Il caso
Una dipendente, cui era stata concessa in uso un’auto aziendale per fini esclusivamente lavorativi, viene licenziata per aver addebitato alla società datrice di lavoro spese di carburante che esulavano dallo stretto svolgimento dell’attività lavorativa.
La rendicontazione da parte della lavoratrice delle spese di carburante sostenute aveva cadenza mensile. La società, tuttavia, ha preso cognizione di tali impropri addebiti successivamente alla loro concreta verificazione ed alla loro conseguente rendicontazione mensile; più in particolare, solo nel gennaio 2017, in occasione, cioè, delle verifiche compiute per la chiusura del bilancio relativo all’anno solare 2016, presa cognizione dell’inadempimento contrattuale, la società ha proceduto al licenziamento della lavoratrice.
Se il Tribunale ha ritenuto che tale atto di recesso fosse intempestivo, e ciò sulla base del rilievo per cui la società aveva omesso di effettuare tempestivamente i controlli del caso, con conseguente lesione del diritto di difesa della ricorrente, la Corte territoriale ha invece accolto il reclamo proposto dalla società, ritenendo che l’immediatezza della contestazione dovesse valutarsi avendo riguardo al momento in cui il datore di lavoro ha avuto conoscenza dell’inadempimento e non al momento della sua verificazione.
La lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione e la società ha resistito con controricorso.
La tempestività va intesa in senso relativo: i principi di diritto affermati dalla Cassazione
La Suprema Corte ha ribadito, innanzi tutto, che il principio di immediatezza della contestazione è un’estrinsecazione del più generale principio di buona fede e correttezza; in quanto tale, esso “si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro”.
Esso ha carattere relativo, essendo quindi compatibile con il decorso di un intervallo di tempo più o meno lungo tra la data della verificazione dell’inadempimento e la sua contestazione al lavoratore che lo ha commesso, intervallo sulla cui estensione possono incidere circostanze prettamente fattuali quali la complessità di accertamento della condotta del dipendente o l’esistenza di una articolata organizzazione aziendale.
Al fine di vagliare se un fatto sia stato – o meno – contestato tempestivamente, precisa la Cassazione, si deve tenere conto che il datore di lavoro ha il potere, ma non l’obbligo, “di controllare in modo continuo i propri dipendenti e di contestare loro immediatamente qualsiasi infrazione al fine di evitarne un possibile aggravamento”. Tale obbligo, del resto, non è previsto da nessuna disposizione di legge, né si può desumere dai principi di cui agli artt. 1175 c.c. e 1375 c.c., posto che una sua ipotetica esistenza “negherebbe in radice il carattere fiduciario del lavoro subordinato”. L’affidamento che il datore di lavoro fisiologicamente ripone nella correttezza dell’operato del dipendente, soggiunge la Corte, “non può tradursi in un danno per il datore di lavoro, né può equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di conoscenza dell’illecito, ovvero supporsi” un atteggiamento tollerante del datore, prescindendo dalla prova di una sua effettiva conoscenza degli inadempimenti specifici commessi dal lavoratore. Pertanto, conclude la Corte, “la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell’infrazione ove avesse controllato assiduamente l’operato del dipendente, con riguardo all’epoca in cui ne abbia acquisito piena conoscenza”.
Breve nota a Cass. 6051/2023
Il caso.
Un lavoratore è stato impiegato presso un’articolazione della P.A. in forza di una pluralità di contratti a tempo determinato. Successivamente alla stabilizzazione del suo rapporto di lavoro, così come determinatasi per effetto della sottoscrizione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato con l’ente pubblico, il lavoratore adisce il Tribunale per veder riconosciuto il proprio diritto al computo della pregressa anzianità di servizio (relativa ai rapporti di lavoro a tempo determinato succedutesi nel tempo tra le parti) ed i conseguenti incrementi stipendiali da essa derivanti.
Il Tribunale di Roma ha rigettato l’eccezione di prescrizione sollevata dalla P.A. sul presupposto che il dies a quo dovesse coincidere con il momento dell’avvenuta stabilizzazione; e ciò in ragione della condizione di metus in cui si trova il prestatore di lavoro impiegato con rapporti che non ne garantiscono la stabilità, che gli impedisce, perlomeno fino al conseguimento della stabilizzazione, di far valere i propri diritti relativi all’anzianità lavorativa e alla maturazione dei conseguenti stipendiali.
