Il Tribunale di Ravenna solleva questione di legittimità costituzionale della norma.
Il caso
Un lavoratore assunto da un’agenzia di somministrazione con contratto di lavoro a tutele crescenti viene licenziato per giustificato motivo oggettivo. Il Giudice accerta il mancato rispetto da parte del datore di lavoro dell’obbligo di repechage, al cui adempimento sono tenute (in ossequio a quanto statuito da Cass. n. 10435/2018 e Cass. n. 32159/2018) anche le agenzie di somministrazione che licenziano un lavoratore per g.m.o. Queste ultime, afferma il Tribunale di Ravenna, in caso di assenza di missioni idonee per il lavoratore assunto a tempo indeterminato, devono comunque fornire la prova in giudizio degli elementi costitutivi del licenziamento addotto a fondamento del recesso, tra cui si è soliti annoverare, per l’appunto, il repechage[1].
Il licenziamento per g.m.o.
Per poter argomentare la rimessione alla Consulta della questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, D. Lgs. n. 23/2015, il Tribunale romagnolo descrive rapidamente la fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, così come venutasi a delineare in ragione dei più recenti arresti giurisprudenziali della Suprema Corte. Tale ricognizione può essere utile anche ai nostri fini.
Elementi costitutivi dell’anzidetta fattispecie di licenziamento sono i seguenti:
L’attuale disciplina del D. Lgs. n. 23/2015
L’art. 3 del D. Lgs. 23/2015 prevede che nei casi in cui non ricorrano gli estremi del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, per giusta causa e per giustificato motivo oggettivo, “il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità”.
Il secondo comma del medesimo articolo prevede che “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria” il cui ammontare massimo non può superare le 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto e da cui comunque va detratto l’evenutale aliunde perceptum nonché l’aliunde percipiendum.
La questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Ravenna
Il Tribunale dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3 del D. Lgs. n. 23/2015 nella parte in cui prevede che, nell’ipotesi in cui il Giudice abbia accertato l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per g.m.o. (insussistenza che è tale quando non sia stato provato in giudizio uno degli elementi costitutivi di tale fattispecie più sopra menzionati, cfr. Cass. n. 29102 e Corte Cost. n. 125/2022), sia esclusa la reintegrazione nel posto di lavoro e sia dovuta dal datore di lavoro unicamente un’indennità risarcitoria, diversamente dall’ipotesi in cui sia stata accertata l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento disciplinare, posto che, in tale ultimo caso, al contrario, trova applicazione il rimedio reintegratorio con un’indennità risarcitoria limitata nell’ammontare massimo.
Le ragioni che inducono il Tribunale a ritenere che tale disposizione di legge sia in contrasto con la Costituzione sono molteplici e sono argomentate in maniera approfondita, con ripetuti rimandi a precedenti della Corte Costituzionale e ad altre regole vigenti nell’ordinamento (non solo lavoristico). Il tutto, con un metodo esegetico sistematico che consente all’ordinanza che qui brevemente si commenta di descrivere con puntuale lucidità gli aspetti maggiormente critici della disposizione di cui all’art. 3 D. Lgs. 23/2015, nonché di contrastare in via preventiva, per quanto possibile, le repliche ai dubbi di legittimità costituzionale espresse dal Giudice rimettente. Per esigenze di sintesi, tuttavia, tali ragioni saranno qui solo brevemente tratteggiate.
In primo luogo, il Tribunale ritiene che la prevista diversità di rimedi possibili in caso di licenziamento illegittimo (quello reintegratorio e quello meramente indennitario) “tra il caso del licenziamento per motivo soggettivo e per motivo oggettivo, in relazione all'ipotesi in cui entrambi risultino accertati dal giudice come giustificati su fatti insussistenti, appare ingiustamente discriminatoria, essendo al contrario i due fenomeni identici o, se non altro, assolutamente omogenei”. Tale assetto realizzerebbe una violazione dell’art. 3, comma 1°, Cost., e segnatamente dei principi di uguaglianza e ragionevolezza, posto che, se è vero, come è vero, che “a partire dalla riforma del 2012 la strada scelta dal legislatore in tema di tutele avverso i licenziamenti illegittimi è stata nel senso di graduazione delle tutele”, per cui ad un vizio di illegittimità più grave corrisponde un regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo maggiormente satisfattivo per il lavoratore, “a parità di gravità del vizio deve necessariamente corrispondere un uguale trattamento sanzionatorio. E questo vieppiù in presenza di una identità di vizi, che corrisponde all’ipotesi in cui il giudice accerti che il fatto (soggettivo o oggettivo) posto alla base del recesso non esiste”.
