Il caso

Un lavoratore inquadrato nella categoria dei dirigenti viene licenziato per violazione dei doveri di diligenza e fedeltà, essendo stato accertato come, in costanza di rapporto di lavoro, il predetto dirigente avesse avuto contatti e rapporti professionali con imprenditori che operavano in regime di concorrenza con il datore di lavoro. I fatti posti a base del recesso datoriale vengono appurati a seguito di un’attività investigativa posta in essere da uno specialista previamente incaricato, nonché attraverso un controllo della posta elettronica aziendale del dipendente operato direttamente dal datore di lavoro.

La soluzione offerta dalla Cassazione

La Corte, innanzi tutto, distingue tra controlli a difesa del patrimonio aziendale – che riguardano tutti i dipendenti che nello svolgimento della loro prestazione di lavoro vengono a contatto con tale patrimonio (c.d. controlli difensivi in senso lato), con riferimento ai quali, peraltro, la Corte ribadisce l’applicabilità dell’art. 4 St. Lav. – e controlli diretti ad accertare, in base alla ricorrenza di indizi concreti, condotte illecite ascrivibili ai singoli dipendenti e poste in essere dai medesimi durante la prestazione di lavoro. Questi ultimi sono i c.d. controlli difensivi in senso stretto[1] e, “non avendo ad oggetto la normale attività del lavoratore, si situano, ancora oggi, all’esterno del perimento applicativo dell’art. 4”.

Il fatto che a tale tipologia di controllo datoriale non si applichi l’art. 4 L. n. 300/1970 non vuol dire, tuttavia, che i predetti controlli possano essere attuati dal datore in maniera indiscriminata o senza l’osservanza di regole precise.

E sono queste regole che la Corte ha ribadito con la pronuncia qui in commento.

In particolare, osserva la Corte nel solco di quanto già statuito dalla medesima con la pronuncia n. 25732/2021[2], al fine di “assicurare un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore”, non si può prescindere da un’attenta valutazione delle circostanze concrete del caso specifico.

Analiticamente, affinché il controllo difensivo in senso stretto sia legittimo, e sia conseguentemente utilizzabile ai fini disciplinari il relativo esito, è necessario che in giudizio il datore di lavoro alleghi e provi:

  • le circostanze di fatto che lo hanno indotto a porre in essere il controllo, che devono essere tali da integrare un “fondato sospetto” – che è tale allorquando è basato su “indizi materiali e riconoscibili, non espressione di un puro convincimento soggettivo” – circa la commissione dell’illecito da parte del lavoratore. Con l’ulteriore precisazione che solo un fondato sospetto “costituisce riscontro oggettivo dell’autenticità dell’intento difensivo del controllo, non diretto, quindi, ad un generale monitoraggio dell’attività lavorativa dei dipendenti, quanto piuttosto “mirato” ad accertare prefigurate condotte contra ius, non attinenti al mero inadempimento degli obblighi derivanti dalla prestazione lavorativa”;
  • la collocazione temporale di tali circostanze di fatto, che devono essere tali da consentire di dimostrare che il controllo sia stato attuato ex post, cioè successivamente all’insorgenza del “fondato sospetto”, posto che le anzidette circostanze di fatto segnano “il momento a partire dal quale i dati acquisiti possono essere utilizzati nel procedimento disciplinare e, successivamente, in giudizio, non essendo possibile l’esame e l’analisi di informazioni precedentemente assunte in violazione delle prescrizioni di cui all’art. 4 St. lav., estendendo a dismisura l’area del controllo difensivo lecito, considerato che non può essere reso retroattivamente lecito un comportamento che tale non era al momento in cui fu tenuto”.

Nell’ipotesi in cui il datore non riesca a fornire prova di quanto sopra, come già accennato, il controllo difensivo in senso stretto è illegittimo, con conseguente inutilizzabilità dei dati acquisiti in esecuzione del medesimo.

Inoltre, soggiunge la Corte, affinché il controllo difensivo in senso stretto sia legittimo, è necessario altresì che “sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore”. Il controllo, pertanto, deve essere innanzi tutto rispettoso della disciplina in materia di privacy (D. Lgs. 101/2018) e degli obblighi specifici che essa prevede, primi fra tutti il rispetto dei principi “di minimizzazione e di proporzionalità, di pertinenza e di non eccedenza rispetto ad uno scopo che sia legittimo, di trasparenza e correttezza”, appunto “ricavabili dal Codice della privacy e dal Regolamento UE n. 2016/679”. In termini maggiormente concreti, pertanto, il Giudice chiamato a sindacare la legittimità del controllo difensivo in senso stretto dovrà verificare:

  • che sia stato adeguatamente informato il lavoratore circa la possibilità che il datore adotti misure di monitoraggio;
  • il grado di invasività che il controllo implica nella sfera privata dei dipendenti, “tenendo conto, in particolare, della natura più o meno privata del luogo in cui si svolge il monitoraggio”;
  • l’esistenza di una giustificazione concreta alla sorveglianza;
  • tenendo conto delle circostanze del caso concreto, se lo scopo legittimo del datore di lavoro avrebbe potuto essere raggiunto “causando una minore invasione della vita privata del dipendente”;
  • come il datore di lavoro abbia utilizzato i risultati della misura di monitoraggio e se siano serviti per raggiungere lo scopo dichiarato”.