La decisione del Tribunale è stata poi confermata dalla Corte territoriale romana.
La P.A. ricorre in Cassazione con un unico motivo concernente l’individuazione del giorno di decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi.
I principi di diritto che regolano la prescrizione in caso di rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Ritenendo la questione di massima importanza, la Sezione lavoro della Corte di Cassazione, con l’ordinanza che qui brevemente si commenta, ha rimesso la questione al Primo Presidente affinché quest’ultimo valuti l’opportunità di un’eventuale decisione della stessa da parte delle Sezioni Unite.
La Sezione lavoro muove innanzi tutto da una puntuale ed approfondita analisi diacronica del contenuto delle sentenze della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite di Cassazione che hanno costituito vere e proprie “pietre miliari” dell’istituto della prescrizione in ambito lavoristico. Non è questa la sede per approfondire compiutamente la portata di tali pronunce; tuttavia, è possibile richiamare alcuni fondamentali principi di diritto sanciti dalle medesime.
Corte Costituzionale n. 63/1966, con riferimento al rapporto di lavoro privato, fissò il principio cardine dell’intera materia nel momento in cui escluse la decorrenza della prescrizione durante il rapporto di lavoro, atteso che, “quando questo non ha la resistenza tipica del pubblico impiego”, il timore del licenziamento può spingere il lavoratore a rinunciare a far valere i suoi diritti. Pertanto, poiché, come è noto, la prescrizione è una modalità di estinzione dei diritti dovuta al loro mancato esercizio protrattosi per un determinato periodo di tempo disposto dalla legge, la Corte Costituzionale dichiarò “l’illegittimità costituzionale degli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2, 2956, n. 1, del Codice civile limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro”. La ratio posta a fondamento di tale decisione (comune a tutte le altre pronunce che si sono poi succedute in tema di prescrizione) fu la volontà di tutelare l’interesse primario del contraente più debole alla conservazione del rapporto di lavoro, qualificando l’inerzia del lavoratore come una sorta di incapacità temporanea a disporre.
La successiva pronuncia della Corte Costituzionale n. 143/1969 definì i caratteri della stabilità che caratterizza(va) il rapporto di pubblico impiego, stabilità che giustificava, al contrario, il decorso della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro. Tale stabilità, rilevò la Corte Costituzionale “è data da una disciplina che normalmente assicura la stabilità del rapporto o delle garanzie di rimedi giurisdizionali contro la illegittima risoluzione di esso, che escludono che il timore del licenziamento possa indurre l’impiegato a rinunciare”.
La sentenza della Corte Costituzionale n. 174/1972 intervenne in un momento in cui erano state da poco introdotte nel nostro ordinamento la legge n. 604/1966 (che generalizza l’obbligo di giustificazione causale del licenziamento) e la legge n. 300/1970 (che, come noto, prevedeva che i licenziamenti illegittimi irrogati nell’ambito delle imprese di maggiori dimensioni organiche fossero sanzionati con la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, secondo lo schema della restitutio in integrum). Pertanto, in considerazione del mutato assetto normativo – tale da introdurre una significativa tutela del lavoratore contro il licenziamento arbitrario ed illegittimo – la Corte Costituzionale ampliò l’ambito dei rapporti lavorativi nei quali non è ravvisabile alcuna condizione di metus del lavoratore: non solo quelli di impiego pubblico o con enti pubblici economici, ma tutti i rapporti privati di lavoro, regolati dalla L. n. 604 del 15 luglio 1966 e dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, perché caratterizzati “da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca le garanzie di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione” in quanto “una vera stabilità non si assicura se all'annullamento dell'avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare”. Conseguentemente, anche nell’ambito dei rapporti di lavoro privati a tempo indeterminato, venne sancita la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto.
Tale principio fu poi ulteriormente chiarito dalle Sezioni Unite di Cassazione con la pronuncia n. 1268 del 12 aprile 1976: la stabilità o resistenza del rapporto di lavoro capace di giustificare la decorrenza immediata della prescrizione ricorre in presenza di una disciplina “che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e la efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo”.
…e quelli che regolano la materia della prescrizione nel rapporto di lavoro a tempo determinato.
Con riferimento ai contratti a tempo determinato, il principio che lega l’individuazione del dies a quo della prescrizione all’eventuale condizione di metus del lavoratore è stato declinato in maniera duale, a seconda del settore, privato o pubblico, nell’ambito del quale tali contratti sono stati conclusi.
