Il caso

Il Tribunale di Monza ha ravvisato una fattispecie di mobbing posta in essere a danno del lavoratore; la Corte di Appello di Milano, invece, in riforma della sentenza di primo grado, ha escluso che le condotte vessatorie poste in essere in danno del lavoratore potessero integrare una fattispecie di mobbing.

Il lavoratore è pertanto ricorso in Cassazione.

La soluzione prospettata dalla Corte di cassazione con l’ordinanza n. 3822/2024

Va innanzi tutto premesso che l’ordinanza che qui viene brevemente commentata si colloca nel solco di altre sei recenti ordinanze (2084/2024; 2870/2024; 3791/2024; 3856/2024; 4664/2024) con cui la Suprema Corte ha apportato un contributo interpretativo fortemente innovativo al tema della tutela risarcitoria del lavoratore per la violazione della regola di cui all’art. 2087 c.c. Come è noto, tale disposizione di legge impone al datore di lavoro di adottare tutte “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Senza voler anticipare le conclusioni di questo breve scritto, non è azzardato affermare che, per effetto delle anzidette ordinanze – tutte pronunciate nei primi due mesi dell’anno 2024 – anche un ambiente lavorativo stressogeno, in determinate ipotesi, può essere fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro.

Ciò premesso, con riferimento al mobbing è principio consolidato quello secondo il quale tale articolata fattispecie si compone di un elemento oggettivo (costituito da una pluralità di reiterati comportamenti pregiudizievoli per la persona, interni al rapporto di lavoro) e da uno soggettivo (costituito dall’intendimento persecutorio nei confronti del lavoratore che accomuna le molteplici condotte, e ciò a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun singolo comportamento).

Fermo quanto sopra, la Corte ha fornito alcune indicazioni a cui i giudici di merito devono attenersi nel caso in cui il lavoratore lamenti di essere stato vittima di una condotta mobbizzante. Più nel dettaglio, la Cassazione ha affermato che “anche nel caso in cui dovesse essere confermata l’assenza degli estremi del mobbing, non verrebbe comunque meno la necessità di valutare e accertare l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute del ricorrente”. E ciò sulla falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro (fonte di obbligo risarcitorio) che si è soliti riconoscere allorquando quest’ultimo abbia tollerato indebitamente una condizione di lavoro lesiva della salute del lavoratore (sul punto si vedano Cass. n. 2692/2023 e Cass. n. 3291/2016). Ed ancora, richiamando alcuni propri precedenti, la Cassazione ha ribadito che, a prescindere dalla prova dell’intento persecutorio – inteso come minimo comune denominatore di una pluralità di condotte lesive – il datore di lavoro è comunque “tenuto ad evitare situazioni stressogene che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità frustrazione personale o professionale” possano arrecare un danno alla salute del lavoratore (sul punto si vedano Cass. n. 18164/2018 e Cass. 7844/2018).

Come per il mobbing, grava sul lavoratore l’onere di provare il danno alla salute ed il nesso di causalità tra questo e le situazioni stressogene che caratterizzano l’ambiente lavorativo; grava invece sul datore di lavoro l’onere di provare di aver adempiuto l’obbligo di adottare tutte le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica erano idonee ad evitare il determinarsi di tale peculiare ambiente di lavoro.

La “portata” di tale nuovo orientamento

E’ indubbio che per effetto di tale nuovo – ma per certi versi già consolidato – orientamento acquistano rilevanza ai fini risarcitori anche le disfunzioni organizzative che potrebbero derivare, ad esempio, da una aspra conflittualità dei rapporti tra colleghi di lavoro, o, comunque da quelle disfunzioni che sono tali da determinare un ambiente lavorativo stressogeno, nocivo e fonte di tangibili pregiudizi psico-fisici alla salute dei lavoratori (si pensi al caso di carichi di lavoro usuranti). Il datore di lavoro, infatti, ha l’obbligo di intervenire al fine di eliminare tali disfunzioni organizzative, posto che, ove venissero colpevolmente ignorate dal medesimo (indipendentemente dal fatto che esse siano isolatemolestie o integrino una fattispecie di mobbing orizzontale) e ove da tale inerzia derivasse un danno alla salute del lavoratore, quest’ultimo avrebbe diritto al relativo risarcimento. Con l’importante precisazione – che si rinviene però in Cass. 19 gennaio 2024, n. 2084 e in Cass. 19 ottobre 2023, n. 29101 – che la quantificazione del risarcimento sarà differenziata a seconda che si tratti di mobbing o di responsabilità colposa nel tollerare un ambiente lavorativo stressogeno: nell’ipotesi siano accertate condotte persecutorie adottate dolosamente e sistematicamente, il risarcimento sarà più sostanzioso rispetto al caso di una mera negligenza o imperizia datoriale nel non rimuovere, o nel tollerare, un ambiente lavorativo stressogeno.

Da questo punto di vista, verrebbe, dunque, in considerazione, in materia, un’ipotesi - di particolare interesse sul piano sistematico - di risarcimento aggravato dalla condotta, caratterizzato da una chiara coloritura sanzionatoria della condanna risarcitoria.

