Breve nota a Cass. n. 2606/2023

Con l’ordinanza n. 2603/2023 la Corte di Cassazione ha colto l’occasione per ribadire alcuni importanti principi di diritto in materia di licenziamento discriminatorio.

Il “licenziamento discriminatorio” è quell’atto di recesso datoriale che è motivato, sia pure non esplicitamente, da una delle ragioni indicate dall’art. 4 L. n. 604/1966, dall’art. 15 L. n. 300/1970, dall’art. 2 D. Lgs. n. 215/2003 e dall’art. 2 D. Lgs. 216/2003; conseguentemente è discriminatorio il licenziamento intimato in ragione dell’appartenenza sindacale del singolo, della sua partecipazione ad uno sciopero o ad altra attività sindacale, per ragioni di razza o origine etnica, per ragioni inerenti alla religione, al sesso, alle convinzioni personali, agli handicap, all’età o all’orientamento sessuale. Un licenziamento che sia intimato per una di tali ragioni, anche se non esplicitate dal datore di lavoro, è nullo; e ciò anche ove ricorrano ulteriori motivi che lo giustifichino, in ipotesi riconducibili alle nozioni di giusta causa o di giustificato motivo.

Anche il licenziamento intimato “per motivo illecito determinante” è nullo. E’ questa una fattispecie di licenziamento di matrice giurisprudenziale, affetta da una nullità di diritto comune, che deriva cioè dal combinato disposto degli articoli 1345, 1324 e 1418 Cod. Civ. Tipico esempio di licenziamento intimato per motivo illecito determinante è il “licenziamento ritorsivo”, con tale intendendosi il recesso intimato dal datore di lavoro che costituisce una ritorsione all’esercizio di un diritto del lavoratore. Si pensi al caso del lavoratore che viene licenziato per aver legittimamente richiesto la fruizione di un periodo di aspettativa. Diversamente da quanto previsto per il licenziamento discriminatorio, affinché il licenziamento per motivo illecito determinante sia nullo è necessario che il motivo ad esso sottostante, oltre ad essere illecito, sia anche l’unico, cioè sia, appunto, il motivo determinante che ha indotto il datore di lavoro a recedere dal rapporto di lavoro. Ne consegue che la contemporanea ricorrenza di ulteriori motivi di recesso (di tipo soggettivo o oggettivo) è tale da escludere la rilevanza del motivo illecito che con essi ha concorso a fondare il recesso.

Per il licenziamento discriminatorio, e non anche per il licenziamento per motivo illecito determinante, è previsto altresì un regime probatorio “agevolato”.

Infatti, se, di norma, cioè ai sensi dell’art. 5 L. n. 604/1966, l’onere di provare la sussistenza della causa del recesso grava sul datore di lavoro, nel caso di licenziamento discriminatorio, non potendo essere richiesto al datore di lavoro di provare un fatto negativo (cioè l’assenza di discriminatorietà del recesso dal medesimo intimato), l’onere di provare la natura discriminatoria grava sul lavoratore licenziato. Quest’ultimo, pertanto, dovrà “allegare e dimostrare il fattore di rischio” (n.d.r. cioè il motivo sottostante alla discriminazione) “e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso” (così, l’ordinanza qui commentata alla pagina 5).

Inoltre, benché la Corte non si sia soffermata sul punto specifico, pare utile soggiungere che, stante la notevolissima difficoltà per il lavoratore di provare il fatto diretto che realizza la discriminatorietà del recesso (fatto che, a ben guardare, sussisterebbe solo nell’inverosimile ipotesi in cui il datore di lavoro mettesse “nero su bianco” che il licenziamento è “motivato” dal credo religioso del lavoratore, o dalla sua opinione politica, o dal suo orientamento sessuale, ecc.) l’art. 28 del D. Lgs. 150/2011 prevede l’operatività di un meccanismo di inversione dell’onere della prova. Più in particolare, è previsto che “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati  di  carattere  statistico,  dai  quali  si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all’assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell’azienda interessata”.

La fattispecie concreta che ha rappresentato l’occasione per la Corte di Cassazione di ribadire i principi più sopra brevemente tratteggiati era quella di un lavoratore, delegato sindacale della RSU presente in azienda, licenziato formalmente per giusta causa. Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento adducendone la discriminatorietà in ragione della propria carica sindacale, dimostrando altresì che il datore di lavoro, al fine di “raccogliere” le prove di suoi ipotetici inadempimenti, aveva “disposto indagini investigative nei suoi confronti e non nei confronti di” altri suoi colleghi “addetti alla medesima linea e che operavano con le sue stesse modalità di lavoro”. A tale proposito, la Corte d’Appello di Firenze, con una motivazione ritenuta ineccepibile dalla Cassazione, aveva ritenuto raggiunta la prova della dedotta discriminatorietà in ragione della avvenuta dimostrazione della diversità di trattamento riservata al dipendente licenziato, “specificando la necessità di un giustificato dubbio, e non di un mero sospetto, al fine di disporre accertamenti investigativi sui dipendenti”.