Infatti, con riferimento al settore privato, si legge in Cass. S.U. n. 575 del 16 gennaio 2003 “nel caso che tra le stesse parti si succedano due o più contratti di lavoro a termine, ciascuno dei quali legittimo ed efficace, il termine prescrizionale dei crediti retributivi, di cui agli artt. 2948, numero 4, 2955, numero 2, e 2956, numero 1, c.c., inizia a decorrere, per i crediti che sorgono nel corso del rapporto lavorativo dal giorno della loro insorgenza e, per quelli che si maturano alla cessazione del rapporto, a partire da tale momento, dovendo - ai fini della decorrenza della prescrizione - i crediti scaturenti da ciascun contratto considerarsi autonomamente e distintamente da quelli derivanti dagli altri e non potendo assumere alcuna efficacia sospensiva della prescrizione gli intervalli di tempo correnti tra un rapporto lavorativo e quello successivo, stante la tassatività della elencazione delle cause sospensive previste dagli artt. 2941 e 2942 c.c., e la conseguente impossibilità di estendere tali cause al di là delle fattispecie da quest'ultime norme espressamente previste”.
Posto che il rapporto di lavoro di colui che è assunto a tempo determinato è assicurato da stabilità reale (nell’ambito del licenziamento a tempo determinato, peraltro, il recesso è consentito solo nel caso in cui ricorra una giusta causa di recesso), è stato ritenuto che la prescrizione dei diritti del prestatore dovesse decorrere in costanza di rapporto e, quindi, dal giorno della loro insorgenza.
Ciò perché, hanno affermato le Sezioni Unite, “la rinnovazione del relativo rapporto non presente carattere di normalità”, ed il lavoratore ha diritto solo a che il rapporto sia mantenuto in vita sino alla scadenza concordata; non è allora configurabile una situazione di metus che giustifichi una decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi come quella prevista per il lavoro a tempo indeterminato non assistito dal regime di stabilità reale.
Fissato tale principio per i contratti a tempo determinato, la Cassazione ha introdotto un’importante eccezione alla regola, applicabile a tutte quelle ipotesi in cui i singoli contratti a termine siano illegittimi oppure in quei casi in cui “i contratti, pur singolarmente legittimi...vengano a risultare collegati, nella loro pluralità, dall’intento di eludere le disposizioni di legge sul contratto a termine”. In tali fattispecie, infatti, ricorrono quei presupposti di fatto che inducono a ritenere che la prescrizione debba decorrere solo alla cessazione del rapporto lavorativo, “dovendo la situazione psicologica del lavoratore essere valutata in concreto sulla base, cioè, della realtà di fatto che ha influenzato le sua determinazioni e che ha determinato uno stato di costante soggezione nei confronti del datore di lavoro per il perdurante metus di vedere interrotta la continuazione della serie dei rapporti di lavoro”.
Con riferimento al settore del pubblico impiego, invece, anche nell’ipotesi di contratti a termine affetti da nullità è stato ritenuto dovesse valere la medesima regola fissata per i contratti validi ed efficaci stipulati nell’ambito del settore privato; ciò perché, essendo impedita per legge la conversione in un unico rapporto a tempo indeterminato alle dipendenze dello Stato, non è riscontrabile la condizione, valorizzata dalla Corte costituzionale e ritenuta imprescindibile dalle Sezioni Unite, ossia “il timore del recesso, cioè del licenziamento, che spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinunzia a una parte dei propri diritti” (in questi termini Cass. n. 10219 del 28 maggio 2020).
Analogamente, Cass. n. 35676 del 19 novembre 2021, sempre con riferimento al settore del pubblico impiego privatizzato, ha statuito che nell’ipotesi di contratto di lavoro formalmente autonomo, del quale sia successivamente accertata la natura subordinata, la prescrizione dei crediti retributivi decorra durante il rapporto, attesa la mancanza di ogni aspettativa del lavoratore alla stabilità dell'impiego e la conseguente impossibilità di configurare una condizione di metus in ordine alla mancata continuazione del rapporto suscettibile di tutela. Ciò in quanto, come sancito dalla già analizzata Corte Cost. n. 143/1969, “la privatizzazione non ha comportato una totale identificazione tra lavoro pubblico privatizzato e lavoro privato. In particolare, permangono nel lavoro pubblico privatizzato quelle peculiarità individuate dalla Corte Costituzionale, in relazione al previgente regime dell'impiego pubblico, come giustificative di un differente regime della prescrizione: sia in punto di stabilità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato”.
