Il caso
Un lavoratore assunto a tempo indeterminato, padre di una bambina minore di anni 12, richiedeva al proprio datore di lavoro il permesso di fruire del congedo parentale per la mattinata di tre distinte, e consecutive, giornate lavorative.
Accordato il permesso richiesto, anche a causa del disagio organizzativo che la fruizione del congedo parentale avrebbe – inevitabilmente – arrecato all’organizzazione produttiva, il datore di lavoro disponeva accertamenti investigativi al fine di verificare il corretto utilizzo dei permessi da parte del lavoratore. All’esito di tali accertamenti, ritenuto configurabile un improprio utilizzo del congedo parentale, e dunque un abusivo esercizio del relativo di diritto, o, se si preferisce, un esercizio contrario a buona fede e correttezza, il datore di lavoro ha disposto il licenziamento per giusta causa del lavoratore.
La disciplina dettata dall’art. 32 D. Lgs. n. 151/2001
Il Tribunale di Perugia, dinanzi al quale il licenziamento viene impugnato, muove innanzi tutto da una ricognizione della disciplina di legge che regola la fruizione dei congedi parentali: l’art. 32 D. Lgs. n. 151/2001 dispone che “1. Per ogni bambino, nei primi suoi dodici anni di vita, ciascun genitore ha diritto di astenersi dal lavoro secondo le modalità stabilite dal presente articolo. I relativi congedi parentali dei genitori non possono complessivamente eccedere il limite di dieci mesi, fatto salvo il disposto del comma 2 del presente articolo.
Nell'ambito del predetto limite, il diritto di astenersi dal lavoro compete:
a) alla madre lavoratrice, trascorso il periodo di congedo di maternità di cui al Capo III, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi;
b) al padre lavoratore, dalla nascita del figlio, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi, elevabile a sette nel caso di cui al comma 2”.
La decisione del Tribunale calibrata sul caso concreto.
Accertato che, nel caso di specie, la fruizione del congedo parentale non eccedeva i limiti quantitativi stabiliti dall’articolo di legge più sopra trascritto, la decisione del Tribunale di Perugia si è incentrata sulla valorizzazione delle circostanze di fatto emerse dagli accertamenti investigativi disposti dal datore di lavoro, circostanze che hanno connotato le modalità concrete di fruizione del congedo da parte del lavoratore.
E’ infatti emerso che il lavoratore – sulla base di quanto ammesso dallo stesso datore di lavoro – in ognuna delle tre giornate in cui ha fruito del congedo, dopo aver accompagnato a scuola la propria figlia nelle prime ore della mattina, ha poi trascorso tutta la mattinata nella propria abitazione, essendone uscito solo per andare a prelevare la figlia dalla scuola all’incirca verso l’ora di pranzo. In una di queste mattinate, poi, il lavoratore si è recato al supermercato per fare alcuni acquisti.
Ritiene quindi il Tribunale che la suddetta, concreta modalità di fruizione del congedo “non abbia ecceduto la cornice del legittimo esercizio del diritto potestativo di cui all’art. 32, comma 1, lett. b del d. lgs. n. 151 del 2001” con conseguente dichiarazioni di nullità del licenziamento e reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi di quanto disposto dall’art. 2 D. Lgs. n. 23/2015. Ciò perché, ha rilevato il Tribunale, l’aver dedicato tempo, presso il supermercato, “all’acquisto di generi alimentari necessari per la famiglia, appare evidentemente posto in diretta correlazione con la cura dei bisogni anche della prole”. Analogamente, ha affermato il Giudice umbro, il tempo trascorso nella propria abitazione – ricompreso tra il momento in cui egli ha accompagnato la propria figlia a scuola e quello, ovviamente successivo, in cui è andato a riprenderla – “in difetto di una prova concreta dello sviamento del congedo dalla sua funzione tipica” è appunto compatibile con il congedo parentale, sulla base della considerazione empirica per cui è “fatto notorio che la casa, dove si svolge gran parte del tempo della prole nei primi anni di vita, necessiti, specie nei primi anni di vita del bambino, di un continuo lavoro destinato al riassetto e all’igiene e ciò anche al fine di apprestare un luogo confortevole e consono alla crescita del minore...anche nella prospettiva di un’agevolazione della madre per la ripresa dell’attività di lavoro (risulta, nel caso di specie, documentata la circostanza che la medesima, nel tempo di fruizione di congedi da parte del lavoratore avesse, almeno in parte, fissato il turno di lavoro)”.
Pertanto, affinché possa ritenersi illegittima la fruizione del congedo parentale, è necessaria la prova che essa sia preordinata allo svolgimento di attività che non hanno alcun nesso, nemmeno in senso lato, con la cura della prole e della famiglia; è necessaria, detto altrimenti, “la prova concreta dello sviamento del congedo dalla sua funzione tipica”.
Il caso
Un lavoratore, con mansioni di autotrasportatore, ha convenuto in giudizio il datore di lavoro per vedere riconosciuto il proprio credito a titolo di differenze retributive, posto che, nel corso del pluriennale rapporto di lavoro (2001-2020), sarebbe stata mensilmente corrisposta in suo favore una retribuzione inferiore a quella prevista dal CCNL applicato al rapporto.
