Il post su Twitter non esime l'autore dal necessario rispetto della continenza espressiva in quanto non può concretizzare una manifestazione del pensiero irresponsabile sol perché veicolata tramite il mezzo prescelto. Questo il principio affermato dalla ordinanza della Corte di Cassazione del 16 maggio 2023, n. 13411.

La vicenda trae origine dalla domanda proposta dalla Consob contro un ex Senatore della Repubblica per ottenere il risarcimento dei danni derivanti un post su Twitter gravemente lesivo dell’onorabilità dell’Ente.

La Cassazione individua, innanzi tutto, i limiti del controllo di legittimità in tema di danni da diffamazione, ribadendo che «la valutazione del contenuto degli scritti, l'apprezzamento in concreto delle espressioni usate come lesive dell'altrui reputazione e la valutazione dell'esistenza o meno dell'esimente dell'esercizio dei diritti (di cronaca e) di critica costituiscono oggetto di accertamenti in fatto, riservati al giudice di merito e insindacabili in sede di legittimità se sorretti da argomentata motivazione» (su tutte, Cassazione civile sez. III, 27/01/2015, n.1435).

Fatte queste premesse, l’ordinanza in commento disattende la censura, proposta dal ricorrente, attinente alla mancata considerazione del contesto di critica politica entro cui erano state rese le dichiarazioni affidate a un post su Twitter.

La Cassazione rileva che «il legittimo esercizio del diritto di critica - anche in ambito latamente politico - sebbene consenta il ricorso a toni aspri e di disapprovazione più pungenti e incisivi rispetto a quelli comunemente adoperati nei rapporti tra privati, è pur sempre condizionato dal limite della continenza intesa come correttezza formale dell'esposizione e non eccedenza dai limiti di quanto strettamente necessario per il pubblico interesse».

Nel senso del necessario rispetto del limite della contenenza anche nel caso di critica politica si è costantemente espressa la Corte di Cassazione. In particolare, è stato rilevato che «il legittimo esercizio del diritto di critica - anche in ambito politico, ove è consentito il ricorso a toni aspri e di disapprovazione più pungenti e incisivi rispetto a quelli comunemente adoperati nei rapporti tra privati - è pur sempre condizionato, come quello di cronaca, dal limite della continenza, intesa come correttezza formale dell'esposizione e non eccedenza dai limiti di quanto strettamente necessario per il pubblico interesse» (tra le più recenti, Cass. civ., 12 aprile 2022, n.11767).

Sotto altro profilo, deve evidenziarsi che la Corte Costituzionale, con sentenza del 1 dicembre 2022, n.241, ha chiarito che non rientra nell’ambito di applicazione dell’art, 68 Cost. la condotta del deputato che pubblica su Facebook affermazioni offensive della reputazione altrui in assenza di un “nesso funzionale” con l'attività parlamentare posta in essere.

Né rileverebbe, ai fini di una diversa considerazione del contenuto lesivo delle affermazioni, la circostanza che le stesse siano affidate ad un post su un social network, quale Twitter. Infatti – osserva il Supremo Collegio - «nella formulazione di qualunque giudizio critico si possono utilizzare espressioni anche lesive della reputazione altrui, ma purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall'opinione o comportamento preso di mira, e non si risolvano, invece, in un'aggressione gratuita e distruttiva dell'onore e della reputazione del soggetto interessato».

Tale considerazione si pone nel solco del costante insegnamento del Supremo Collegio, secondo cui l'esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione; l’operare della predetta esimente non è tuttavia escluso dall'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico in quanto non hanno adeguati equivalenti. In questi termini si è espressa Cass. pen., 29 novembre 2019, n. 15089, secondo cui «l'esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione, ma non vieta l'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico in quanto non hanno adeguati equivalenti»). Nello stesso senso, ancora di recente, la Cassazione ha ribadito che «in tema di diffamazione, nel caso di condotta realizzata attraverso social network, nella valutazione del requisito della continenza, ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, si deve tener conto non solo del tenore del linguaggio utilizzato, ma anche dell'eccentricità delle modalità di esercizio della critica» (così, Cass. pen., 18 gennaio 2021, n. 8898).