A differenza di quanto previsto dalla L. n. 92/2012, nell’ambito della quale, in caso di insussistenza del fatto posto a base del recesso per g.m.o., il rimedio ripristinatorio avrebbe potuto comunque trovare applicazione (pur essendo rimesso alla discrezionalità del Giudice, almeno prima di quanto statuito da Corte Cost. 59/2021, e pur essendo richiesto, almeno prima di quanto statuito da Corte Cost. 125/2022[2], una sorta di aggravio probatorio espresso dalla qualifica di “manifesta” che doveva presentare l’insussistenza dei presupposti fondanti il licenziamento), nel D. Lgs. n. 23/2015 si rinviene “una scelta a monte di preclusione della reintegra per il caso di licenziamento per g.m.o.”, con il corollario, appunto ritenuto irragionevole, che “tale differenza di tutele sarebbe determinata dalla mera, insindacabile e libera scelta del datore di lavoro di qualificare in un modo o nell’altro l’atto espulsivo dallo stesso adottato e rivelatosi poi del tutto pretestuoso”. Con l’ulteriore precisazione, rileva il Tribunale, che tale disciplina parrebbe porsi in contrasto con quanto statuito dalla stessa Consulta con la pronuncia n. 59/2021, allorquando è stato affermato che “l’esercizio arbitrario del potere di licenziamento, sia quando adduce a pretesto un fatto disciplinare inesistente sia quando si appella a una ragione produttiva priva di ogni riscontro, lede l’interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale e si risolve in una vicenda traumatica che vede direttamente implicata la persona del lavoratore. L’insussistenza del fatto, pur con le diverse gradazioni che presenta nelle singole fattispecie di licenziamento, denota il contrasto più stridente con il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro, che questa Corte ha enunciato sulla base degli artt. 4 e 35 Cost. (sentenza n. 41 del 2003, punto 2.1. del Considerato in diritto)”. Del resto, sostiene ancora il giudice rimettente, nella giurisprudenza di legittimità è chiarissimo che “non è il titolo astratto di licenziamento a dover essere oggetto di valutazione giudiziale in punto di conseguenze sanzionatorie dell’illecito, bensì è il solo motivo in concreto accertato dal giudice nel corso del processo a potere determinare la tutela spettante”; e tuttavia “nel decreto n. 23 questo non avviene e quindi l’individuazione della tutela applicabile rispetto ad una ipotesi di vizio identica (licenziamento, sia esso fondato su motivo soggettivo che oggettivo, completamente ingiustificato per insussistenza del presupposto costitutivo della relativa fattispecie), o se si preferisce altamente omogenea, spetta non al giudice, bensì ad una delle parti”.
Né, al fine di escludere “l’irrazionalità assoluta” di tale assetto, rileverebbe che l’indennizzo monetario previsto per il caso di licenziamento per g.m.o. illegittimo possa essere superiore nel massimo (36 mensilità) all’importo dell’eventuale monetizzazione della reintegrazione (12+15 mensilità) in quanto solo la reintegra, secondo il giudice romagnolo, “offre possibilità ed utilità compensative (produzione di reddito futuro, mantenimento della professionalità, ristabilimento della dignità del lavoratore e ritorno in azienda, con alleviamento dei pregiudizi non patrimoniali ordinariamente subiti dal licenziamento; risarcimento integrale del danno previdenziale) incomparabili con quelle del solo indennizzo monetario”. In sostanza, conclude il Giudice rimettente, si pone un problema di ragionevolezza della disciplina in esame, posto che le conseguenze sanzionatorie per un fatto illegittimo ed illecito dipendono “dalla mera qualificazione giuridica utilizzata da una delle parti del rapporto, senza dare rilievo alla realtà quale risultante dagli accertamenti processuali compiuti dal giudice”, il cui risultato finale è quello di produrre “non solo un minore effetto deterrente” al licenziamento, “bensì un effetto addirittura ammiccante l’illecito nel momento in cui gli si concede la possibilità di impedire la reintegrazione (altrimenti dovuta) semplicemente qualificando in un certo modo piuttosto che in un altro un motivo – comunque inesistente – di licenziamento”.