La recente evoluzione del contesto socio-economico-giuridico che giustifica una riconsiderazione della regole in materia di decorrenza della prescrizione nel pubblico impiego privatizzato.
Con l’ordinanza n. 6051/2023 oggetto di commento, la Sezione lavoro muove innanzi tutto da una “ricognizione” dell’attuale contesto socio-economico.
Il lavoro, afferma la Corte, è oggigiorno “sempre più precario e meno garantito, persino nel settore del pubblico impiego”. Viceversa, le decisioni della Corte Costituzionale n. 143/1969 e quella delle Sezioni Unite n. 575/2003, fondavano la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto sull’assunto per cui, nei contratti a tempo determinato, “la non rinnovazione del rapporto si configura quale evento avente carattere di normalità”.
L’attuale contesto del mercato del lavoro, invece, è diametralmente opposto a quello esistente nel 1969 e nel 2003, posto che – afferma la Sezione rimettente – con riferimento ai rapporti a termine la rinnovazione dei contratti a tempo determinato “è la prassi” e, sia nell’impiego pubblico che privato, “rappresenta spesso l'unico canale per giungere, dopo anni, ad un rapporto a tempo indeterminato con lo stesso datore”, dovendosi altresì considerare che “lo stesso pubblico impiego è cambiato”, non potendosi più considerare come un rapporto non contrattuale di servizio sotto l’autorità della P.A. (come appunto avveniva in passato, in un’epoca in cui la assunzioni temporanee del pubblico impiego erano tendenzialmente escluse). In linea di principio, a seguito del D. Lgs. n. 165/2001, il rapporto di pubblico impiego contrattualizzato è “regolato in maniera paritaria rispetto al lavoro privato per tutto quel che non è previsto nel suddetto D.Lgs. n. 165 del 2001 e le eccezioni a tale principio devono essere poste specificamente per legge e, coerentemente, vanno interpretate in senso formale”.
Devono altresì essere tenute nella massima considerazione le modifiche introdotte dal D. Lgs. n. 27/2017, in base alle quali, in caso di accertata illegittimità del licenziamento irrogato al dipendente pubblico, il Giudice dispone la reintegrazione nel posto di lavoro e il pagamento di un’indennità risarcitoria che comunque non può essere superiore nel suo massimo alle 24 mensilità: ciò, ad avviso della Corte, consente di ritenere che “dopo la riforma del 2017 anche nel lavoro pubblico tale reintegrazione non ha più applicazione generale”.
E’ stato poi modificato l’art. 36 del D. Lgs. n. 165/2001 concernente la possibilità la P.A. di stipulare contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, contratti di formazione e lavoro e contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato, nonché di avvalersi delle forme contrattuali flessibili previste dal codice civile e dalle altre leggi sui rapporti di lavoro nell'impresa.
Pertanto, afferma la Corte, “diviene così sempre più problematico giustificare un sistema che individua una differente decorrenza della prescrizione degli identici crediti retributivi di diversi lavoratori che svolgano le stesse mansioni e il cui rapporto di lavoro sia egualmente costituito con la stipula di un contratto individuale e non attraverso un atto di nomina, a seconda semplicemente della loro dipendenza da un datore privato piuttosto che pubblico, tanto più alla luce di un sistema normativo che, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 2, stabilisce che il c.d. pubblico impiego privatizzato sia regolato dalla disciplina di diritto comune salve le eccezioni espresse”.
Se a ciò si aggiunge che la stessa Cassazione, con la sentenza n. 26246/2022 (per un commento di tale pronuncia si veda https://www.studioclaudioscognamiglio.it/la-stabilita-del-rapporto-di-lavoro-e-i-suoi-riflessi-sulla-decorrenza-del-termine-di-prescrizione/), ha rilevato come le modifiche introdotte dalla L. n. 92/2012 e dal D. Lgs. n. 23/2015 al regime sanzionatorio del licenziamento impongono di escludere che, oggigiorno, il rapporto di lavoro privato nelle imprese di maggiori dimensioni sia ancora assistito da una forma di stabilità reale (così come inteso da Corte Costituzionale n. 174/2022), con conseguente esclusione del principio della decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto, allora, sostiene la Corte rimettente, pare opportuno “porre in dubbio l’orientamento attualmente seguito, a prescindere dal fatto che la privatizzazione abbia comportato o meno una maggiore o minore identificazione tra lavoro pubblico privatizzato e lavoro privato”.