In questa prospettiva, deve registrarsi il medesimo orientamento persino in materia di satira, con riguardo alla quale è stato, ancora di recente, ribadito che, costituendo la stessa «una modalità corrosiva e spesso impietosa del diritto di critica»,  diversamente da quest'ultimo è «sottratta al parametro della verità, in quanto esprime mediante il paradosso e la metafora surreale un giudizio ironico su un fatto», ma rimane assoggettata «al limite della continenza e della funzionalità delle espressioni o delle immagini rispetto allo scopo di denuncia sociale o politica perseguito». Di conseguenza, «nella formulazione del giudizio critico, possono essere utilizzate espressioni di qualsiasi tipo, anche lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall'opinione o comportamento preso di mira e non si risolvano in un'aggressione gratuita e distruttiva dell'onore e della reputazione del soggetto interessato, e a patto che la presentazione in veste ironica e scherzosa non divenga lo strumento per diffondere informazioni false, oltre che offensive, quantomeno nel loro nucleo essenziale» (Cass. pen., 2 febbraio 2023, n.12101).

Pertanto, si legge nell’ordinanza in commento, anche l’uso di una piattaforma quale Twitter «implica l'osservanza del limite intrinseco del giudizio che si posta in condivisione, il quale, come ogni giudizio, non può andar disgiunto dal contenuto che lo contraddistingue e dalla forma espressiva, soprattutto perché tradotto in breve messaggio di testo per sua natura assertivo o scarsamente motivato».

Su queste premesse la Corte di Cassazione conferma la condanna dell’ex Senatore al risarcimento dei danni subiti dall’ente regolatore.  

La prescrizione del diritto al risarcimento del danno da illecito endofamiliare decorre solo dal momento dell’effettiva cessazione della condotta contraria ai doveri di genitore e comunque dal momento della concreta percepibilità del danno da parte della vittima.

Inoltre, la cessazione dell'obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti, ai fini del decorso della prescrizione, non può prescindere dall’accertamento dell'assolvimento da parte del genitore dell'obbligo di mantenimento, dato che l'adempimento di tale dovere costituisce la condizione imprescindibile per lo sviluppo personale e professionale del figlio maggiorenne.

Questi i principi affermati dalla Cassazione, con la sentenza n. 9930 del 13 aprile 2023.

La vicenda decisa dal Supremo Collegio trae origine dalla domanda risarcitoria proposta dal figlio nei confronti del padre adottivo per avere questi tenuto nei suoi confronti comportamenti contrari agli obblighi genitoriali, di mantenimento, istruzione ed educazione, così provocandogli un forte disagio personale e sociale, di cui ha chiesto il ristoro.

Come rilevato dalla sentenza in esame “totale disinteresse dimostrato da un genitore nei confronti del figlio integra, da un lato, la violazione degli obblighi di mantenimento, di istruzione e di educazione, e determina, dall'altro, un'inevitabile e insanabile ferita di quei fondamentali diritti nascenti dal rapporto di filiazione, che trovano nella Carta costituzionale (in particolare, negli artt. 2 e 30) e nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento un livello assoluto di riconoscimento”. In particolare, l’abbandono parentale consiste “nel mancato adempimento di tutti gli obblighi che il genitore assume nei confronti della prole: una completa e costante assenza di un genitore nella vita filiale, dunque, è ritenuto un indiscutibile esempio di illecito omissivo di carattere permanente”.

La Corte territoriale aveva ritenuto estinto per prescrizione sia il diritto al risarcimento del danno da illecito endofamiliare che il diritto al mantenimento.

In particolare, i giudici del merito avevano preso le mosse dalla qualificazione dell’illecito endofamiliare in termini di illecito permanente, con riguardo al quale – secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite (Cass. SS.UU., 14 novembre 2011, n. 23763) – “protraendosi la verificazione dell'evento in ogni momento della durata del danno e della condotta che lo produce, la prescrizione ricomincia a decorrere ogni giorno successivo a quello in cui il danno si è manifestato per la prima volta, fino alla cessazione della predetta condotta dannosa, sicché il diritto al risarcimento sorge in modo continuo via via che il danno si produce, ed in modo continuo si prescrive se non esercitato entro cinque anni dal momento in cui si verifica”.

