Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la proposizione da parte dell'opposto nella comparsa di risposta di domande alternative a quella introdotta in via monitoria è ammissibile se tali domande trovano il loro fondamento nel medesimo interesse che aveva sostenuto la proposizione del ricorso per decreto ingiuntivo.

Questo, in sintesi, il principio affermato dalle Sezioni Unite, con sentenza del 15 ottobre 2024, n. 26727.

La vicenda processuale trae origine dal decreto ingiuntivo emesso in favore di una S.r.l. nei confronti dell’Azienda Sanitaria Locale e della Regione ed avente ad oggetto il pagamento di prestazioni sanitarie. A fronte dell’opposizione proposta dalle debitrici, nell’ambito delle quali entrambi avevano eccepito l’invalidità del contratto da cui sarebbe scaturita la prestazione dedotta in giudizio, la creditrice aveva proposto domanda riconvenzionale avente ad oggetto l’accertamento, in via subordinata, del diritto al risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale ovvero, in via ulteriormente subordinata, l’accertamento di un ingiustificato arricchimento.

I giudici del merito avevano ritenuto inammissibili le domande riconvenzionali dell’opposto non essendo le stesse conseguenti ad una domanda riconvenzionale proposta dalle opponenti (convenute sostanziali).

La Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione ha pronunciato, ai sensi dell'articolo 374 c.p.c., ordinanza interlocutoria n. 20476 del 17 luglio 2023 di rimessione degli atti alla Prima Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite in ordine alla questione insita nel quarto motivo del ricorso, che denunciava la violazione del combinato disposto degli articoli 645, secondo comma, 167, secondo comma, e 183, quinto comma, c.p.c., per avere il giudice d'appello erroneamente ritenuto inammissibili le domande di condanna al risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale di cui all'articolo 1337 c.c. e all'indennizzo di cui all'articolo 2041 c.c.

Con l'ordinanza di rimessione, sono stati formulati due quesiti:

a) se nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo il convenuto opposto possa proporre una domanda nuova, diversa da quella avanzata nella fase monitoria, anche nel caso in cui l'opponente non abbia proposto una domanda o una eccezione riconvenzionale e si sia limitato a proporre eccezioni chiedendo la revoca del decreto opposto;

b) se, ed entro quali limiti, possa considerarsi ammissibile la modificazione della domanda di adempimento contrattuale avanzata con il ricorso per decreto ingiuntivo attraverso la proposizione di una domanda d'indennizzo per ingiustificato arricchimento o di una domanda di risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale.

Le Sezioni Unite muovono dalla ricognizione dell’insegnamento della giurisprudenza di legittimità in materia di limiti alla facoltà delle parti di modificare l’originaria domanda nell’ambito del giudizio ordinario.

Il richiamo immediato è alla nota sentenza delle Sezioni Unite n. 12310 del 2015, la quale ha chiarito che “La modificazione della domanda ammessa a norma dell'art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi identificativi della medesima sul piano oggettivo (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti in ogni caso connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, e senza che per ciò solo si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte ovvero l'allungamento dei tempi processuali. Ne consegue che deve ritenersi ammissibile la modifica, nella memoria all'uopo prevista dall'art. 183 c.p.c., della iniziale domanda di esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto in domanda di accertamento dell'avvenuto effetto traslativo”.

Tale principio ha, nella sostanza, spostato la ratio della norma dal perimetro formale (che imponeva l’identità di petitum e causa petendi) a quello dell’interesse tutelabile, consentendo la modifica di tutti gli elementi identificativi della domanda originaria, con l’unico limite della stessa “vicenda sostanziale dedotta in giudizio”. Come evidenziato dalla sentenza in commento, questa conclusione “costituisce una interpretazione più adeguata ai principi di economia processuale e ragionevole durata del processo per la sua idoneità «a favorire una soluzione della complessiva vicenda sostanziale ed esistenziale», limitando il «rischio di giudicati contrastanti» e garantendo l'effettività della tutela rispetto al formalismo”.

Con specifico riguardo alla domanda di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c., Cass., Sez. Un., 13 settembre 2018, n. 22404, muovendo dai principi sopra passati in rassegna, ha affermato che tale domanda può essere proposta “in via subordinata, con la prima memoria ex art. 183, sesto comma, c.p.c., nel corso del processo introdotto con domanda di adempimento contrattuale, qualora si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, trattandosi di domanda comunque connessa (per incompatibilità) a quella inizialmente formulata”.

