Il dies a quo di decorrenza del termine di decadenza della richiesta di accertamento della fattispecie interpositoria coincide con la cessazione di qualsiasi rapporto con l’interponente.

Queste le conclusioni cui è pervenuta una recente sentenza del Tribunale di Roma resa in data 8 agosto 2024, in fattispecie avente ad oggetto la domanda del lavoratore di accertamento della illiceità di un appalto di manodopera.

L’art. 32, co. 4, L. n. 183/2010, come è noto, prevede: “Le disposizioni di cui all'articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche: … d) in ogni altro caso in cui, compresa l'ipotesi prevista dall'articolo 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, si chieda la costituzione o l'accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto”.

Nell’interpretazione della norma in questione si è andata accreditando nella più recente giurisprudenza di legittimità la tesi della inapplicabilità del termine di decadenza in questione all’ipotesi di richiesta di accertamento del rapporto di lavoro, ormai risolto, nei confronti di altro datore di lavoro rispetto a quello formale, ove non si rinvenga un atto che neghi la titolarità del rapporto e che il lavoratore abbia interesse a contestare o confutare. Il principio si rinviene in termini chiari, in particolare, in Cass. n. 40652 del 17 dicembre 2021 (commentata sul nostro sito: Decadenza dall’accertamento del rapporto di lavoro con datore diverso da quello formale), secondo cui “sia nei casi di richiesta di costituzione (ove è chiara la volontà dell'istante di ripristino immediato e/o di stabilizzazione) sia nei casi di richiesta di accertamento (ove l'azione dichiarativa richiede un accertamento "ora per allora") dei rapporto di lavoro alle dipendenze di un soggetto diverso dal titolare del contratto, occorre pur sempre un atto o un provvedimento datoriale che renda operativo e certo il termine di decorrenza della decadenza di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. d), in un'ottica di bilanciamento di interessi costituzionalmente rilevanti”(v. anche Cass. n. 30490/2021 e n. 14131/2020).

Il Tribunale, muovendo dal dato normativo di riferimento, e dando atto dell’ampio dibattito giurisprudenziale in merito all’interpretazione della disposizione in esame, si discosta dall’orientamento da ultimo andato accreditandosi presso il Supremo Collegio, ritenendo dover trovare applicazione alla fattispecie dell’appalto illecito, la ricostruzione proposta dalla recente Cass., 3 maggio 2024, n. 11901, seppur resa con riguardo alla diversa fattispecie del distacco.

La sentenza in esame passa dunque in rassegna l’iter motivazionale della pronuncia in questione.

La Cassazione, in quel caso – dando atto dell’esistenza dell’orientamento, ormai prevalente, che richiede ai fini del decorso del termine di decadenza ex art. 32, lett. d), L. 183/2010, un provvedimento in forma scritta che neghi la titolarità del rapporto – ha mosso dalla constatazione che tale scelta interpretativa, pur preservando l’interesse alla certezza giuridica a favore del lavoratore, lascia intatto il “problema” dell’individuazione dell’atto lesivo da impugnare in tutte le ipotesi in cui si intenda far valere la dissociazione tra datore di lavoro formale e datore di lavoro sostanziale.

Allo stesso tempo la sentenza n. 11901/24 ha dato atto che tale problema non possa trovare una generalizzata soluzione nell’introduzione dell’art. 39, D.Lgs. 81 del 2015 – a norma del quale allorché il lavoratore somministrato chieda la costituzione del rapporto di lavoro con l'utilizzatore “trovano applicazione le disposizioni dell'articolo 6 della legge n. 604 del 1966 e il termine di cui al primo comma del predetto articolo decorre dalla data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività presso l'utilizzatore” – in quanto tale disposizione è applicabile alla sola fattispecie della somministrazione irregolare e non ne è consentita una interpretazione estensiva o un’applicazione analogica anche alle diverse fattispecie del distacco e dell’appalto illecito, per le quali (solo) continua a trovare applicazione il termine di cui alla lett. d) dell’art. 32 del Collegato Lavoro.

