Con ordinanza del novembre 2023 il Tribunale di Catania ha sollevato quattro questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, D. Lgs. 23/2015, ritenendo che esso sia in contrasto con una pluralità di disposizioni di rango costituzionale. Per quel che riguarda gli aspetti prettamente giuslavoristici, esso è censurato nella parte in cui non prevede che il Giudice possa annullare il licenziamento, e disporre la reintegrazione del lavoratore, nel caso di licenziamento intimato per un fatto per cui il CCNL prevede una sanzione di tipo conservativo. Il giudice rimettente, pertanto, dubita della legittimità costituzionale di una disciplina che, anche in caso di licenziamenti intimati per fatti aventi modesta rilevanza disciplinare, non idonei a compromettere la fiducia datoriale nell’esattezza dei futuri adempimenti e puniti per questo motivo con una sanzione di tipo conservativo, esclude che il lavoratore possa essere reintegrato nel posto di lavoro. Tale disciplina sarebbe pertanto irragionevole, appunto perché permetterebbe di risolvere il rapporto di lavoro in presenza di addebiti di modesto rilievo disciplinare. Osserva il Tribunale di Catania che “la disposizione censurata provocherebbe uno squilibrio irragionevole ed eccessivo in danno della posizione del lavoratore, che dovrebbe poter esplicare la propria attività lavorativa senza temere ingiuste o dannose ripercussioni, quale è certamente quella di essere espulso dal proprio ambiente lavorativo, pur a fronte di violazioni disciplinari di scarsa entità”.

Ripercorsa rapidamente – ma al contempo esaustivamente – l’evoluzione giurisprudenziale e normativa dell’istituto del licenziamento (fondamentale è il richiamo alla pronuncia n. 204/1982 della stessa Corte Costituzionale), la Consulta, in estrema sintesi, rileva innanzi tutto che un principio fondamentale che governa il licenziamento disciplinare è il principio di proporzionalità di cui all’art. 2106 c.c., che vuole appunto che la sanzione disciplinare, e quindi anche il licenziamento, sia commisurato alla gravità dell’addebito commesso dal lavoratore: “nella fattispecie in esame, non è in discussione l’applicazione di tale principio, né è dubbio che la sua violazione comporti che la causa del recesso datoriale non sia “giusta” (art. 2119 cod. civ.) o che il motivo soggettivo dello stesso non sia “giustificato” (art. 3 della legge n. 604 del 1966): il licenziamento, ove il giudice ritenga il difetto di proporzionalità, è certamente illegittimo”.

Pertanto, osserva la Corte, i profili di legittimità costituzionale di cui il giudice rimettente dubita riguardano unicamente il profilo sanzionatorio del licenziamento disciplinare illegittimo e, segnatamente, il fatto che la reintegrazione non trovi applicazione nel caso in cui il licenziamento sia sproporzionato perché intimato per un addebito di modesta rilevanza disciplinare. Ma, in proposito, “questa Corte ha più volte affermato – e qui ribadisce – che la reintegrazione non costituisce il solo e indefettibile modello di tutela del prestatore a fronte dell’illegittimità del licenziamento, che sia compatibile con la garanzia costituzionale del lavoro (art. 35 Cost.); il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, può operare una diversa scelta della disciplina di contrasto dei licenziamenti illegittimi sempre che risulti una tutela adeguata e sufficientemente dissuasiva (sentenza n. 7 del 2024). Questa Corte ha, infatti, sottolineato che la reintegrazione non costituisce «l’unico possibile paradigma attuativo» dei principi costituzionali (sentenze n. 125 del 2022; n. 59 del 2021 e n. 46 del 2000), in quanto «molteplici possono essere i rimedi idonei a garantire una adeguata compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato» (sentenza n. 254 del 2020)”.