Si è costituita la società convenuta, sostenendo, tra le altre cose, la necessità di rigettare il ricorso del lavoratore in ragione dell’intervenuta sottoscrizione in sede sindacale, nell’anno 2017, di un accordo transattivo con il quale il lavoratore, in cambio della somma di euro 100,00, aveva rinunciato a richiedere al datore di lavoro tutte le pregresse differenze retributive.
La disciplina dettata dall’art. 2113 c.c. in materia di conciliazioni
La sentenza che qui brevemente si commenta muove dall’analisi della consolidata giurisprudenza della Cassazione in merito all’art. 2113 del Codice civile. Come è noto, tale articolo prevede che le rinunzie e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro che derivano di disposizioni inderogabili di legge o del contratto collettive sono invalide. L’impugnazione diretta a far valere tale invalidità deve essere proposta, a pena di decadenza, nel termine di sei mesi dalla cessazione del rapporto, oppure, se intervenuta successivamente alla cessazione del rapporto, dalla data della sottoscrizione della conciliazione. Il quarto comma, però, prevede che tali rinunzie e transazioni siano invece valide ove vengano sottoscritte in quelle che si è comunemente soliti definire come “sedi protette”; esse sono: la sede giudiziale (nell’ambito di una causa già incardinata dinanzi ad un dato giudice, cfr. art. 185 c.p.c.), la commissione di conciliazione istituita presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro (art. 410 c.p.c.), la sedi di certificazione dei contratti (art. 31, co. 13, L. n. 183/2010), i collegi di conciliazione ed arbitrato irrituali (art. 412-quater c.p.c.), la commissione di conciliazione istituita presso la sede sindacale (412-ter c.p.c.).
Come chiarito dal Tribunale di Bergamo, le rinunzie e le transazioni sottoscritte presso le c.d. “sedi protette” sono valide perché queste sedi – ontologicamente – offrono maggiore “garanzia e protezione in ordine alla presenza di volontà effettiva in capo alla parte debole di aderire al testo dell’accordo, cosicché la medesima, scevra da pressioni e/o raggiri, sia in grado di vagliare liberamente i benefici eventualmente conseguibili alla stipula e, dunque, prestare il proprio sentito consenso”.
Le ipotesi in cui le transazioni in questione sono valide e non sono impugnabili sono un’eccezione alla regola della loro tendenziale invalidità stabilita dal primo comma dell’art. 2113 c.c.; per questo motivo sono tassative, fondandosi altresì sul presupposto che il soggetto terzo dinanzi al quale sono sottoscritte sia un “soggetto idoneo a tutelare il lavoratore (parte debole del rapporto di lavoro) nella genuina formazione della sua volontà transattiva o di rinuncia”. Ne deriva che, affinché la conciliazione stipulata in sede sindacale possa effettivamente rientrare nel novero delle conciliazioni inoppugnabili e definitive è necessario che nell’accordo transattivo sia innanzi tutto individuata la res litigiosa (cioè la lite da definire o da prevenire), che contenga lo scambio tra le parti di reciproche concessioni e che l’accordo sia stato raggiunto “con un’effettiva assistenza del lavoratore da parte di esponenti dell’organizzazione sindacale indicati dal medesimo, dovendosi valutare, a tal fine, se, in relazione alle concrete modalità di espletamento della conciliazione, sia stata correttamente attuata la funzione di supporto che la legge assegna al sindacato nella fattispecie conciliativa” (in questi termini, Cass. sez. lav. n. 13127 del 22 maggio 2008).
La soluzione prospettata dal Tribunale di Bergamo
Poste queste premesse, nel caso di specie il Tribunale ha accertato che:
Pertanto, accertata l’assenza di una compiuta individuazione della res litigiosa, ed accertata altresì l’assenza di alcuna effettiva assistenza del sindacato volta a supportare il lavoratore nella dismissione dei propri diritti, il Tribunale ha negato che la conciliazione in questione potesse essere ricondotta al novero di quelle inoppugnabili, con il corollario che, essendo stata impugnata tempestivamente dal lavoratore (entro i sei mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro), essa è stata ritenuta inefficace, ponendo così la necessità di approfondire la domanda con cui il ricorrente ha chiesto venisse condannato il datore di lavoro alle differenze retributive.
La pronuncia del Tribunale di Bergamo, quindi, mette in guardia i datori di lavoro dal ricorso – a volte eccessivamente disinvolto – allo strumento della conciliazione formulata in sede sindacale: in mancanza di quei presupposti più sopra menzionati (che la Cassazione ritiene essere imprescindibili), essa, anche se stipulata in sede sindacale, non è di per sé idonea a “sterilizzare” ipotetiche richieste dal lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili della legge o del contratto collettivo.