La Cassazione - pur ribadendo le ragioni di certezza sulla base delle quali i precedenti in materia hanno individuato il dies a quo del termine di decadenza nel momento in cui è intervenuto un atto o provvedimento scritto dal quale sia possibile derivare la fine della dissociazione, con specifico riguardo al caso specifico del distacco - ha affermato che:

- se il distacco è a tempo determinato il dies a quo è quello della scadenza del termine previsto nell’atto scritto di distacco disposto dal formale datore di lavoro, con differimento alla scadenza del termine a tutela del diritto d’azione ex art. 24 Cost.,

- se invece il distacco è a tempo indeterminato, oppure è intervenuto “di fatto”, oppure era in origine a tempo determinato, ma è poi proseguito “di fatto”, il dies a quo è quello in cui sia intervenuto un “qualunque atto gestionale o provvedimento (del distaccatario o del distaccante), in forma scritta, che vi abbia posto fine”.

Il Tribunale di Roma si pone il problema della applicabilità di tali principi, salvi gli opportuni adattamenti, alla diversa fattispecie, sottoposta al suo vaglio, dell’appalto illecito.

In questa prospettiva, osserva il Tribunale che “se il dies a quo della decadenza, secondo i criteri dettati dalla Corte, viene a coincidere con qualunque atto gestionale o provvedimento (di uno dei due datori di lavoro), che vi abbia posto fine ovvero col “fatto tipizzato”, che neghi la titolarità del rapporto stesso (Cass. 17/12/2021, n. 40652)” tale momento deve essere individuato con la data in cui il dipendente è stato estromesso dall’appalto di cui si deduce l’illiceità.

L’estromissione del lavoratore dall’appalto, avvenuta in una precisa data, “costituisce, infatti, inequivocabilmente, un fatto negatorio della titolarità del rapporto” da parte dell’appaltatore.

Tale conclusione, si legge ancora in motivazione, “non solo risulta coerente con la natura intrinsecamente impugnatoria del termine di che trattasi, ma anche con l’esigenza di certezza giuridica, che la Corte ha posto alla base della previsione di tendenziale necessità della forma scritta del provvedimento da contestare”.

Quanto alla sussistenza di un atto di forma scritta che attesti la cessazione della situazione illecita, che la giurisprudenza di legittimità ha individuato quale dies a quo del termine decadenziale, lo stesso non è necessario essendo “la forma scritta sia un requisito introdotto in via interpretativa solo per esigenze di certezza giuridica a favore del lavoratore, non essendo previsto dalla norma”. È d’altronde coerente con questa ricostruzione la circostanza che “nelle azioni volte all’accertamento dell’intercorrenza di un rapporto di lavoro con il preteso effettivo datore di lavoro, l’oggetto del giudizio verte sulla ricostruzione di un rapporto nella sua effettività, e non sulla contestazione diretta di formali atti del reale datore di lavoro, anzi, di solito atti scritti di quest’ultimo, ai fini di gestione del rapporto di lavoro, non ci sono per nulla”.

In questo senso, nemmeno potrebbe porsi in dubbio la consapevolezza da parte del dipendente circa la cessazione della dissociazione, posto che il lavoratore è senz’altro in grado di percepire l’estromissione da qualsiasi rapporto con la parte asseritamente interponente. 

In coerenza coi principi di diritto dettati in sede nomofilattica, e rispettando la coerenza interna ed esterna della norma, il Tribunale di Roma conclude che “il dies a quo di decorrenza del termine di decadenza viene dunque qui collocato esattamente nel momento finale della fattispecie, della quale il lavoratore intendeva qui contestare la legittimità”.

Lo smarrimento del bagaglio è uno dei timori principali per chi si appresta, in questi giorni, di viaggio verso le mete delle vacanze.

Vogliamo quindi segnalare una sentenza del 15 febbraio 2024 del Tribunale di Siracusa, di estrema attualità, per quanto non di recentissima pubblicazione.

La vicenda è consueta: il viaggiatore subisce lo smarrimento del bagaglio in occasione di un viaggio in crociera e agisce per ottenere il risarcimento del danno da “vacanza rovinata” oltre che del danno, di natura patrimoniale, derivante dai costi sostenuti per l'acquisto dei beni necessari a godere della vacanza.

Il c.d. danno da “vacanza rovinata” trova la propria fonte nell’art. 46 D.Lgs. 79 del 2011, a norma del quale “nel caso in cui l'inadempimento delle prestazioni che formano oggetto del pacchetto non è di scarsa importanza ai sensi dell'articolo 1455 del codice civile, il viaggiatore può chiedere all'organizzatore o al venditore, secondo la responsabilità derivante dalla violazione dei rispettivi obblighi assunti con i rispettivi contratti, oltre ed indipendentemente dalla risoluzione del contratto, un risarcimento del danno correlato al tempo di vacanza inutilmente trascorso ed all'irripetibilità dell'occasione perduta”.