Il secondo vizio di legittimità costituzionale che il giudice rimettente ritiene di poter ravvisare attiene al contrasto della disciplina de qua con gli art. 3, 35 e 41 della Costituzione. E’ un vizio che lo stesso giudice definisce “complesso e poliedrico”.
Il Tribunale imputa infatti al Legislatore del 2015 un “errato bilanciamento dei valori costituzionali in tema di lavoro e impresa, nonché della violazione del principio di uguaglianza, formale e sostanziale”. Pur essendo consapevole che la Consulta, con la fondamentale pronuncia n. 46/2000 e, da ultimo, con la pronuncia n. 194/2018, ha più volte ribadito che “il legislatore ben può, nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011), purché tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza”, posto che “il diritto alla stabilità del posto…non ha una propria autonomia concettuale, ma è nient’altro che una sintesi terminologica deli limiti del potere di licenziamento sanzionati dall’invalidità dell’atto non conforme (sentenza n. 268 del 1994, punto 5. del Considerato in diritto”, il giudice rimettente ritiene che un “esame complessivo e sinergico dei rimedi (indennizzo monetario e reintegra) spettanti al lavoratore così come delineato dal decreto n. 23, in rapporto a tutti i valori costituzionali in gioco ed in particolare dei principi personalistico e lavoristico, nell’ipotesi di imprese di maggiori dimensioni e in relazione a vizi dell’atto risolutorio talmente gravi da far dubitare della meritevolezza dell’interesse del datore di lavoro ad avere un trattamento risarcitorio ingiustamente favorevole” sia ingiustificato in sé e per sé, posto che non sarebbe “il mero richiamo alla regola della discrezionalità legislativa in materia (“tempi e modi”) a poter giustificare una qualunque disciplina in un qualunque momento storico, ma è invece il grado di attuazione della Carta, come registrato dall’evoluzione giuridica e sociale, ad influire sulla discrezionalità del legislatore del momento in cui deve valutarsi la costituzionalità di una norma.
Ciò che poteva essere costituzionale secondo una interpretazione del 1965 (o del 2000) può non esserlo nel 2024 se la società nel frattempo si è evoluta e se i principi costituzionali sono stati nel frattempo attuati, divenendo sul punto anche problematico immaginare un percorso di de-attuazione della Costituzione”. Prosegue il Tribunale romagnolo rilevando come siano molteplici i diritti, “un tempo impensabili”, che l’evoluzione della sensibilità sociale e giuridica ha fatto emergere nel corso del tempo: dai diritti di credito, alla tutela del danno non patrimoniale anche al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge (purché venga in rilievo la lesione di beni costituzionalmente protetti); dai diritti sorti a tutela della professionalità del lavoratore a quelli rivolti alla tutela dell’ambiente di lavoro; dall’evoluzione dei principi risarcitori del danno che fa sì che alla responsabilità civile, con i dovuti accorgimenti, oggigiorno non sia completamente estranea una funzione di deterrenza e comunque sanzionatoria dell’illecito, all’evoluzione in tema dei danni concretamente risarcibili in caso di licenziamento illegittimo.