Il caso
Il Tribunale di Monza ha ravvisato una fattispecie di mobbing posta in essere a danno del lavoratore; la Corte di Appello di Milano, invece, in riforma della sentenza di primo grado, ha escluso che le condotte vessatorie poste in essere in danno del lavoratore potessero integrare una fattispecie di mobbing.
Il lavoratore è pertanto ricorso in Cassazione.
La soluzione prospettata dalla Corte di cassazione con l’ordinanza n. 3822/2024
Va innanzi tutto premesso che l’ordinanza che qui viene brevemente commentata si colloca nel solco di altre sei recenti ordinanze (2084/2024; 2870/2024; 3791/2024; 3856/2024; 4664/2024) con cui la Suprema Corte ha apportato un contributo interpretativo fortemente innovativo al tema della tutela risarcitoria del lavoratore per la violazione della regola di cui all’art. 2087 c.c. Come è noto, tale disposizione di legge impone al datore di lavoro di adottare tutte “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Senza voler anticipare le conclusioni di questo breve scritto, non è azzardato affermare che, per effetto delle anzidette ordinanze – tutte pronunciate nei primi due mesi dell’anno 2024 – anche un ambiente lavorativo stressogeno, in determinate ipotesi, può essere fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro.
Ciò premesso, con riferimento al mobbing è principio consolidato quello secondo il quale tale articolata fattispecie si compone di un elemento oggettivo (costituito da una pluralità di reiterati comportamenti pregiudizievoli per la persona, interni al rapporto di lavoro) e da uno soggettivo (costituito dall’intendimento persecutorio nei confronti del lavoratore che accomuna le molteplici condotte, e ciò a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun singolo comportamento).
Fermo quanto sopra, la Corte ha fornito alcune indicazioni a cui i giudici di merito devono attenersi nel caso in cui il lavoratore lamenti di essere stato vittima di una condotta mobbizzante. Più nel dettaglio, la Cassazione ha affermato che “anche nel caso in cui dovesse essere confermata l’assenza degli estremi del mobbing, non verrebbe comunque meno la necessità di valutare e accertare l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute del ricorrente”. E ciò sulla falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro (fonte di obbligo risarcitorio) che si è soliti riconoscere allorquando quest’ultimo abbia tollerato indebitamente una condizione di lavoro lesiva della salute del lavoratore (sul punto si vedano Cass. n. 2692/2023 e Cass. n. 3291/2016). Ed ancora, richiamando alcuni propri precedenti, la Cassazione ha ribadito che, a prescindere dalla prova dell’intento persecutorio – inteso come minimo comune denominatore di una pluralità di condotte lesive – il datore di lavoro è comunque “tenuto ad evitare situazioni stressogene che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità frustrazione personale o professionale” possano arrecare un danno alla salute del lavoratore (sul punto si vedano Cass. n. 18164/2018 e Cass. 7844/2018).
Come per il mobbing, grava sul lavoratore l’onere di provare il danno alla salute ed il nesso di causalità tra questo e le situazioni stressogene che caratterizzano l’ambiente lavorativo; grava invece sul datore di lavoro l’onere di provare di aver adempiuto l’obbligo di adottare tutte le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica erano idonee ad evitare il determinarsi di tale peculiare ambiente di lavoro.
La “portata” di tale nuovo orientamento
E’ indubbio che per effetto di tale nuovo – ma per certi versi già consolidato – orientamento acquistano rilevanza ai fini risarcitori anche le disfunzioni organizzative che potrebbero derivare, ad esempio, da una aspra conflittualità dei rapporti tra colleghi di lavoro, o, comunque da quelle disfunzioni che sono tali da determinare un ambiente lavorativo stressogeno, nocivo e fonte di tangibili pregiudizi psico-fisici alla salute dei lavoratori (si pensi al caso di carichi di lavoro usuranti). Il datore di lavoro, infatti, ha l’obbligo di intervenire al fine di eliminare tali disfunzioni organizzative, posto che, ove venissero colpevolmente ignorate dal medesimo (indipendentemente dal fatto che esse siano isolatemolestie o integrino una fattispecie di mobbing orizzontale) e ove da tale inerzia derivasse un danno alla salute del lavoratore, quest’ultimo avrebbe diritto al relativo risarcimento. Con l’importante precisazione – che si rinviene però in Cass. 19 gennaio 2024, n. 2084 e in Cass. 19 ottobre 2023, n. 29101 – che la quantificazione del risarcimento sarà differenziata a seconda che si tratti di mobbing o di responsabilità colposa nel tollerare un ambiente lavorativo stressogeno: nell’ipotesi siano accertate condotte persecutorie adottate dolosamente e sistematicamente, il risarcimento sarà più sostanzioso rispetto al caso di una mera negligenza o imperizia datoriale nel non rimuovere, o nel tollerare, un ambiente lavorativo stressogeno.
Da questo punto di vista, verrebbe, dunque, in considerazione, in materia, un’ipotesi - di particolare interesse sul piano sistematico - di risarcimento aggravato dalla condotta, caratterizzato da una chiara coloritura sanzionatoria della condanna risarcitoria.