Lo ha recentemente statuito la Cassazione con la pronuncia n. 37946/2022.
Nell’ambito di una controversia avente ad oggetto la legittimità di un licenziamento intimato per g.m.o. – dichiarato illegittimo dalla Corte di Appello per manifesta insussistenza del nesso causale tra le ragioni organizzative addotte e l’atto datoriale di recesso –, il datore di lavoro, in via subordinata, ha chiesto venisse detratto dall’indennità risarcitoria dovuta al lavoratore quanto quest’ultimo, successivamente al licenziamento, aveva percepito a titolo retributivo in ragione dello svolgimento di un’altra attività lavorativa (è questo, come noto, il c.d. aliunde perceptum).
Sul punto, la Corte ha specificato che per il datore di lavoro non è sufficiente invocare la previsione di legge che prevede la detraibilità di tali somme dall’indennità risarcitoria dovuta al lavoratore licenziato illegittimamente, dovendo “essere ritualmente allegati...dalla parte che lo deduca... gli elementi fattuali posti a fondamento dell’aliunde perceptum”. Solo l’allegazione di quei fatti che sono rilevanti in punto di percezione da parte del lavoratore di altri redditi e, come ovvio, la loro successiva prova in giudizio (sia per effetto della mancata contestazione da parte del lavoratore degli stessi, sia in ragione della loro dimostrazione tramite prova diretta o presuntiva) rende operante la previsione circa la detraibilità dell’aiunde perceptum, non essendo sufficienti richieste istruttorie quali la richiesta di documentazione all’I.N.P.S. o all’Agenzia delle Entrate, “tenuto conto che le richieste istruttorie possono essere correttamente volte alla sola dimostrazione dei fatti ritualmente indicati ed allegati”.
Il caso
Una signora si duole in giudizio del danno non patrimoniale asseritamente arrecatole dalla Società incaricata della fornitura del gas naturale nella sua abitazione. Più in particolare, la sospensione della fornitura del gas per un periodo di più giorni ha impedito alla predetta signora di celebrare con amici e parenti, in aderenza ai precetti religiosi appunto, una festività – vivamente sentita dalla comunità a cui appartiene la danneggiata – che implicava riti di preghiera e culinari di natura collettiva. Afferma, pertanto, di aver subito un danno alla propria libertà religiosa.
I principi di diritto affermati dalla Cassazione con l’ordinanza n. 220/2023
La Suprema Corte ribadisce, innanzi tutto, il principio secondo cui il danno arrecato ad un valore o ad un interesse costituzionalmente rilevante non può coincidere con l’illecito in sé, dovendosi escludere l’ammissibilità e la correttezza giuridica di qualsiasi automatismo che, accertato l’illecito, riconosca il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale a prescindere dalla prova di quest’ultimo.
Inoltre, la natura unitaria del danno non patrimoniale – che può scaturire dalla lesione di un qualsiasi valore o interesse costituzionalmente tutelato – preclude il riconoscimento di voci di danno distinte che però attengono a pregiudizi identici. Ciò che deve essere oggetto di valutazione da parte del giudicante è il c.d. danno morale, “sub specie del dolore, della vergogna, della disistima di sé, della paura, della disperazione”, oltre che gli effetti relativi alla “privazione, diminuzione o modificazione delle attività dinamico relazionali precedentemente esplicate dal danneggiato” (è questo il c.d. danno esistenziale: si vedano, tra le tante Cass. n. 23469 del 28 settembre 2018; Cass. n. 901 del 17 gennaio 2018).
Tuttavia, ulteriore condizione affinché il danno non patrimoniale possa essere risarcito è che l’offesa al valore costituzione protetto “superi la soglia di minima tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale (v. Cass., 12/11/2019, n. 29206), e pertanto non anche allorquando vengano lamentati meri disagi, fastidi, disappunti, ansie, stress e violazioni del diritto alla tranquillità...che costituiscono conseguenze non gravi ed insuscettibili di essere monetizzate perché bagatellari”.
In sostanza, afferma la Corte, il mero “sconvolgimento dell’agenda” ed il mero inconveniente generano esclusivamente un “fastidio” che non è idoneo ad esser risarcito, dovendo anzi essere sopportato proprio in ragione dei doveri di solidarietà sociale che gravano su ogni consociato.
Un principio di diritto che si va consolidando
Già la recente pronuncia n. 33341/2022 della Corte di Cassazione (per un commento della quale si rinvia a https://www.studioclaudioscognamiglio.it/lobbligo-di-repechage-onere-probatorio-e-conseguenze-in-caso-di-inadempimento/) ha affermato che la prova dell’impossibilità di collocare altrove il lavoratore che si intende licenziare per giustificato motivo oggettivo – in conformità di quanto statuito dall’art. 5 L. n. 604/1966 sulla ripartizione degli oneri probatori – ricade sul datore di lavoro.
Cass. n. 34051/2022, che qui brevemente si commenta, si colloca nel solco di tale orientamento, specificando altresì che “fatto costitutivo del giustificato motivo oggettivo è rappresentato sia dalle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore”.
Quindi, richiamato un passo della recente Corte Cost. n. 125/2022 (su cui si veda https://www.studioclaudioscognamiglio.it/lillegittimita-costituzionale-del-requisito-della-manifesta-insussistenza-del-fatto-posto-a-base-del-licenziamento-per-g-m-o/), la Corte di Cassazione ha affermato che in ipotesi di insussistenza del fatto alla base del giustificato motivo oggettivo (ipotesi che appunto si determina ove non sia stato provato uno dei fatti costitutivi del g.m.o., tra cui il c.d. repêchage), il testo dell’art. 18, comma 7°, L. n. 300/1970, “quale risultante all’esito degli interventi della Corte Costituzionale”, prevede che il Giudice applichi il regime sanzionatorio di cui all’art. 18, comma 4°, L. n. 300/1970, disponendo la reintegrazione del lavoratore e la contestuale corresponsione in favore del medesimo di un’indennità ricompresa tra le 12 e le 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.