Ribadito in ogni caso che il modello di tutela che il legislatore è costituzionalmente tenuto ad apprestare in caso di licenziamento illegittimo debba essere “adeguato” al fine di consentirgli di avere una effettiva efficacia dissuasiva (che, si osserva incidentalmente, è ontologicamente connaturata a qualsiasi “sanzione”, a prescindere dall’ambito giuridico in cui questa sia destinata a trovare applicazione). Adeguatezza dell’apparato rimediale e sufficiente efficacia dissuasiva del medesimo che, osserva la Consulta, “vanno valutate nel complesso e non già frazionatamente, tenendo quindi conto della gradualità e proporzionalità della sanzione che il legislatore, nell’esercizio non irragionevole della sua discrezionalità, ha previsto come differenziata, conservando la reintegrazione (unitamente ad un indennizzo senza tetto massimo) per i casi di più gravi violazioni, quali quello del licenziamento nullo o discriminatorio, e riservando agli altri casi la tutela indennitaria (con un tetto massimo) secondo il più incisivo criterio risultante dalle sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020” e che “sono requisiti che questa Corte ha già ritenuto sussistenti in riferimento all’indennità di cui all’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 sia per i licenziamenti individuali (sentenza n. 194 del 2018), che per i licenziamenti collettivi (sentenza n. 7 del 2024), anche in una prospettiva temporale, posto che il fluire del tempo giustifica l’applicazione di un trattamento differenziato a situazioni analoghe quando sia rispettato il canone della ragionevolezza”, anche in considerazione del fatto che, come già osservato con la pronuncia n. 148/1999 “la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale”. Pertanto, una volta disancorato – per effetto di quanto sancito con la pronuncia n. 194/2018 – il meccanismo di quantificazione dell’indennità risarcitoria che la ancorava rigidamente alla sola anzianità di servizio, così come originariamente previsto dall’art. 3 D. Lgs. 23/2015, l’apparto rimediale che ne risulta deve ritenersi, da un lato, idoneo a realizzare un equilibrato contemperamento degli interessi in conflitto, dall’altro, “un rimedio con adeguata efficacia deterrente in cui alla funzione riparatoria si affianca quella dissuasiva e sanzionatoria”.

Più delicata è la questione della possibile illegittimità costituzionale della disposizione in parola, per contrasto con l’art. 39 Cost., allorquando essa prevede che la reintegrazione sia esclusa in caso di licenziamento intimato per un fatto per cui la contrattazione collettiva prevede una sanzione conservativa.

Premesso che, “le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime solo perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (sentenza n. 42 del 2017), potendo questa Corte indicarne l’interpretazione adeguatrice, orientata alla conformità a Costituzione, sì da superare un dubbio di legittimità costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 41 e n. 36 del 2024, n. 183, n. 105, n. 46 e n. 10 del 2023)”, la Consulta osserva che ove la legge escludesse l’illegittimità (per sproporzione) di un licenziamento punito dalla contrattazione collettiva con una sanzione conservativa “comprimerebbe ingiustificatamente l’autonomia collettiva, il cui ruolo essenziale nella disciplina del rapporto di lavoro, privato e pubblico, è stato più volte riconosciuto da questa Corte (sentenze n. 53 del 2023, n. 153 del 2021, n. 257 del 2016 e n. 178 del 2015)” e sarebbe pertanto illegittima costituzionalmente.

Tuttavia, un’interpretazione adeguatrice della disposizione in parola se ne consente di escludere l’illegittimità costituzionale impone di equiparare l’ipotesi del fatto materiale insussistente a quella in cui il fatto è punito dalla contrattazione collettiva con una sanzione conservativa, posto che “in tali ipotesi, il fatto contestato è in radice inidoneo, per espressa pattuizione, a giustificare il licenziamento. Non vi è un fatto materiale che possa essere posto a fondamento del licenziamento, il quale, se intimato, risulta essere in violazione della prescrizione della contrattazione collettiva, sì che la fattispecie va equiparata a quella, prevista dalla disposizione censurata, dell’«insussistenza del fatto materiale», con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria attenuata”; pertanto, “la mancata previsione della reintegra nelle ipotesi in cui il fatto contestato sia punito con una sanzione conservativa dalle previsioni della contrattazione collettiva andrebbe ad incrinare il tradizionale ruolo delle parti sociali nella disciplina del rapporto e segnatamente nella predeterminazione dei canoni di gravità di specifiche condotte disciplinarmente rilevanti.