Ribadite dunque le condizioni di ammissibilità della domanda di arricchimento senza causa nei termini processuali entro i quali è consentita la modifica della domanda, le Sezioni Unite passano alla verifica della applicabilità del medesimo principio allo specifico giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.

La sentenza dà conto dell’ampio dibattito giurisprudenziale circa la natura di impugnazione o di ordinario giudizio di cognizione del procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, aderendo al principio da ultimo affermato da Cass., Sez. Un., 13 gennaio 2022, n. 927, secondo cui “L'opposizione prevista dall'art. 645 c.p.c. non è una "actio nullitatis" o un'azione di impugnativa nei confronti dell'emessa ingiunzione, ma un ordinario giudizio sulla domanda del creditore che si svolge in prosecuzione del procedimento monitorio, non quale giudizio autonomo, ma come fase ulteriore - anche se eventuale - del procedimento iniziato con il ricorso per ottenere il decreto ingiuntivo”.

Deve allora essere verificata, nella prospettiva delle Sezioni Unite, la compatibilità dei principi affermati da Cass, Sez. Un., n. 12310/15 con riguardo al giudizio ordinario di cognizione al peculiare procedimento di opposizione. Onde verificare se l’opposto (che, processualmente, è convenuto ma, sostanzialmente, assume il ruolo di attore)  possa proporre una domanda “modificata” “senza, quindi, che il contenuto della domanda monitoriamente introdotta restringa e incida, e senza altresì che la presenza di una domanda o di una eccezione riconvenzionale né debba definire il perimetro”.

L’orientamento più risalente ha ritenuto “ammissibile la domanda di arricchimento senza causa avanzata con la comparsa di costituzione e risposta dall'opposto (che riveste la posizione sostanziale di attore) soltanto qualora l'opponente abbia introdotto nel giudizio, con l'atto di citazione, un ulteriore tema di indagine, tale che possa giustificare l'esame di una situazione di arricchimento senza causa. In ogni altro caso, all'opposto non è consentito di proporre, neppure in via subordinata, nella comparsa di risposta o successivamente, un'autonoma domanda di arricchimento senza causa, la cui inammissibilità è rilevabile d'ufficio dal giudice” (così, Cass. Sez. Un., 27 dicembre 2010, n. 26128). Nello stesso senso, tra le più recenti, la sentenza in commento richiama Cass., 22 giugno 2018, n. 16564, la quale afferma che “Nell'ordinario giudizio di cognizione, che si instaura a seguito dell'opposizione a decreto ingiuntivo, l'opposto, rivestendo la posizione sostanziale di attore, non può avanzare domande diverse da quelle fatte valere con il ricorso monitorio, salvo il caso in cui, per effetto di una riconvenzionale formulata dal opponente, egli si venga a trovare, a sua volta, nella posizione processuale di convenuto, al quale non può essere negato il diritto di difesa, rispetto alla nuova o più ampia pretesa della controparte, mediante la proposizione (eventuale) di una "reconventio reconventionis" che deve, però, dipendere dal titolo dedotto in causa o da quello che già appartiene alla stessa come mezzo di eccezione ovvero di domanda riconvenzionale”.

In senso contrario – e in applicazione del principio affermato da Cass, Sez. Un., n. 12310/15 e Cass., Sez. Un., n. 22404/18 – la più recente giurisprudenza di legittimità ha concluso che “In tema di opposizione a decreto ingiuntivo, il convenuto opposto può proporre con la comparsa di costituzione e risposta tempestivamente depositata una domanda nuova, diversa da quella posta a fondamento del ricorso per decreto ingiuntivo, anche nel caso in cui l'opponente non abbia proposto una domanda o un'eccezione riconvenzionale e si sia limitato a proporre eccezioni chiedendo la revoca del decreto opposto, qualora tale domanda si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, attenga allo stesso sostanziale bene della vita e sia connessa per incompatibilità a quella originariamente proposta, ciò rispondendo a finalità di economia processuale e di ragionevole durata del processo e dovendosi riconoscere all'opposto, quale attore in senso sostanziale, di avvalersi delle stesse facoltà di modifica della domanda riconosciute, nel giudizio ordinario, all'attore formale e sostanziale dell'art. 183 c.p.c.” (così Cass. sez. 1, 24 marzo 2022 n. 9633; Cass. sez. 3, ord. 22 settembre 2023 n. 27183 e Cass. sez. 3, ord. 27 novembre 2023 n. 32933).

