Protocollo sottoscritto da ABI e FABI − FIRST-CISL − FISAC-CGIL – UILCA − UNISIN FALCRI-SILCEA-SINFUB in data 16 marzo 2020 è dato leggere che “in coerenza con i provvedimenti del Governo, l’ampio e diffuso ricorso al lavoro agile viene favorito quale efficace misura per la significativa riduzione delle occasioni di contatto all’interno dei luoghi di lavoro”; analogamente, nel Protocollo Condiviso sottoscritto dalle medesime OO.SS. del 28 aprile 2020 è dato leggere che “l’ampio e diffuso ricorso al lavoro agile continua – in questa straordinaria contingenza - a costituire un utile e modulabile strumento di prevenzione, idoneo a concorrere al contenimento del numero di presenze in contemporanea nei luoghi di lavoro, riducendo significativamente le occasioni di contatto all’interno dei luoghi stessi e favorendo il distanziamento interpersonale”.

Del pari, per quel che attiene al giudizio in merito alla sussistenza di un nesso di corrispettività tra diritto del lavoratore agile alla percezione delle indennità accessorie ed effettiva sussistenza di caratteristiche gravose di svolgimento della prestazione lavorativa, l’art. 11 CCNL Credito del 19 dicembre 2019, sotto la rubrica “diritti e doveri”, prevede che in caso di svolgimento del lavoro agile il buono pasto venga riconosciuto al lavoratore solo in quelle giornate “in cui l’attività lavorativa in modo agile è prestata presso altra sede/hub aziendale”, così appunto sancendo un principio (che potrebbe ritenersi applicabile analogicamente anche alle indennità di cui qui si discute) per cui il presupposto dell’indennità è la sussistenza di una modalità gravosa di svolgimento della prestazione lavorativa.

Per concludere, se, come si è avuto modo di anticipare, tali indennità – in astratto – possono essere oggetto di recupero da parte del datore di lavoro, tuttavia, nel concreto, affinché il recupero sia legittimo e quanto più possibile al riparo da future contestazioni, è necessario che esso abbia ad oggetto singole indennità, del rapporto di corrispettività delle quali con le modalità concrete di svolgimento della prestazione lavorativa non sia dato dubitare. In quest’ottica, per fare un esempio, sarebbe da escludere la legittimità del recupero che riguardasse l’indennità una tantum di trasferimento eventualmente corrisposta dal datore in occasione della modifica della sede lavorativa, dato che il predetto trasferimento non viene meno per la sola decisione del lavoratore di rendere la prestazione lavorativa con modalità di lavoro agile.

Il licenziamento intimato ad un dirigente in ragione della riorganizzazione aziendale conseguente a calo dell’attività aziendale”, quest’ultimo a sua volta imputabile alla contrazione economica generale causata dalla pandemia di Covid-19, è nullo per contrarietà a norma imperativa.

E’ questo il decisum di una recente pronuncia con cui la Terza Sezione lavoro del Tribunale di Roma ha definito un giudizio ex art. 1, comma 48, L. n. 92/2012, disponendo la reintegrazione nel posto di lavoro del dirigente illegittimamente estromesso.

La disciplina normativa

Come già rilevato in una breve nota di commento a Trib. Mantova n. 112/2020 comparsa su questo sito (https://www.studioclaudioscognamiglio.it/la-stabilita-del-mercato-del-lavoro-ed-il-blocco-dei-licenziamenti-per-ragioni-economiche-produttive-ed-organizzative/) tra le diverse misure adottate dal Legislatore per far fronte elle esigenze, anche sociali, poste dalla diffusione della pandemia da Covid-19 vi è quella del divieto di licenziamento per ragioni economiche, organizzative e produttive (introdotto dall’art. 46 del D.L. n. 18/2020 e successivamente prorogato da successivi Decreti Legge).

Più in particolare, il c.d. “blocco” dei licenziamenti per ragioni economiche è stato previsto e disciplinato tenendo conto della circostanza per cui – in linea generale ed astratta, e dunque a prescindere dalla, purtroppo ancora attuale, situazione emergenziale – il recesso dal singolo rapporto lavorativo, per ragioni inerenti l’attività produttiva, può essere disposto sia nell’ambito di una procedura collettiva di licenziamento (evento che, come noto, si verifica allorquando la risoluzione del singolo rapporto lavorativo si inserisce in una pluralità di risoluzioni individuali, tutte motivate dalla stessa ragione organizzativa addotta dal datore di lavoro recedente), sia ad un livello meramente individuale, circostanza che si verifica quando il singolo lavoratore viene licenziato ai sensi dell’art. 3 L. n. 604/1966, per giustificato motivo oggettivo.