Quanto sopra, sostiene il giudice ravennate, al fine ultimo di valutare l’adeguatezza dell’indennizzo meramente monetario previsto dal D. Lgs. n. 23/2015 in caso di licenziamento per g.m.o. di cui sia stata accertata l’illegittimità, considerato che, da un lato, “lo strumento della reintegrazione va a compensare anche danni afferenti alla fera non patrimoniale del lavoratore, in ciò attuandosi sul punto il disposto dell’art. 2, Cost. e risultandone quindi un risarcimento anche per tale aspetto già di per sé maggiormente adeguato per il lavoratore”, e, dall’altro, che l’indennizzo monetario in questione parrebbe “riferito e limitato ai soli danni patrimoniali”.
A parere del Tribunale, quindi, il sistema dei rimedi approntato dal D. Lgs. n. 23/2015 non sarebbe idoneo a compensare adeguatamente il lavoratore dei molteplici danni astrattamente producibili dal licenziamento illegittimo e, al contempo, non sarebbe idoneo a dissuadere il datore di lavoro dall’intimazione di un “licenziamento oggettivo” privo di giustificazione; e ciò perché la previsione di un rimedio meramente indennitario, essendo scarsamente “penalizzante”, non avrebbe alcuna effettiva efficacia deterrente. Fatto ricorso ad alcuni esempi pratici inerenti le possibili (asfittiche) condizioni del mercato del lavoro in alcuni territori d’Italia, considerata altresì la attuale, duratura e generale congiuntura economica sfavorevole e valutato come tale circostanze di fatto possano potenzialmente incidere, dilatandola a dismisura, sulla gravità del danno previdenziale che il lavoratore illegittimamente licenziato potrebbe venire a subire, il giudice romagnolo ritiene dimostrata “l’inattitudine (non certamente teorica) dell’indennizzo con tetto massimo (ossia senza possibilità di agire per il danno ulteriore), in una molteplicità del tutto ordinaria di casi, ad essere sufficiente – se disgiunto dal rimedio della reintegra – a compensare adeguatamente il lavoratore per tutti i danni sofferti ad opera del fatto illecito contrattuale perpetrato ai suoi danni dal datore di lavoro”. Una disciplina che lo stesso Tribunale giunge a definire “singolare”, considerato il “rilievo primario che il diritto al lavoro riveste nella nostra Costituzione (artt. 1, 4, 35), nonché il dovere della Repubblica di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, comma 2, Cost.)”.
Passando all’analisi dei contrapposti interessi datoriali, inoltre, il Tribunale rileva come, ai sensi di quanto disposto dal secondo comma dell’art. 41 della Costituzione, la libertà di iniziativa economica non possa in ogni caso svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. Se, ad ogni modo, è necessario tutelare adeguatamente la libertà di iniziativa economica privata, come appunto prescrive il primo comma del medesimo art. 41 della Costituzione, tuttavia, rileva il Giudice rimettente, “favorire sul piano risarcitorio un datore di lavoro che pone in essere un licenziamento del tutto privo di motivo (oggettivo) risulta squilibrato in favore di questo, senza che vi siano motivi di meritevolezza di tale approccio”.
Vi è poi un’altra considerazione cui il Tribunale ricorre per sostenere l’argomento secondo cui l’apparato rimediale predisposto dal D. Lgs. 23/2015 non realizzerebbe un equilibrato bilanciamento fra i contrapposti valori tutela dalla Carta costituzionale. Per effetto di quanto statuito recentemente dalla Cassazione[3], affinché possano ritenersi sussistenti le ragioni economiche, organizzative e produttive poste a base del recesso per g.m.o., non è più necessaria la ricorrenza di una sopravvenuta e non temporanea crisi di impresa, in precedenza invece ritenuta imprescindibile, essendo ora ritenuto sufficiente che la soppressione del posto di lavoro o del reparto cui era addetto il lavoratore sia riconducibile a progetti o scelte datoriali che incidono sulla struttura o sulla organizzazione dell’impresa (insindacabili dal giudice quanto alla congruità e opportunità, purché ovviamente effettivi e non simulati), anche se diretti al perseguimento di una migliore efficienza o a realizzare un incremento di produttività. Ne deriverebbe che la posizione del lavoratore sarebbe divenuta “molto più precaria in seno all’impresa, con la conseguenza che per lo stesso vi è indubbiamente un rischio molto maggiore di licenziamento per motivi economici”.