Cosa prevede la normativa

L’art. 10, comma 1°, D. Lgs. n. 22/2015 prevede testualmente che “il lavoratore che durante il periodo in cui percepisce la NASpI intraprenda un'attività lavorativa autonoma o di impresa individuale, dalla quale ricava un reddito che corrisponde” ad un importo prestabilito “deve informare l'INPS entro un mese dall'inizio dell'attività, dichiarando il reddito annuo che prevede di trarne”. L’art. 11, comma 1°, lett. c), del medesimo Decreto Legislativo prevede, poi, che il lavoratore decada dal diritto alla fruizione della NASpI nel caso di inottemperanza all’obbligo di comunicazione più sopra trascritto.

Il caso

Il disoccupato richiedente la NASpI aveva iniziato a svolgere un’attività di lavoro autonomo già prima della cessazione del rapporto di lavoro subordinato in relazione al quale aveva richiesto di fruire dell’indennità di disoccupazione; all’atto di tale richiesta, pertanto, egli ha omesso di comunicare all’INPS di star svolgendo un’attività di lavoro autonomo e, conseguentemente, il reddito annuo che prevedeva di trarne.

La domanda amministrativa dell’indennità di disoccupazione è stata rigettata dall’INPS.

Avverso tale rigetto ha proposto ricorso il lavoratore.

Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Torino hanno accolto la domanda del lavoratore ritenendo che nessuna decadenza potesse ritenersi intervenuta per non aver egli comunicato entra trenta giorni dalla presentazione della domanda amministrativa di NASpI il reddito che prevedibilmente avrebbe percepito per l’attività di lavoro autonomo intrapresa; e ciò perché tale attività era stata appunto intrapresa dal lavoratore precedentemente alla cessazione del rapporto di lavoro subordinato (cui poi è conseguita la richiesta della NASpI). Pertanto, a supporto della loro decisione i giudici del merito hanno valorizzato un’interpretazione rigorosamente letterale dell’art. 10, comma 1, D. Lgs. n. 22/2015 più sopra richiamato.

Avverso tale decisione della Corte di Appello ha proposto ricorso per Cassazione l’Ente previdenziale.

La soluzione prospettata dalla Corte di cassazione con l’ordinanza n. 1053/2024

La Corte muove innanzi tutto da una ricognizione della funzione dell’indennità di disoccupazione: essa è finalizzata ad assicurare temporaneamente una forma di assistenza ai lavoratori che, a causa della cessazione involontaria del rapporto di lavoro subordinato, si trovano nell’impossibilità di far ricorso a forme alternative di reddito da lavoro. La Cassazione passa poi ad analizzare la propria giurisprudenza in tema di indennità di disoccupazione, a mente della quale spetta al lavoratore collocato in cassa integrazione dare comunicazione preventiva all’INPS dello svolgimento di una nuova attività lavorativa, posto che l’omessa comunicazione fa decadere il lavoratore dal diritto alla relativa indennità.

La valorizzazione di quanto sopra, cioè della funzione oggettiva dell’indennità di disoccupazione e dell’analisi della giurisprudenza in fattispecie analoghe, inducono la Corte ad aderire alla tesi dell’INPS, una tesi che si fonda sul contenuto precettivo dell’art. 12 delle Preleggi[1] e che si sostanzia in una ricostruzione del disposto normativo che privilegia “l’intenzione del legislatore” rispetto a quella che, facendo leva su di un’interpretazione meramente letterale della legge, finisce per negare in radice la funzione dell’indennità di disoccupazione come forma di assistenza per quei lavoratori che non siano nelle condizioni di reperire aliunde reddito da lavoro. Più in particolare, la Corte afferma che (enfasi grafiche nostre) “il corretto significato delle parole ‘entro un mese dall’inizio dell’attività’ deve essere riferito alla data dello svolgimento dell’attività di lavoro autonomo rilevante ai fini della Naspi ossia dall’inizio della concomitanza dell’indennità Naspi e dell’attività di lavoro autonomo, cioè, dal momento della presentazione della domanda amministrativa, nel caso in cui lo svolgimento di attività di lavoro autonomo fosse stata intrapresa prima della data della cessazione del rapporto di lavoro subordinato che aveva dato corso al periodo di disoccupazione, senza quindi alcuna distinzione tra omessa e tardiva comunicazione oltre i trenta giorni e tra chi già aveva in corso, al momento della domanda di Naspi, un’attività di lavoro autonomo e chi la inizia dopo aver cominciato ad usufruire della Naspi”.


[1] Il quale così dispone: “nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato”.

Il caso

Un lavoratore, impiegato all’interno di un negozio di abbigliamento in qualità di capo-commesso, viene licenziato per giusta causa. Gli vengono contestati una pluralità di addebiti, il più grave dei quali è rappresentato dall’aver avuto, all’interno del negozio, un acceso diverbio con una dipendente, in occasione del quale il lavoratore in questione ha strattonato per il braccio la dipendente, impedendole di allontanarsi dal luogo della discussione.