In altri termini, pare opportuno mettere in discussione il principio per cui, con riferimento ad una pluralità di contratti a tempo determinato stipulati nell’ambito del pubblico impiego, anche se illegittimi e nulli, la prescrizione debba decorrere in costanza di rapporto, regola che era stata recentemente ribadita da Cass. n. 10219/2020 facendo leva sul presupposto della impossibilità di veder convertito il proprio rapporto un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato che giustificherebbe l’esclusione di una condizione di metus che spinge il lavoratore ad una rinuncia dei propri diritti.
Ciò perché, rileva la Corte, anche nel pubblico impiego, oramai, “più lavoratori, assunti con rapporti di lavoro a tempo determinato sulla base di diversi provvedimenti di nomina, vengono ad occupare il medesimo posto di lavoro ininterrottamente per vari anni e svolgono, in modo costante e continuativo, le medesime funzioni (n.d.r. di quelle svolte dai lavoratori assunti a tempo indeterminato). Il mantenimento continuato di tali lavoratori su detti posti vacanti è conseguenza del mancato rispetto, da parte del datore di lavoro, dell'obbligo di legge ad esso incombente di organizzare entro il termine impartito un procedimento di selezione al fine di coprire i posti vacanti in via definitiva e per effetto di tale situazione i rapporti di lavoro dei citati lavoratori sono, in questo modo, rinnovati come temporanei o implicitamente prorogati di anno in anno”.
La reiterazione di tali assunzioni a tempo determinato “comporta ab initio o, almeno, dal tempo della sua illegittimità, la nascita di un metus oggettivo del lavoratore in ordine all'esercizio di siffatti crediti (n.d.r. retributivi), atteso che la detta reiterazione crea, un assoggettamento del dipendente dalla P.A., che ben potrebbe cessare di confermarlo (legittimamente) senza regolarizzarlo. Inoltre, poiché, in questa maniera, è istituzionalizzata una condizione di strutturale inferiorità del medesimo lavoratore, che esegue la sua prestazione sperando di beneficiare di una procedura di stabilizzazione, rispetto al datore di lavoro, condizione che va ben oltre il metus ed è incompatibile con l'applicazione ai contratti de quibus delle comuni regole civilistiche, anche sulla prescrizione, basate sulla parità fra le parti negoziali”.
Ne consegue che non può ritenersi “obiettivamente ragionevole che lavoratori, consapevoli da anni di dipendere dalla volontà della P.A. di impiegarli per un ulteriore periodo limitato e di non avere di fatto valide tutele, considerato che già la loro reiterata conferma avviene spesso in violazione della vigente normativa, agiscano contro la propria Pubblica amministrazione per domandare differenze retributive”.
Pertanto, conclude la Corte, “venendo in rilievo una diversità di regime tra lavoro a termine nel settore privato e lavoro a termine nel settore pubblico contrattualizzato che quando è nata (nel 1966) rispecchiava il quadro normativo e giurisprudenziale all'epoca vigente ma che oggi non trova più giustificazione e risulta anzi lesiva non solo del diritto UE ma soprattutto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (Cost., art. 3) e del diritto al lavoro (Cost., artt. 4 e 35)”, la questione circa la decorrenza della prescrizione nei rapporti di pubblico impiego deve ritenersi di massima, particolare rilevanza, con conseguente rimessione al Primo Presidente affinché valuti se, su di essa, debbano o meno pronunciarsi le Sezioni Unite.
Breve nota a Cass. n. 2606/2023
Con l’ordinanza n. 2603/2023 la Corte di Cassazione ha colto l’occasione per ribadire alcuni importanti principi di diritto in materia di licenziamento discriminatorio.