Ed ancora, osserva il Giudice rimettente, nell’ambito del diritto civile in generale “le ipotesi di limitazione legale del quantum risarcitorio per equivalente sono di regola connesse a casistiche in cui il risarcimento del danno in forma specifica è impossibile (p.e. nel trasporto, perdita o avaria di cose”). Il che, rileva il Tribunale, acuisce ancor più il sospetto sull’incapacità dell’apparato rimediale di cui al D. Lgs. n. 23/2015 a svolgere una reale ed effettiva funzione di deterrenza dell’illecito; e ciò perché, essendo nel caso di licenziamento possibile un risarcimento in forma specifica (reintegrazione con diritto alle retribuzioni medio tempore dovute), non solo esso non viene disposto dal Legislatore del 2015, ma è “al contempo impedito il pieno risarcimento monetario”.
Né, secondo il Tribunale di Ravenna, al fine di escludere l’illegittimità costituzionale della disposizione qui esaminata, potrebbe invocarsi l’elemento della “ragione giustificatrice” dell’intervento legislativo del 2015, così come rappresentato dalla esplicitata volontà legislativa di “alleggerire” le conseguenze sanzionatorie del licenziamento illegittimo al fine di “favorire l’instaurazione di rapporti di lavoro per chi di un lavoro fosse privo, e, in particolare, a favorire l’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato”. Un elemento che lo stesso Tribunale riconosce esser stato già valorizzato dalla Consulta, nell’ambito della pronuncia n. 194/2018, al fine di escludere la possibilità di configurare una – irragionevole – disparità di trattamento tra coloro a cui si applica la L. n. 92/2012 e coloro a cui invece, essendo stati assunti successivamente al 7 marzo 2015 (che, come noto, è lo “spartiacque” temporale che disciplina l’applicabilità ai lavoratori del contratto a tutele crescenti), si applica il sistema di tutele contro il licenziamento illegittimo disciplinato dal D. Lgs. 23/2015[4]. Tale elemento, come accennato, non potrebbe invocarsi, a dire del Tribunale di Ravenna, perché “trattandosi di una disciplina che incide su diritti di notevole rilevanza costituzionale, quali i diritti riconosciuti al lavoro e alla persona del lavoratore, non è evidentemente la mera ‘intuizione’ del legislatore contingente a potere appagare l’interprete della Costituzione, essendo invece necessario che tali finalità sussistano non solo nell'immaginazione del legislatore, ma che possiedano realmente la capacità di importare una sostanziale e rilevante modifica in senso positivo della situazione lavorativa italiana (e tale dato appare più che contestato da buona parte degli interpreti)”.
Il terzo vizio di legittimità costituzionale ravvisato dal Giudice romagnolo configura un’ipotesi di contrasto della disciplina in esame con agli art. 76 e 117 Cost, in relazione all’art. 24 della Carta Sociale Europea[5]. Richiamate le argomentazioni già sviluppate a sostegno del secondo vizio di legittimità riscontrato, il Tribunale dubita che l’apparato rimediale del D. Lgs. 23/2015 abbia un’effettiva “idoneità compensativa e dissuasiva”.
Il quarto vizio di legittimità costituzionale è “figlio” del confronto tra la disciplina prevista dall’art. 18, comma 7, L. n. 300/1970 e l’art. 3, comma 1, D. Lgs. n. 23/2015: tali discipline sono ritenute irragionevolmente differenti “rispetto alla tutela offerta, in relazione agli stessi identici vizi”, con il corollario che il “trattamento di cui all’art. 3, 1 comma decreto n. 23” sarebbe “costituzionalmente illegittimo per illogicità e scorretto uso della discrezionalità di cui gode il legislatore”.