Tale contestazione disciplinare era stata peraltro preceduta da altre contestazioni disciplinari, ognuna delle quali conclusasi con una sanzione disciplinare di tipo conservativo e comunque impugnate giudizialmente dal lavoratore che – evidentemente – le riteneva ingiuste ed illegittime.

Se il Tribunale di Padova ha ritenuto non integrata la giusta causa di recesso, e purtuttavia sussistente il fatto contestato, con conseguente applicazione del regime sanzionatorio di cui all’art. 18, comma 5, L. n. 300/1970, la Corte d’Appello di Venezia ha invece ritenuto di poter ravvisare un indizio dell’intento ritorsivo della società recedente nell’assenza di proporzionalità tra la sanzione espulsiva e la gravità dell’addebito, con conseguente dichiarazione di nullità del recesso e applicazione del regime sanzionatorio che prevede la reintegrazione del posto di lavoro e la corresponsione al lavoratore delle retribuzioni medio tempore maturate dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegrazione.

La soluzione prospettata dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 741/2024

La Corte muove innanzi tutto da una ricognizione “teorica” del licenziamento ritorsivo attraverso il richiamo ad alcuni, propri precedenti: esso è “l’ingiusta ed arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore...che attribuisce al licenziamento il connotato dell’ingiustificata vendetta” (in questi termini esatti Cass. n. 17087/2011 e Cass. n. 24648/2015 richiamate dalla pronuncia che qui si brevemente si annota). Si tratta di una costruzione giurisprudenziale che si fonda sull’applicabilità agli atti unilaterali, quali il licenziamento, della norma di cui all’art. 1345 c.c., cioè di quella disposizione che “derogando al principio secondo il quale i motivi dell’atto di autonomia privata sono di regola irrilevanti, eccezionalmente qualifica illecito il contratto determinato da un motivo illecito comune alle parti”; con l’ulteriore precisazione che il licenziamento è ritorsivo se è finalizzato “esclusivamente al perseguimento di scopi riprovevoli ed antisociali, rinvenendosi l’illiceità del motivo, al pari della illiceità della causa, a mente dell’articolo 1343 cod. civ., nella contrarietà dello stesso a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume”.

Il licenziamento ritorsivo, che è fattispecie diversa e distinta da quella del licenziamento discriminatorio (sul tema si rinvia a https://www.studioclaudioscognamiglio.it/alcuni-principi-in-materia-di-licenziamento-discriminatorio/) è quindi tale se, e nella misura in cui, integra un motivo illecito determinante: in altri termini, deve potersi rinvenire nel motivo illecito un’“efficacia determinativa esclusiva” della volontà datoriale di recedere, essendo richiesta “la prova che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso e idonei a configurare un’ipotesi di legittima risoluzione del rapporto”. E, precisa la Suprema Corte, trattandosi di un onere probatorio (che logicamente incombe sul lavoratore) particolarmente difficoltoso, potrà essere assolto tramite il ricorso a presunzioni “tra le quali presenta un ruolo non secondario anche la dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole”.

Si potrebbe obiettare che si tratta di una prova talmente difficile da fornire da risultare “quasi diabolica” per il lavoratore, posto che, per escludere la sussistenza di un motivo illecito determinante, sarebbe sufficiente per il datore di lavoro provare un qualsiasi fatto, pur se avente tenue rilievo disciplinare, per far sì che l’intento ritorsivo dell’espulsione del lavoratore dal contesto produttivo non venga in rilievo: in tale ipotesi, infatti, il licenziamento sarebbe senz’altro illegittimo, perché non sorretto da una valida causa di recesso, ma l’intento ritorsivo rimarrebbe appunto celato. Ma così non è, chiarisce la Corte, perché se “la concreta valutazione della gravità dell’addebito nel senso della sproporzione della sanzione espulsiva...può avere rilievo presuntivo, non può tuttavia portare a giudicare automaticamente ritorsivo il licenziamento, occorrendo, perché il motivo illecito possa assurgere a fattore unico e determinante che la ragione addotta e comprovata risulti meramente formale o apparente o sia, comunque, tale, per le concrete circostanze di fatto o per la modestissima rilevanza disciplinare, da degradare a semplice pretesto per l’intimazione del licenziamento, si che questo risulti non solo sproporzionato ma volutamente punitivo”.

Pertanto, riformando la sentenza della Corte di Appello di Venezia, con la pronuncia che qui si è brevemente commentata la  Cassazione ha chiarito che per poter ritenere sussistente un motivo illecito determinate, rectius, un motivo ritorsivo, non è sufficiente ravvisare la mera sproporzione tra la gravità dell’inadempimento del lavoratore e il licenziamento, “ma è necessario che la prova presuntiva poggi su elementi ulteriori, come l’elevato grado di sproporzione della sanzione espulsiva, anche rispetto alla scala valoriale espressa dalla contrattazione collettiva, idonei a giustificare la collocazione dell’atto datoriale nella sfera della illiceità, anziché in quella della illegittimità”.

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