Il “licenziamento discriminatorio” è quell’atto di recesso datoriale che è motivato, sia pure non esplicitamente, da una delle ragioni indicate dall’art. 4 L. n. 604/1966, dall’art. 15 L. n. 300/1970, dall’art. 2 D. Lgs. n. 215/2003 e dall’art. 2 D. Lgs. 216/2003; conseguentemente è discriminatorio il licenziamento intimato in ragione dell’appartenenza sindacale del singolo, della sua partecipazione ad uno sciopero o ad altra attività sindacale, per ragioni di razza o origine etnica, per ragioni inerenti alla religione, al sesso, alle convinzioni personali, agli handicap, all’età o all’orientamento sessuale. Un licenziamento che sia intimato per una di tali ragioni, anche se non esplicitate dal datore di lavoro, è nullo; e ciò anche ove ricorrano ulteriori motivi che lo giustifichino, in ipotesi riconducibili alle nozioni di giusta causa o di giustificato motivo.
Anche il licenziamento intimato “per motivo illecito determinante” è nullo. E’ questa una fattispecie di licenziamento di matrice giurisprudenziale, affetta da una nullità di diritto comune, che deriva cioè dal combinato disposto degli articoli 1345, 1324 e 1418 Cod. Civ. Tipico esempio di licenziamento intimato per motivo illecito determinante è il “licenziamento ritorsivo”, con tale intendendosi il recesso intimato dal datore di lavoro che costituisce una ritorsione all’esercizio di un diritto del lavoratore. Si pensi al caso del lavoratore che viene licenziato per aver legittimamente richiesto la fruizione di un periodo di aspettativa. Diversamente da quanto previsto per il licenziamento discriminatorio, affinché il licenziamento per motivo illecito determinante sia nullo è necessario che il motivo ad esso sottostante, oltre ad essere illecito, sia anche l’unico, cioè sia, appunto, il motivo determinante che ha indotto il datore di lavoro a recedere dal rapporto di lavoro. Ne consegue che la contemporanea ricorrenza di ulteriori motivi di recesso (di tipo soggettivo o oggettivo) è tale da escludere la rilevanza del motivo illecito che con essi ha concorso a fondare il recesso.
Per il licenziamento discriminatorio, e non anche per il licenziamento per motivo illecito determinante, è previsto altresì un regime probatorio “agevolato”.
Infatti, se, di norma, cioè ai sensi dell’art. 5 L. n. 604/1966, l’onere di provare la sussistenza della causa del recesso grava sul datore di lavoro, nel caso di licenziamento discriminatorio, non potendo essere richiesto al datore di lavoro di provare un fatto negativo (cioè l’assenza di discriminatorietà del recesso dal medesimo intimato), l’onere di provare la natura discriminatoria grava sul lavoratore licenziato. Quest’ultimo, pertanto, dovrà “allegare e dimostrare il fattore di rischio” (n.d.r. cioè il motivo sottostante alla discriminazione) “e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso” (così, l’ordinanza qui commentata alla pagina 5).
Inoltre, benché la Corte non si sia soffermata sul punto specifico, pare utile soggiungere che, stante la notevolissima difficoltà per il lavoratore di provare il fatto diretto che realizza la discriminatorietà del recesso (fatto che, a ben guardare, sussisterebbe solo nell’inverosimile ipotesi in cui il datore di lavoro mettesse “nero su bianco” che il licenziamento è “motivato” dal credo religioso del lavoratore, o dalla sua opinione politica, o dal suo orientamento sessuale, ecc.) l’art. 28 del D. Lgs. 150/2011 prevede l’operatività di un meccanismo di inversione dell’onere della prova. Più in particolare, è previsto che “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all’assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell’azienda interessata”.
La fattispecie concreta che ha rappresentato l’occasione per la Corte di Cassazione di ribadire i principi più sopra brevemente tratteggiati era quella di un lavoratore, delegato sindacale della RSU presente in azienda, licenziato formalmente per giusta causa. Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento adducendone la discriminatorietà in ragione della propria carica sindacale, dimostrando altresì che il datore di lavoro, al fine di “raccogliere” le prove di suoi ipotetici inadempimenti, aveva “disposto indagini investigative nei suoi confronti e non nei confronti di” altri suoi colleghi “addetti alla medesima linea e che operavano con le sue stesse modalità di lavoro”. A tale proposito, la Corte d’Appello di Firenze, con una motivazione ritenuta ineccepibile dalla Cassazione, aveva ritenuto raggiunta la prova della dedotta discriminatorietà in ragione della avvenuta dimostrazione della diversità di trattamento riservata al dipendente licenziato, “specificando la necessità di un giustificato dubbio, e non di un mero sospetto, al fine di disporre accertamenti investigativi sui dipendenti”.