Lo ha recentemente statuito la Cassazione con la pronuncia n. 37946/2022.

Nell’ambito di una controversia avente ad oggetto la legittimità di un licenziamento intimato per g.m.o. – dichiarato illegittimo dalla Corte di Appello per manifesta insussistenza del nesso causale tra le ragioni organizzative addotte e l’atto datoriale di recesso –, il datore di lavoro, in via subordinata, ha chiesto venisse detratto dall’indennità risarcitoria dovuta al lavoratore quanto quest’ultimo, successivamente al licenziamento, aveva percepito a titolo retributivo in ragione dello svolgimento di un’altra attività lavorativa (è questo, come noto, il c.d. aliunde perceptum).

Sul punto, la Corte ha specificato che per il datore di lavoro non è sufficiente invocare la previsione di legge che prevede la detraibilità di tali somme dall’indennità risarcitoria dovuta al lavoratore licenziato illegittimamente, dovendo “essere ritualmente allegati...dalla parte che lo deduca... gli elementi fattuali posti a fondamento dell’aliunde perceptum”. Solo l’allegazione di quei fatti che sono rilevanti in punto di percezione da parte del lavoratore di altri redditi e, come ovvio, la loro successiva prova in giudizio (sia per effetto della mancata contestazione da parte del lavoratore degli stessi, sia in ragione della loro dimostrazione tramite prova diretta o presuntiva) rende operante la previsione circa la detraibilità dell’aiunde perceptum, non essendo sufficienti richieste istruttorie quali la richiesta di documentazione all’I.N.P.S. o all’Agenzia delle Entrate, “tenuto conto che le richieste istruttorie possono essere correttamente volte alla sola dimostrazione dei fatti ritualmente indicati ed allegati”.

Il caso

Una signora si duole in giudizio del danno non patrimoniale asseritamente arrecatole dalla Società incaricata della fornitura del gas naturale nella sua abitazione. Più in particolare, la sospensione della fornitura del gas per un periodo di più giorni ha impedito alla predetta signora di celebrare con amici e parenti, in aderenza ai precetti religiosi appunto, una festività – vivamente sentita dalla comunità a cui appartiene la danneggiata – che implicava riti di preghiera e culinari di natura collettiva. Afferma, pertanto, di aver subito un danno alla propria libertà religiosa.

I principi di diritto affermati dalla Cassazione con l’ordinanza n. 220/2023

La Suprema Corte ribadisce, innanzi tutto, il principio secondo cui il danno arrecato ad un valore o ad un interesse costituzionalmente rilevante non può coincidere con l’illecito in sé, dovendosi escludere l’ammissibilità e la correttezza giuridica di qualsiasi automatismo che, accertato l’illecito, riconosca il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale a prescindere dalla prova di quest’ultimo.

Inoltre, la natura unitaria del danno non patrimoniale – che può scaturire dalla lesione di un qualsiasi valore o interesse costituzionalmente tutelato – preclude il riconoscimento di voci di danno distinte che però attengono a pregiudizi identici. Ciò che deve essere oggetto di valutazione da parte del giudicante è il c.d. danno morale, “sub specie del dolore, della vergogna, della disistima di sé, della paura, della disperazione”, oltre che gli effetti relativi alla “privazione, diminuzione o modificazione delle attività dinamico relazionali precedentemente esplicate dal danneggiato” (è questo il c.d. danno esistenziale: si vedano, tra le tante Cass. n. 23469 del 28 settembre 2018; Cass. n. 901 del 17 gennaio 2018).

Tuttavia, ulteriore condizione affinché il danno non patrimoniale possa essere risarcito è che l’offesa al valore costituzione protetto “superi la soglia di minima tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale (v. Cass., 12/11/2019, n. 29206), e pertanto non anche allorquando vengano lamentati meri disagi, fastidi, disappunti, ansie, stress e violazioni del diritto alla tranquillità...che costituiscono conseguenze non gravi ed insuscettibili di essere monetizzate perché bagatellari”.

In sostanza, afferma la Corte, il mero “sconvolgimento dell’agenda” ed il mero inconveniente generano esclusivamente un “fastidio” che non è idoneo ad esser risarcito, dovendo anzi essere sopportato proprio in ragione dei doveri di solidarietà sociale che gravano su ogni consociato.

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