Dando seguito a tale orientamento, le Sezioni Unite, con la sentenza in commento, rilevano che la lettura restrittiva del ruolo di opposto, legittimato a proporre solo domanda riconvenzionale, “non è più sostenibile, in quanto nella comparsa di costituzione l'opposto è legittimato a proporre non solo domande «reattive» stricto sensu - cioè riconvenzionali -, ma altresì domande che, sempre come qualificate dall'arresto del 2015 e confermate da quello susseguente del 2018, rientrano nell'area sostanziale sottesa alla domanda originaria, ovvero sono domande aggiuntive/alternative, sovente collocate in posizione di subordine, ammissibili perché rapportate al medesimo interesse”.

Su queste premesse, la Cassazione conclude che “la proposizione nella comparsa di risposta nella causa in esame, da parte dell'opposto, di domande come quelle, qui prospettate, ex articolo 2041 c.c. ed ex articolo 1337 c.c. è ammissibile, ben potendo a livello generale/astratto riconoscersi anche a loro fondamento l'interesse - dell'originario ricorrente - in relazione alla vicenda, originariamente tradotto in azione d'adempimento contrattuale: invero, il petitum di tali domande alternative risulta almeno in parte corrispondente alla prima pretesa avanzata in via monitoria. L'interesse, infatti, come è stato chiarito dall'arresto del 2015, è il presupposto legittimante l'introduzione di una domanda alternativa, introduzione che non può essere inibita - come lo era, secondo l'ottica ermeneutica anteriore a tale revirement - dalla diversità/novità in sé di causa petendi e petitum rispetto alla prospettazione originaria”.

Si chiede, infine, la Corte se l’opposto possa proporre domande alternative in un momento successivo alla comparsa di risposta. Sul punto, la sentenza in esame conclude che “in un'ottica di parità e in correlato riferimento al canone della correttezza processuale di cui all'articolo 88, primo comma, c.p.c. - includente anche, per logica, semplificazione - chi ha avviato il giudizio per via monitoria ha facoltà di introdurre nella comparsa di risposta le domande alternative che eventualmente intenda presentare, non potendo invece riservarle fino all'«ultimo giro» offerto dall'articolo 183, sesto comma, c.p.c. Fino a quest'ultimo, comunque, a seconda dell'evoluzione difensiva dell'opponente posteriore alla comparsa di risposta, gli sarà consentito proporre domande come manifestazioni di difesa, anche se non stricto sensu riconvenzionali”.

È stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 238 del 10 ottobre 2024 il D.Lgs. 7 ottobre 2024, n. 144 recante norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del Regolamento (UE) 2022/868 del 30 maggio 2022 (Data Governance Act – DGA), relativo alla governance europea dei dati. Il Decreto entrerà in vigore il 25 ottobre 2024.

Il Data Governance Act è atto volto a disciplinare le specifiche condizioni per un “riutilizzo dei dati” in possesso di enti pubblici.

Il Decreto Legislativo, dunque, a livello nazionale, disciplina determinati aspetti (tra cui la designazione degli organismi competenti per assistere gli enti pubblici che, ai sensi del DGA, concedono o rifiutano l'accesso al riutilizzo di dati, nonché l’individuazione dell’autorità competente a svolgere i compiti relativi alle procedure connesse ai servizi di intermediazione dei dati), la cui regolamentazione è stata demandata ai singoli Stati

La novità più rilevante del D.Lgs. 144/2024 è la individuazione dell’Agenzia per l’Italia digitale «AgID» quale “autorità competente allo svolgimento dei compiti relativi alla procedura di notifica per i servizi di intermediazione dei dati, nonché quale autorità competente alla registrazione di organizzazioni per l'altruismo dei dati”.

Il D.Lgs. 144/2024 individua poi l’apparato sanzionatorio, in applicazione degli articoli 7, 13 e 23 e 34 del DGA.

Il provvedimento si inserisce nel solco dei più recenti provvedimenti volti a disciplinare l’impatto dell’Intelligenza Artificiale nei vari settori socio-economici. Sul punto si rimanda ai commenti, sul nostro sito, in merito all'introduzione delll’AI Act (Maria Santina Panarella, Intelligenza Artificiale: anche il Consiglio ha approvato il testo dell'AI Act, ed ancora, L’Artificial Intelligence Act è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’UE). Si veda anche il Parere del Garante della Privacy in relazione allo schema di disegno di legge recante disposizioni e deleghe in materia di intelligenza artificiale (di cui si è data notizia sul nostro sito: Maria Santina Panarella, Disegno di legge in materia di intelligenza artificiale: pubblicato il parere del Garante Privacy).