Il danno non patrimoniale da vacanza rovinata, costituisce, dunque, uno dei casi previsti dalla legge ai sensi dell'art. 2059 c.c., ed è, pertanto, risarcibile all'esito del riscontro della gravità della lesione e della serietà del danno, da apprezzarsi alla stregua del bilanciamento del principio di tolleranza delle lesioni minime e della condizione concreta delle parti (Cass., sez. III, 07/09/2023, n. 26142).

La stessa norma racchiusa nell'art. 2059 c.c., secondo l'interpretazione ormai accreditata a partire dalle sentenze di Cass. S.U. 26972 - 5 dell'11 novembre 2008, deve essere intesa nel senso che non tutti i danni non patrimoniali possono essere risarciti ma solo quelli che superino la soglia minima di tollerabilità (imposto dai doveri di solidarietà sociale) e che non siano futili (vale a dire che non consistano in meri disagi o fastidi), secondo una valutazione rimessa al giudice di merito.

Il Tribunale di Siracusa ha ritenuto che la parte attrice:

  • ha dato prova “di non avere potuto fruire del proprio bagaglio”;
  • ha anche dimostrato che “lo smarrimento del proprio bagaglio non gli ha permesso di godere e di sfruttare al massimo il piacere del viaggio in quanto con la mancanza dei propri effetti personali e del proprio abbigliamento non ha potuto partecipare ad escursioni, attività sportive e serate a tema causandogli un evidente stato di stress che non gli ha consentito di rilassarsi come aveva previsto”.

Ha quindi riconosciuto la sussistenza di un danno non patrimoniale (“da vacanza rovinata”) risarcibile, quantificato in via equitativa “tenendo conto della irripetibilità del viaggio, del valore soggettivo attribuito alla vacanza dal consumatore e dello stress subito a causa dei disservizi”.

È stata, invece, disattesa la domanda di risarcimento dei danni di natura patrimoniale per le spese sostenute per l'acquisto di beni ordinari necessari per la vacanza. Il Tribunale, in particolare, ha escluso sia stata raggiunta la prova di un danno economico in quanto il viaggiatore “è tornato in possesso del proprio bagaglio e in quanto dalla documentazione delle spese sostenute vi è la presenza di spese, quali acquisto di occhiali da sole e articoli di gioielleria, che non possono in alcun modo considerarsi beni ordinari necessari allo svolgimento della propria vacanza”.

Il rischio di smarrire il bagaglio è quindi sempre in agguato, ma il viaggiatore/consumatore ha la possibilità di vedersi ristorato, quanto meno del pregiudizio di natura non patrimoniale per il mancato pieno godimento della vacanza, sempre che sia superata la soglia del mero disagio.

Con sentenza n. 146 depositata il 25 luglio 2024 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, del Decreto Legge 10 maggio 2023, n. 51, convertito, con modificazioni, nella Legge 3 luglio 2023, n. 87, nella parte in cui prevede la cessazione anticipata dalla carica, a decorrere dal primo giugno 2023, per i sovrintendenti delle fondazioni lirico-sinfoniche che, alla data di entrata in vigore del decreto-legge, abbiano compiuto il settantesimo anno di età, indipendentemente dalla data di scadenza degli eventuali contratti in corso.

La Corte ha ritenuto tale disposizione in contrasto con l’art. 77 Cost., sottolineando che “la pre-esistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e l’urgenza di provvedere tramite l’utilizzazione di uno strumento eccezionale, quale il decreto-legge, costituisce un requisito di validità costituzionale dell’adozione del predetto atto, di modo che l’eventuale evidente mancanza di quel presupposto configura tanto un vizio di legittimità costituzionale del decreto-legge, in ipotesi adottato al di fuori dell’ambito delle possibilità applicative costituzionalmente previste, quanto un vizio in procedendo della stessa legge di conversione”.

Infatti, “I limiti costituzionali alla decretazione d’urgenza e alla legge di conversione non sono funzionali solamente al rispetto degli equilibri fondamentali della forma di governo, ma valgono anche a scoraggiare un modo di legiferare caotico e disorganico che pregiudica la certezza del diritto”.

Applicando tali principi, la Corte ha concluso che la disposizione che sancisce l’immediata cessazione dagli incarichi in corso, a decorrere da una data individuata nel primo giugno 2023, non presenta alcuna correlazione con le finalità di salvaguardare l’efficienza delle fondazioni liricosinfoniche, peraltro enunciate nel preambolo del decreto-legge «in termini generici e apodittici».

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