Infatti, se l’art. 18 L. n. 300/1970 prevede che nel caso in cui il giudice accerti l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per g.m.o. applichi il rimedio di cui al comma 4 del medesimo art. 18 (reintegrazione con indennità risarcitoria limitata nell’ammontare massimo), il D. Lgs. 23/2015 esclude invece che, in presenza del medesimo vizio, la reintegrazione possa trovare applicazione, con il corollario che risulterebbe “ingiustificatamente discriminatorio applicare ai lavoratori assunti dal 6.3.2015 il trattamento deteriore
dell’art. 3, 1 comma decreto n. 23 in luogo di quello spettante ai lavoratori assunti prima di tale data ai sensi dell’art. 18, 7 comma, Statuto”
Il quinto vizio di legittimità costituzionale che il Tribunale ha ritenuto di poter ravvisare attiene al confronto con la disciplina della responsabilità risarcitoria derivante da illecito contrattuale e con quella da illecito extracontrattuale, confronto che induce il giudice rimettente a richiamare e trascrivere letteralmente gli art. 1453 c.c. e 2058 c.c[6].
Pur riconoscendo che, nel diritto del lavoro, la necessità di controbilanciare il diritto del lavoratore con la libertà dell’iniziativa economica privata “potrebbe sicuramente portare ad una qualche diversità di trattamento rispetto al diritto civile generale”, il giudice romagnolo afferma che escludere la tutela reintegratoria e prevedere al contempo un tetto massimo all’indennità risarcitoria anche nei casi più eclatanti di illegittimità del licenziamento (quali sarebbero quelli in cui sono insussistenti gli elementi costituitivi che legittimano il recesso e con riferimento ai quali il Tribunale ipotizza sia configurabile “una piena volontà di inadempimento” da parte del datore, un “inadempimento doloso al contratto di lavoro”) realizzerebbe “una notevole inclinazione del bilanciamento dei valori in favore del datore di lavoro e a discapito del lavoratore”. Infatti, sostiene il Tribunale, soprattutto nelle imprese di maggiori dimensioni (che, in quanto tali, sono ritenute in grado di sopportare il “peso economico” che la reintegra comporterebbe), l’esatto adempimento – tramite la reintegra – sarebbe senz’altro possibile e quindi “non eccessivamente oneroso” e, purtuttavia, è stato illegittimamente escluso dal Legislatore del 2015 (che ha appunto previsto il solo rimedio indennitario): tutto ciò, induce il giudice rimettente a ritenere che “la scelta di penalizzare il creditore-lavoratore – che in base alla Costituzione dovrebbe semmai essere favorito rispetto ad altre figure di creditori non accreditate nella Costituzione – rispetto ad un qualunque altro creditore civile risulta ingiustificatamente discriminatoria e quindi lesiva sia del 1 comma dell’art. 3, sia del 2 comma dell’art. 3 (e qui per inattuazione dello stesso, posta in essere mediante il processo di de-attuazione – rispetto alla normativa pregressa – realizzato dal decreto n. 23)”.
La parola passa, dunque, alla Corte Costituzionale, l’eventuale accoglimento da parte della quale della questione di legittimità fin qui illustrata potrebbe rappresentare un autentico cambio di paradigma, rispetto all’impostazione dell’apparato rimediale avverso il licenziamento illegittimo intimato per giustificato motivo oggettivo, contenuta nel D. Lgs. n. 23/2015.