Una recente sentenza (la numero 15957/2024) della Cassazione parrebbe prospettare nuove e più ampie ipotesi di tutela del diritto della salute del lavoratore sul luogo di lavoro. Tale sentenza, a dire il vero, si colloca nel solco già tracciato da Cass. n. 3822/2024, Cass. n. 2084/2024; Cass. n. 2870/2024; Cass. n. 3791/2024; Cass. n. 3856/2024; Cass. n. 4664/2024.

Passando all’analisi della pronuncia, è noto che l’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di adottare tutte “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. L’inadempimento da parte del datore di lavoro di tale obbligo è fonte di responsabilità risarcitoria, ovviamente in presenza di un danno alla salute del lavoratore che in giudizio si provi essere sussistente e causalmente collegato con il predetto inadempimento.

Fermo quanto sopra, il mobbing è una fattispecie di creazione giurisprudenziale che ricorre in presenza di una pluralità di condotte persecutorie, o comunque pregiudizievoli per la salute del lavoratore, intenzionalmente e sistematicamente adottate dal datore di lavoro (o dai suoi rappresentanti) ed accomunate dall’intendimento di perseguitare, o di isolare dal contesto lavorativo, il lavoratore che ne è vittima.

Si è soliti distinguere altresì tra mobbing verticale e mobbing orizzontale: il primo ricorre quando le condotte lesive del diritto alla salute sono poste in essere da colui/coloro che, nel contesto organizzativo aziendale, è/sono gerarchicamente sovraordinato/i al lavoratore mobbizzato; il secondo invece ricorre quando le predette condotte sono attuate da colleghi gerarchicamente pari ordinati al lavoratore. In quest’ultimo caso, il datore di lavoro è responsabile in quanto non ha impedito che tali condotte venissero poste in essere in danno del lavoratore.

Pertanto, ed in sintesi, affinché possa configurarsi una fattispecie di mobbing sono necessari un elemento oggettivo (pluralità di condotte lesive adottate persistentemente) e un elemento soggettivo, rappresentato dall’intenzione di nuocere alla salute del lavoratore.

Con la sentenza n. 15957/2024 la Suprema Corte ha chiarito tuttavia che “un ambiente di lavoro stressogeno è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela al diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 c.c.”.

Pertanto, come già chiarito dalla Cassazione con la pronuncia n. 3822/2024 (https://www.studioclaudioscognamiglio.it/ambiente-di-lavoro-stressogeno-puo-essere-fonte-di-responsabilita-risarcitoria-per-il-datore-di-lavoro/), anche nel caso in cui non potessero ravvisarsi gli estremi di una fattispecie di mobbing, il Giudice è tenuto a “valutare e accertare l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute del ricorrente”, così riproducendo lo schema della responsabilità colposa del datore di lavoro (fonte per il medesimo di obbligo risarcitorio) che ricorre nel caso in cui quest’ultimo abbia colpevolmente tollerato, e quindi non abbia tentato di rimuovere, una condizione di lavoro lesiva della salute del lavoratore (si pensi ad un inquinante diffuso nell’aria dell’ambiente di lavoro). Anche a prescindere dall’intento persecutorio, quindi, il datore di lavoro è comunque “tenuto ad evitare situazioni stressogene che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità frustrazione personale o professionale” possano arrecare un danno alla salute del lavoratore (sul punto si vedano Cass. n. 18164/.2018 e Cass. 7844/2018).

Come accennato, quindi, si prospettano nuove ipotesi in cui il danno alla salute subito dal lavoratore può assumere rilevanza sul piano risarcitorio.