E così l’art. 14 D.L. n. 104/2020, al primo comma, ha previsto che “resti precluso” l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo ai tutti quei datori di lavoro che non abbiano integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale istituiti ad hoc (cioè quelli appositamente previsti per fronteggiare la situazione economica imposta dall’emergenza sanitaria) ovvero non abbiano fatto ricorso all’istituto dell’esonero dei contributi previdenziali; parimenti, ma a livello individuale, il secondo comma prevede che il datore di lavoro non possa procedere ad intimare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo ove non abbia fruito dei peculiari trattamenti di integrazione salariale o dell’istituto dell’esonero dei contributi previdenziali con riferimento al singolo lavoratore che intende licenziare.

La questione posta dal caso concreto e le motivazioni poste a base della decisione

Una delle questioni interpretative che tale disciplina ha posto è quella relativa al suo ambito applicativo: ci si è chiesti, in particolare, se essa trovasse o meno applicazione al rapporto lavorativo dirigenziale. A quanto consta, la pronuncia qui in commento è la prima affermazione giudiziale di applicabilità alla categoria dirigenziale del divieto di licenziamento per ragioni di carattere economico/produttivo. Nonostante l’estensore dell’ordinanza premetta che l’esplicito riferimento all’art. 3 della L. n. 604/1966 (come noto, non applicabile alla categoria dirigenziale) operato dalla disciplina di legge che sancisce il divieto di licenziamento lasci ragionevolmente presumere che essa non debba appunto riguardare i dirigenti, giunge poi a ritenere che tale categoria sia “protetta” dalle iniziative di recesso datoriali motivate da ragioni economiche; e ciò, in base a due distinti percorsi argomentativi, sviluppati anche alla luce del canone ermeneutico dell’interpretazione costituzionalmente orientata.

Il primo tende a valorizzare la ratio sottesa alla previsione del c.d. “blocco” dei licenziamenti e dunque l’esigenza che le conseguenze economiche negative derivanti dalla diffusione della pandemia da Covid-19 non siano “scaricate” sulle spalle dei lavoratori attraverso una soppressione generalizzata dei posti di lavoro da questi occupati. Peraltro, rileva l’estensore, in linea con tale esigenza si pongono le misure di sostegno economico alle imprese simultaneamente varate al divieto di licenziamento per motivi economici/produttivi. Il secondo, invece, fa leva sulla necessità di salvaguardare la ragionevolezza intrinseca della disciplina che sancisce l’anzidetto divieto: se essa, sostiene il Tribunale, esclude i dirigenti dal novero di coloro che – allo stato – possono essere interessati da procedure di licenziamento collettivo, non sarebbe dato comprendere perché gli stessi dirigenti possano invece essere licenziati per giustificato motivo oggettivo, data la sostanziale coincidenza tipologica delle ragioni sottese ad un licenziamento collettivo con quelle sottese ad un licenziamento individuale. In questo senso, afferma il Tribunale, “il riferimento della legge all’art. 3 mira ad identificare la natura della ragione impassibile di essere posta a fondamento del recesso, e non a delimitare l’ambito soggettivo di applicazione del divieto; funzione che, se il legislatore avesse inteso perseguire, si sarebbe presumibilmente tradotta in una diversa tecnica normativa (soggettiva e non tipologica)”.

Considerazioni

La conclusione cui è pervenuto il Tribunale, per quanto suggestiva e foriera di significativi spunti di interesse, si pone in netto contrasto con l’inequivocabile lettera della norma, finendo altresì per realizzare un’applicazione estensiva di una norma eccezionale, qual è appunto quella che, ponendo un divieto assoluto di licenziamento, comprime la libertà di iniziativa economica privata sancita dall’art. 41 Cost. A questo proposito, è fin troppo noto che l’art. 14 delle Preleggi stabilisce chiaramente che “le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”.

Tale caposaldo del diritto viene radicalmente disapplicato, tant’è che il Tribunale, pur in presenza di una chiara ed univoca volontà legislativa, attraverso la valorizzazione della finalità della legge, finisce per attribuire ad essa un significato diverso da quello che appunto risulta in maniera immediata e diretta da un’interpretazione letterale della stessa.  A questo proposito, si rammenta che Cass. n. 5128/2001 ha chiaramente affermato che “nell’ipotesi in cui l’interpretazione letterale di una norma di legge o (come nella specie) regolamentare sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l’interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l’esame complessivo del testo, della mens legis, specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore. Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l’elemento letterale e l’intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, sì che il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all’equivocità del testo da interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l’effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito all’interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell’ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è intesa”.