È legittimo il licenziamento intimato in forza di una previsione contrattuale collettiva che configura l’assenza protrattasi per più di un anno, in conseguenza dell’applicazione di una misura cautelare, quale causa di risoluzione del rapporto per impossibilità sopravvenuta della prestazione

Questo il principio affermato dalla Cassazione con la ordinanza n. 26208 del 7 ottobre 2024.

Un lavoratore, sottoposto ad arresti domiciliari, veniva, dapprima, sospeso dalla prestazione lavorativa e, quindi, trascorso un anno, licenziato ai sensi dell’art. 34 CCNL Elettrici ratione temporis applicabile.

Quest’ultima disposizione prevede, infatti, che, in caso di “interruzione del servizio dovuta a provvedimenti restrittivi della libertà personale del lavoratore o comunque tali da impedirne la prestazione lavorativa … è fatta salva, ove già esistente a livello aziendale, la conservazione del rapporto di lavoro del lavoratore non in prova (per un periodo di 12 mesi), che rimane sospeso a tutti gli effetti, senza alcuna corresponsione né decorrenza di anzianità … Alla scadenza dei dodici mesi si realizza la risoluzione del rapporto di lavoro con la corresponsione dell’indennità sostitutiva del preavviso”.

L’ordinanza in commento muove dalla ricognizione della più recente giurisprudenza di legittimità, la quale ha chiarito, ormai da tempo, che “La sottoposizione del lavoratore a carcerazione preventiva per fatti estranei al rapporto di lavoro non costituisce inadempimento degli obblighi contrattuali, ma consente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ove, in base ad un giudizio "ex ante", tenuto conto di ogni circostanza rilevante ai fini della determinazione della tollerabilità dell'assenza (tra cui le dimensioni dell'impresa, il tipo di organizzazione tecnico-produttiva, le mansioni del dipendente, il già maturato periodo di sua assenza, la ragionevolmente prevedibile ulteriore durata dell'impedimento, la possibilità di affidare temporaneamente ad altri le mansioni senza necessità di nuove assunzioni), non persista l'interesse del datore di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente, senza che sia configurabile, inoltre, a carico del datore di lavoro, l'obbligo del cd. "repêchage"” (in questi termini, Cass., sez. lav., 10/03/2021, n.6714).

Il provvedimento in esame, dunque, ritiene l’art. 34 CCNL Elettrici, sopra trascritto, conforme alla normativa sui licenziamenti, operando ex ante il bilanciamento degli interessi contrapposti delle parti, richiesto dalla giurisprudenza sopra richiamata e, in particolare, prefigurando l’assenza prolungata per più di dodici mesi quale fatto tale da determinare il venir meno dell’interesse datoriale all’eventuale e futura prestazione residua.

La norma contrattuale collettiva, secondo quanto precisato dalla Cassazione nel caso di specie, “configura il recesso come determinato dalla mancanza di un interesse apprezzabile all'adempimento parziale della prestazione, rimanendo la persistenza o meno di un interesse rilevante a ricevere le possibili prestazioni, in ipotesi di assenza dal lavoro per carcerazione preventiva o altra misura cautelare, da parametrare alla stregua di criteri oggettivi, riconducibili a quelli fissati nell'ultima parte dell'art. 3 della legge n. 604/1966, e cioè con riferimento alle oggettive esigenze dell'impresa, da svolgere, però, con una valutazione ex ante, e non già ex post, in cui si tenga conto delle dimensioni dell'impresa, del tipo di organizzazione tecnico-produttiva, della natura ed importanza delle mansioni del dipendente, del già maturato periodo di sua assenza, della ragionevole prevedibilità di ulteriore durata dell'impossibilità, della possibilità di affidare temporaneamente ad altri le mansioni senza necessità di nuove assunzioni e, più in generale, di ogni altra circostanza rilevante ai fini della determinazione della tollerabilità dell'assenza”.

La Corte territoriale si è attenuta a tale principio, accertando che il protrarsi dell'assenza del dipendente, per più di un anno, fosse tale da determinare la perdita di interesse del datore di lavoro all'eventuale prestazione residua, avendo riguardo alle possibili e prevedibili capacità lavorative del prestatore e all'organizzazione dell'azienda, legittimando il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La valutazione svolta circa l'interesse dell'imprenditore alla prestazione lavorativa si sottrae al sindacato di legittimità, in quanto sorretta da motivazione congrua.

Su queste premesse, l’ordinanza in commento ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto la legittimità del licenziamento.

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