[1] Sul tema, si veda https://www.studioclaudioscognamiglio.it/ancora-sullobbligo-di-repechage-linadempimento-comporta-la-reintegrazione-del-lavoratore/, nonché https://www.studioclaudioscognamiglio.it/lobbligo-di-repechage-onere-probatorio-e-conseguenze-in-caso-di-inadempimento/
[2] Su cui si veda https://www.studioclaudioscognamiglio.it/lillegittimita-costituzionale-del-requisito-della-manifesta-insussistenza-del-fatto-posto-a-base-del-licenziamento-per-g-m-o/
[3] Si fa in particolare riferimento a Cass. n. 25201/2016
[4] In quell’occasione, infatti, la Corte Costituzionale aveva rilevato come “la modulazione temporale dell’applicazione del D. Lgs. n. 23 del 2015…non contrasta con il ‘canone di ragionevolezza’ e, quindi, con il principio di eguaglianza, se a essa si guarda alla luce della ragione giustificatrice…costituita dallo ‘scopo’, dichiaratamente perseguito dal legislatore, ‘di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione’ (alinea dell'art. 1, comma 7, della L. n. 183 del 2014). Lo scopo dell’intervento, così esplicitato, mostra come la predeterminazione e l’alleggerimento delle conseguenze del licenziamento illegittimo dei lavoratori subordinati a tempo indeterminato siano misure dirette a favorire l’instaurazione di rapporti di lavoro per chi di un lavoro fosse privo, e, in particolare, a favorire l’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato…Tanto chiarito circa la non irragionevolezza del contestato regime temporale, non spetta a questa Corte addentrarsi in valutazioni sui risultati che la politica occupazionale perseguita dal legislatore può aver conseguito”.
[5] Secondo cui: “Per assicurare l’effettivo esercizio del diritto ad una tutela in caso di licenziamento, le Parti s’impegnano a riconoscere: a) il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio; b) il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”.
[6] Art. 1453 c.c.: “Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno.
La risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l’adempimento; ma non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione.
Dalla data della domanda di risoluzione l’inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione”.
Art. 2058 c.c.: “Il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile.
Tuttavia il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore”.
Il caso
Un lavoratore, con qualifica di operaio saldatore e continuativamente impiegato in azienda dal 1988, viene licenziato nel 2017 per giusta causa, allorquando il datore di lavoro viene a conoscenza dell’esistenza di una denuncia sporta dalla sua convivente per maltrattamenti, ingiurie e lesioni personali, e della conseguente misura degli arresti domiciliari cui il dipendente era stato inizialmente sottoposto dal G.I.P. (misura poi convertita nell’obbligo di firma).
Il licenziamento è stato ritenuto legittimo dal Tribunale di Cassino (tanto nella fase sommaria, quanto in quella di opposizione), mentre la Corte di Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, lo ha ritenuto illegittimo e ha disposto la reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del quarto comma dell’art. 18 L n. 300/1970.
L’anzidetta pronuncia è stata impugnata con ricorso in Cassazione dal datore di lavoro; ha resistito con controricorso il lavoratore.
La c.d. giusta causa esterna
Con l’espressione giusta causa “esterna” si è soliti intendere una giusta causa di licenziamento che è integrata da fatti commessi dal lavoratore al di fuori del rapporto lavorativo (sia dal punto di vista temporale, che spaziale) che integrano una fattispecie di reato.
E’ principio consolidato quello secondo cui, affinché fatti costituenti reato possano avere rilevanza disciplinare, è necessario che siano tali da ledere gli interessi morali e/o materiali del datore di lavoro, oppure che siano tali da far venir meno la fiducia datoriale nell’esattezza dei futuri adempimenti della prestazione lavorativa. Infatti, alla luce della “non perfetta sovrapponibilità tra sistema penale e sistema disciplinare”, ha osservato la Corte di Appello di Roma (richiamando Cass n. 3076/2020) nel giudizio di secondo grado, affinché fatti che integrano un reato possano valere in termini di giusta causa di licenziamento, è necessario valutare il “disvalore oggettivo del fatto commesso nel contesto del mondo dell’azienda”, ossia verificare se gli illeciti penali in questione, “tenuto conto delle mansioni in concreto espletate dal lavoratore e dell’ambito lavorativo aziendali”, siano tali da compromettere l’elemento fiduciario.
La decisione fornita da Cass. n. 22077/2023
La Corte di Cassazione ribadisce la correttezza di tali enunciazioni di diritto, soggiungendo che la giusta causa di licenziamento può sussistere “anche in presenza di condotte extralavorative, a condizione però che abbiano un riflesso anche solo potenziale, ma comunque oggettivo, sulla funzionalità del rapporto, a causa della compromissione dell’aspettativa datoriale circa un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa”.