Pertanto, i presupposti – che, si è visto, sono il portato di regole giuridiche ben precise –  necessari affinché un controllo difensivo in senso stretto sia legittimo sono numerosi; affinché il datore di lavoro possa far valere eventuali illeciti del lavoratore rilevati grazie al controllo è essenziale, dunque, che siano rispettati i principi di diritto ribaditi dalla Cassazione con la pronuncia che qui si è brevemente annotata; e ciò, come ovvio, a prescindere dalla gravità dell’illecito eventualmente ascrivibile al lavoratore.


[1] Sul tema, si rinvia a https://www.studioclaudioscognamiglio.it/i-limiti-allammissibilita-dei-c-d-controlli-difensivi/ e

[2] Su cui si veda https://www.studioclaudioscognamiglio.it/controllo-del-lavoratore-a-distanza-quando-sono-legittimi-i-c-d-controlli-difensivi/

Lo ha chiarito la Cassazione con la recente sentenza n. 11136/2023 (in allegato).

La fattispecie concreta ha riguardato il caso di una dipendente occupata presso un esercizio di ristorazione che, in regime di appalto, svolgeva il servizio mensa in favore della committente. Durante l’espletamento della prestazione lavorativa, una vetrinetta termica in uso all’appaltatrice e di proprietà della committente (e di cui quest’ultima aveva attestato il buono stato di manutenzione e la conformità alle norme di legge) esplode improvvisamente, provocando un infortunio professionale alla lavoratrice. Rimasta assente dal posto di lavoro, in ragione dell’infortunio occorso, per un periodo superiore a quello del comporto fissato dalla regolamentazione collettiva, la dipendente viene licenziata; pertanto, agisce in giudizio per vedere dichiarata l’illegittimità del licenziamento intimato nei suoi confronti.

La Corte di Cassazione dà seguito al proprio orientamento secondo cui le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale rientrano – a tutti gli effetti – nella nozione di infortunio e malattia di cui all’art. 2110 cod. civ. Ne deriva che, al pari cioè di qualsiasi altra assenza per malattia o infortunio riconducibili a fattori causali extralavorativi, le anzidette assenze concorrono a formare “il montante” del periodo di comporto, cioè il periodo di tempo massimo entro il quale è garantito il diritto del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro, ovvero, da un angolo visuale opposto, quel periodo di tempo decorso il quale il datore di lavoro è legittimato ad intimare il licenziamento ai sensi del secondo comma dell’art. 2110 cod. civ.. E ciò perché, afferma la Suprema Corte, non è “sufficiente, perché l’assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, che si tratti di malattia di origine professionale, meramente connessa cioè alla prestazione lavorativa, ma è necessario che in relazione a tale malattia e alla sua genesi sussista una responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 cod. civ.”.

Per rispondere all’interrogativo posto nel titolo del presente commento, e quindi per comprendere se il licenziamento intimato per il superamento del periodo di comporto sia o meno legittimo, il discorso deve volgersi alle regole che governano la responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c.

Come è noto, tale norma sancisce il diritto del lavoratore alla tutela dell’integrità fisica e della personalità morale sul posto di lavoro, ponendo a carico del datore di lavoro il correlativo obbligo di adottare tutte quelle misure che, “secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica” sono atte a realizzare in concreto tale tutela. E’ parimenti noto però che tale disposizione di legge “non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti da conoscenze sperimentali o tecniche del momento”. Pertanto, è onere del lavoratore provare il danno subito, allegare la nocività dell’ambiente di lavoro (leggasi: l’inadempimento datoriale all’obbligo di adottare tutte quelle misure che consentano di escludere la nocività dell’ambiente di lavoro) e il nesso di causalità tra l’uno e l’altro, mentre sul datore di lavoro ricade il correlativo – e opposto – onere di provare di aver adempiuto l’obbligo di sicurezza sul medesimo gravante (leggasi: l’adempimento dell’obbligo di adottare tutte le misure di sicurezza ragionevolmente esigibili) e che la malattia del dipendente non è causalmente collegabile all’eventuale violazione di tali obblighi.

Nella fattispecie concreta che ha originato la pronuncia che qui si commenta, peraltro, oltre che l’eventuale responsabilità datoriale per inadempimento all’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 cod. civ., viene in rilievo la responsabilità da cose in custodia di cui all’art. 2051 cod. civ.[1] In tal caso, come è pacifico, sussiste una presunzione di colpa in capo a colui che aveva la disponibilità della cosa che ha cagionato il danno, “che può essere superata solo dalla dimostrazione dell’avvenuta adozione delle cautele antinfortunistiche e della natura imprevedibile ed inevitabile del fatto dannoso”.