Con una recente sentenza (la numero 14089/2024) la Cassazione ha nuovamente affermato il principio secondo cui “per la durata delle ferie annuali deve essere mantenuta la retribuzione che il lavoratore percepisce in via ordinaria”.

Va precisato che la nozione della “retribuzione feriale”, cioè della retribuzione percepita durante la fruizione delle ferie, è fortemente incisa dall’interpretazione che la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha fornito dell’art. 7 della Direttiva n. 2003/88, a mente del quale “gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno 4 settimane, secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali”.

Come chiarito dalla CGUE in più occasioni (tra le altre, CGUE 15 settembre 2011, C-155/10, Williams; CGUE 13 dicembre 2018, C-385/17, Torsten Hein) si vuole assicurare al lavoratore che beneficia delle ferie, una “condizione retributiva” sostanzialmente equiparabile a quella che ricorre in caso di normale svolgimento della prestazione lavorativa; e ciò sul presupposto che “una diminuzione della retribuzione potrebbe essere idonea a dissuadere il lavoratore dall’esercitare il diritto alle ferie”, in contrasto con il principi di diritto dell’Unione Europea e con la stessa Costituzione italiana, che, come è noto, all’art. 36,  prevede che “il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”. Pertanto, qualsiasi disincentivo, anche indiretto, che possa appunto indurre il lavoratore a rinunciare alle ferie, o a tardarne la fruizione, è appunto incompatibile con gli obbiettivi perseguiti dal legislatore europeo, che vuole assicurare ai lavoratori il diritto ad un riposo effettivo anche al fine ultimo di tutelarne la salute e la sicurezza.

In applicazione di tali principi, ad esempio, con riferimento ad un dipendente di una compagnia aerea, facente parte del personale navigante, è stato ritenuto che dovesse rientrare nella nozione della retribuzione feriale anche l’indennità di volo integrativa, ordinariamente percepita dal lavoratore, con conseguente dichiarazione di nullità della clausola del CCNL applicato al rapporto che invece la escludeva dalla struttura della retribuzione feriale.

Pertanto, ha precisato la Cassazione, ove il lavoratore lamenti la mancata inclusione nella retribuzione feriale di una voce stipendiale ordinariamente corrispostagli, è necessario verificare “se l’importo pecuniario si ponga in rapporto di collegamento funzionale con l’esecuzione delle mansioni e sia correlato allo status personale e professionale di quel lavoratore”. Per tornare all’esempio più sopra menzionato, è evidente che l’indennità di volo non dovrà essere corrisposta a quei dipendenti della medesima compagnia aerea che non appartengono al “personale navigante” ma sono destinati a svolgere attività di handling: questi, non percependo tale indennità per effetto delle mansioni ordinariamente svolte, non avranno ovviamente diritto a percepirla durante la fruizione delle ferie.

Nel caso specifico deciso dalla Corte con la pronuncia n. 14089/2024 si discorreva della doverosità di ricomprendere nella retribuzione feriale di un lavoratore che svolgeva mansioni di “macchinista” la “indennità di utilizzazione professionale” e l’indennità per assenza dalla residenza, entrambe dirette a compensare “il disagio dell’attività tipica del dipendente viaggiante derivante dal non avere un luogo fisso di lavoro”. Posto che, ha affermato la Cassazione, tali indennità vengono corrisposte continuativamente al lavoratore, proprio perché immediatamente collegate alle mansioni tipiche del macchinista che “non ha una sede fissa di lavoro” e che è “continuativamente in movimento, lontano dalla sede formale di lavoro”, è necessari, allora, che la retribuzione feriale le ricomprenda; e ciò “in concordanza all’interpretazione conforme dalla citata giurisprudenza dell’Unione europea” ed “in linea con la finalità della direttiva (n.d.r. la n. 2003/88), recepita dal legislatore italiano, di assicurare nel periodo feriale un compenso che non possa costituire per il lavoratore un deterrente all’esercizio del suo diritto di fruire effettivamente del riposo annuale”.

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