Da un punto di vista meramente fattuale, al fine di giustificare l’atto di recesso, la società aveva addotto il timore che il lavoratore, in ragione della sua indole violenta, potesse adottare comportamenti analoghi all’interno del contesto aziendale, soprattutto nei confronti di persone di sesso femminile.
Cionondimeno, afferma la Cassazione, il licenziamento nel caso di specie deve ritenersi illegittimo perché, tenuto conto delle mansioni meramente esecutive del lavoratore, dell’assenza di alcun precedente disciplinare relativo a condotte violente che sia rinvenibile nel pur lungo periodo che va dall’assunzione al licenziamento (circa trent’anni), le condotte in questione, per quanto deprecabili, non avevano avuto, invero, alcuna incidenza concreta sull’ambiente lavorativo, né alcuna eco mediatica.
La giusta causa di licenziamento, conseguentemente, viene ritenuta insussistente, ed anzi, ancor prima, il fatto contestato al lavoratore viene ritenuto privo di rilevanza disciplinare. Per tale motivo viene ritenuto applicabile il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo di cui all’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970: ciò perché “il fatto materiale sussiste, ma, sul piano lavorativo, ossia della sua incidenza sul rapporto lavorativo, non può dirsi ‘illecito’, bensì ‘neutro’ e quindi non rilevante”.
Il caso
Un lavoratore ha effettuato, presso l’orologio marcatempo del datore di lavoro, la timbratura del badge della collega assente, poi giunta sul posto di lavoro in un orario più tardo. Tale condotta provoca il licenziamento del primo dipendente, che viene però ritenuto illegittimo dalla Corte d’Appello, in applicazione dei principi dettati da una (precedente, rispetto a quella qui commentata) decisione della Suprema Corte, che aveva annullato la pronuncia di merito innanzi a lei impugnata. La (seconda) decisione d’appello, che aveva disposto la reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente licenziato, viene confermata dalla sentenza che costituisce il termine di riferimento di queste brevi considerazioni.
Vediamo perché.
La disciplina di legge
Come è noto, l’uso di apparecchiature elettroniche idonee a controllare ‘a distanza’ la prestazione lavorativa dei dipendenti è disciplinato dall’art. 4 della L. n. 300/1970, modificato dall’art. 23 del d. lgs. 151/2015. Nella sua versione applicabile ratione temporis ai fatti di causa, l’articolo in parola sanciva un espresso divieto di utilizzare “impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”. Tale divieto, tuttavia, non era assoluto, ma era anzi destinato a venire meno nella ipotesi in cui ricorressero “esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro” e nel caso in cui, in ragione di tali esigenze, fosse precedentemente intervenuto un accordo con le rappresentanze sindacali aziendali teso a disciplinare l’utilizzo degli strumenti elettronici in questione.
La decisione fornita da Cass. n. 25645/2023
Nel caso di specie, l’illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore si fonda proprio sulla disciplina più sopra brevemente accennata. Più in particolare, avendo riscontrato l’assenza di accordi autorizzativi tra il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali circa l’utilizzo degli strumenti elettronici che consentono il controllo a distanza dell’attività lavorativa, la Suprema Corte ha confermato la decisione con cui la Corte di Appello “ha accertato che le acquisizioni dei dati tramite il badge elettronico erano illegittime ed ha verificato, con accertamento di fatto a lei riservato, che i dati acquisiti per il tramite dei sistemi di rilevazione delle entrate e delle uscite non erano perciò utilizzabili e che non vi erano altre evidenze...per ritenere provata la condotta contestata che perciò era indimostrata”.
In sostanza, l’illegittimità delle rilevazioni dei sistemi elettronici determina l’inutilizzabilità ai fini disciplinari delle anzidette rilevazioni e, di conseguenza, l’illegittimità della sanzione disciplinare che su di esse si fondi.
Per un approfondimento sul tema, si veda anche https://www.studioclaudioscognamiglio.it/ancora-sui-controlli-difensivi-cass-n-18168-2023-ribadisce-alcuni-principi/