Pertanto, per concludere, la Suprema Corte ha escluso la sussistenza di una sorta di automatismo tra natura professionale dell’infortunio o della malattia e diritto del lavoratore a non vedere conteggiati i relativi giorni di assenza tra quelli “utili” a determinare il superamento del periodo in cui la conservazione del posto di lavoro è garantita dall’art. 2110 c.c. In altri termini, solo nel caso in cui la malattia o l’infortunio professionale siano imputabili al datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c. (o, nel caso di specie, ai sensi dell’art. 2051 c.c.) allora le relative assenze del lavoratore non potranno contribuire a determinare il superamento del periodo di comporto.

Nel caso di specie, invece, non essendo configurabile alcuna responsabilità datoriale ai sensi delle disposizioni codicistiche sopra richiamate[2], i periodi di assenza della lavoratrice causalmente collegati all’infortunio occorso alla medesima sul posto di lavoro concorrono a formare il periodo massimo in cui è consentita l’assenza dal lavoro, con il corollario che il superamento di detto periodo da parte della dipendente ha legittimato il datore di lavoro ad intimarle il recesso dal rapporto di lavoro.

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[1] Così l’art. 2051 del Codice civile: “Danno da cose in custodia – Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”. [1] In punto di fatto, ha osservato la Corte che “nello specifico, la presunzione di colpa per la vetrinetta in custodia a carico della parte datoriale risulta superata dall’accertamento del giudice di merito il quale ha ritenuto l’evento non prevedibile in cosiderazione della diligenza esigibile in base alle norme tecniche e precauzionali applicabili al tempo”.

A questo interrogativo ha fornito una risposta la Cassazione con la recente ordinanza n. 9453 del 6 aprile 2023.

La Cassazione ha innanzi tutto chiarito che il licenziamento per “scarso rendimento” rientra nel novero dei licenziamenti intimati per un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali.

Tuttavia, affinché uno “scarso rendimento” del dipendente possa ritenersi idoneo ad integrare un “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali” e quindi quel giustificato motivo soggettivo che ne rende legittimo il relativo licenziamento, non è di per sé sufficiente provare il mancato raggiungimento da parte del predetto dipendente di un obbiettivo prefissato dal datore di lavoro. E’ necessario invece ricorrere a “parametri per accertare se la prestazione sia eseguita con diligenza e professionalità medie, proprie delle mansioni affidate al lavoratore”; l’eventuale, e purché notevole, scostamento da tali parametri di produttività “può costituire segno o indice di non esatta esecuzione della prestazione, sulla scorta di una valutazione complessiva dell’attività resa per un apprezzabile periodo di tempo”.

Da tale inquadramento teorico discendono precise conseguenze in ordine agli oneri probatori gravanti sulle parti.

Poiché, come noto, ai sensi dell’art. 5 L. n. 604/1966, grava sul datore di lavoro l’onere di provare la causale addotta a fondamento del recesso, ove il licenziamento sia intimato per scarso rendimento del dipendente, il datore di lavoro “non può limitarsi a provare solo il mancato raggiungimento del risultato atteso o l’oggettiva sua esigibilità, ma deve anche provare che esso derivi da colpevole negligente inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore nell’espletamento della sua normale prestazione”.

Viceversa, conformemente al paradigma dell’art. 1218 c.c., il lavoratore che contesta giudizialmente la legittimità del licenziamento intimato nei suoi confronti per scarso rendimento, ha l’onere di allegare, e provare, che “lo scostamento dai parametri di produttività dei colleghi con mansioni analoghe”, che lo “scarso rendimento” al medesimo imputato che integra il notevole inadempimento o l’inesatta esecuzione della prestazione, siano dipesi da causa a lui non imputabile.

In punto di fatto, la Suprema Corte ha rilevato come – del tutto correttamente – la Corte territoriale avesse accertato la sussistenza di uno scarso rendimento imputabile, da intendersi come notevole e colpevole scostamento dai parametri medi di produttività, in base al rilievo per cui il lavoratore licenziato “nel primo trimestre 2016 aveva effettuato complessivamente 16 visite a clienti e/o filiali (rispetto alle 120 degli altri colleghi dell'ufficio sviluppo) e acquisito un solo cliente”. I predetti dati, soggiunge la Corte, “sono stati posti a confronto con i dati di produzione (raccolta impieghi) degli altri colleghi - enormemente superiori a quelli del ricorrente (pag. 15) - sì da concludere per l'effettività dello scarso rendimento e della sua gravità”.

Non è, dunque, sufficiente ad integrare il presupposto legittimante il licenziamento per scarso rendimento il mancato raggiungimento degli obiettivi fissati dal datore di lavoro; ma occhio ai dati medi di produzione dei colleghi!

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