D’altra parte, e com’è noto, in presenza di un dato letterale inequivoco della disposizione, anche l’interpretazione costituzionalmente orientata non può condurre il giudice a fuoriuscire dal campo semantico disegnato dalla lettera, imponendosi semmai, a questo punto, la prospettazione, da parte sua, della questione di legittimità costituzionale (così, tra le molte altre, Corte Cost. sentenza n. 78/2012). Pertanto, pure l’argomento imperniato sulla ritenuta (ed ove pure sussistente, data l’obiettiva diversità, anche in termini di impatto socio – economico, di un licenziamento collettivo rispetto ad uno individuale) irragionevolezza della differenza di trattamento tra le due ipotesi di fatto da ultimo evocate, avrebbe semmai dovuto essere posto a base di un incidente di costituzionalità, senza potersi risolvere, invece, in una sostanziale riscrittura del testo della disposizione.

I mesi di marzo ed aprile 2020 sono stati uno dei periodi più drammatici che l’Italia, ed il mondo intero, hanno attraversato dalla fine della seconda guerra mondiale. Ben presto, l’emergenza sanitaria correlata alla necessità di contenere la diffusione del Sars Covid-19 si è poi trasformata nel nostro Paese in emergenza economica: l’interruzione forzosa di ogni attività economica non strettamente indispensabile, così come previsto dall’Autorità al fine di limitare al massimo le possibili interazioni fra gli individui, ha avuto inevitabili ripercussioni negative sulla produttività delle singole imprese e, dunque, a livello agglomerato, sul PIL nazionale.

La disciplina emergenziale

Per evitare che tale spaventosa ed improvvisa contrazione economica che la maggior parte delle imprese si sono trovate a dover fronteggiare potesse tradursi anche in una emergenza sociale, tra le varie misure adottate, con il D.L. c.d. “cura Italia” (n. 18/2020), all’art. 46, è stato previsto il c.d. “blocco dei licenziamenti”, in ragione del quale, per i sessanta giorni successivi all’entrata in vigore del Decreto (17 marzo 2020) è stato precluso ai datori di lavoro l’accesso alle procedure di licenziamento collettivo ed il ricorso a licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. Tale blocco dei licenziamenti è stato poi prorogato con il Decreto c.d. “rilancio” (n. 34/2020) ed ulteriormente prorogato con l’art. 14 del Decreto c.d. “agosto” (104/2020): in base a tale ultima disciplina di legge, il licenziamento per g.m.o. può essere intimato solo dal datore di lavoro che abbia integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale di cui all’art. 1 del D.L. n. 104/2020 o solo dal datore che abbia beneficiato dell’agevolazione contributiva prevista dall’art. 3 del Decreto stesso. Come lo stesso Giudice mantovano ha rilevato, “trattasi di una tutela temporanea della stabilità dei rapporti per la salvaguardare la stabilità del mercato e del sistema economico ed è una misura di politica del mercato del lavoro e di politica economica collegata ad esigenze di ordine pubblico”.

Le sanzioni previste in via generale per il licenziamento nullo

Si consideri altresì che, l’art. 2, comma 1, D. Lgs. 23/2015 (applicabile ratione temporis alla fattispecie dedotta in causa, posto che il lavoratore licenziato era stato assunto con un contratto apprendistato successivo all’8 marzo 2015) prevede che venga dichiarata la nullità del licenziamento, con le conseguenze sanzionatorie annesse a tale forma di invalidità, ove l’atto di recesso datoriale sia “riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”. E’ altresì noto che l’art. 1418 c.c., la cui disciplina è applicabile agli atti unilaterali ai sensi di quanto disposto dall’art. 1324 c.c., sancisca la nullità del contratto che sia contrario a norme imperative. Con riferimento alla natura di “norme imperative” da riconoscere alle disposizioni di legge che hanno sancito temporaneamente il c.d. “blocco dei licenziamenti”, la migliore dottrina, in proposito, insegna che “non sempre…soccorrono elementi letterali sufficientemente precisi, e allora per stabilire se una norma sia imperativa o dispositiva…bisogna indagare quale sia lo spirito della norma o, come anche si dice, la volontà del legislatore”. Ciò posto, la gravità della situazione sanitaria ed economica cui si faceva cenno in apertura, unite alla straordinarietà ed incisività dell’intervento legislativo che ha sancito il c.d. “blocco dei licenziamenti”, consentono agevolmente di ritenere che lo spirito delle norme in parola sia quello di tutelare l’ordine pubblico attraverso una protezione eccezionale di carattere sociale.

La decisione del caso concreto

E’ allora fin troppo scontato l’esito cui è pervenuto il Tribunale lombardo: è infatti indubbio che l’atto di recesso datoriale intimato per giustificato motivo oggettivo (chiusura di un reparto aziendale) durante il periodo temporale in cui, per ragioni di tutela degli interessi di rilevanza sovraindividuale poc’anzi evocati, è sancito temporaneamente il c.d. “blocco dei licenziamenti”, sia un atto contrario a “norme imperative”, con conseguente nullità dello stesso ai sensi dell’art. 1418 c.c.

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