Pertanto, a giudizio della Corte territoriale, il dies a quo del termine di prescrizione dell’azione andava individuato nel momento della cessazione del rapporto tra padre e figlio ovvero del raggiungimento da parte di quest’ultimo dell’autosufficienza economica ovvero del mancato svolgimento di attività economica per negligenza imputabile allo stesso figlio (in questi termini, Cass. 24 gennaio 2018, n. 1744).

La sentenza in commento muove, invece, dall’assunto che “l’illecito endofamiliare si caratterizza per una serie di omissioni protrattesi per un apprezzabile lasso di tempo, suscettibile di essere interrotta in ogni momento soltanto per effetto di una radicale modificazione del proprio atteggiamento genitoriale, e cioè solo con l'adempimento degli obblighi dovuti alla prole”. Di conseguenza, “finché la situazione di assenza, disinteresse, abbandono - integrata, come nella specie, dal consapevole e costante rifiuto di adempiere ai propri doveri di padre – non viene rimossa, l'illecito si perpetua nel tempo, restando attuale ed eguale a sé stesso, in ragione del fatto che il comportamento produttivo di danno non può ritenersi commesso unico actu”.

Tale ricostruzione discenderebbe, secondo quanto precisato dalla Corte, dalla configurazione dell’illecito permanente quale “fattispecie complessa ed a formazione progressiva, nel senso che il protrarsi dell'offesa proviene da un comportamento volontario dell'autore che prosegue senza interruzione, per cui egli è in grado in qualsiasi momento di porre fine a tale situazione dannosa” (cfr., di recente, Cass. 01/03/2023, n. 6177).

Su queste premesse, la Cassazione ribalta la conclusione della sentenza di merito nella parte in cui ha fatto coincidere la cessazione del comportamento illecito non con il venir meno dell’abbandono per effetto del recupero del rapporto parentale (o perché il genitore non fosse in grado di provvedere all’assistenza del figlio per causa a lui non imputabile) ma con la materiale cessazione del rapporto ovvero con il raggiungimento dell’autosufficienza del figlio. Sennonché, sarebbe contraddittorio con i caratteri dell’illecito permanente, attribuire alla persistenza della condotta omissiva del padre (che ha continuato a non accogliere il figlio e non lo ha nemmeno informato della morte della madre) il valore di atto di cessazione della condotta illecita, e dunque di dies a quo del termine prescrizionale.

Sotto altro profilo, a giudizio della sentenza in commento, il giudice del merito, ai fini della determinazione dies a quo dell’azione risarcitoria, non deve limitarsi a individuare il momento di cessazione dell’illecito endofamiliare (comunque, erroneamente, fatto coincidere dalla Corte territoriale con l’interruzione dei rapporti fra le parti), ma è chiamato ad indagare se la vittima dell’abbandono “fosse pervenuta ad una reale condizione emotiva di consapevole esercitabilità del diritto risarcitorio come sopra illustrato”.

Così opinando la sentenza in esame ha ritenuto di dare piena applicazione al più recente insegnamento del Supremo Collegio (ordinanza Cass., 10 giugno 2020, n. 11097, ed ancora, negli stessi termini, Cass., 6 ottobre 2021, n. 27139 e Cass., 28 novembre 2022, n. 34950), secondo cui “L'abbandono genitoriale, quale costante omissione di tutti gli obblighi che il genitore ha nei confronti della prole, integra un illecito endofamiliare permanente, cosicché la peculiare natura di tale danno, che investe la progressiva formazione della personalità del danneggiato condizionando le sue capacità di comprensione e autodifesa, incide sul 'dies a quo' della prescrizione, da individuarsi nel momento in cui la vittima è pervenuta alla concreta possibilità di esercitare la pretesa risarcitoria”. Tale illecito, infatti, “produce anche un danno non patrimoniale lato sensu psicologico-esistenziale, ovvero che investe direttamente la progressiva formazione della personalità del danneggiato, condizionando così pure lo sviluppo delle sue capacità di comprensione e di autodifesa”.

Con riguardo, invece, alla diversa questione della prescrizione al diritto al mantenimento e alla educazione del figlio, benché maggiorenne, la sentenza in commento richiama l’orientamento del Supremo Collegio, secondo cui “ai fini del riconoscimento dell'obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente, ovvero del diritto all'assegnazione della casa coniugale, il giudice di merito è tenuto a valutare, con prudente apprezzamento, caso per caso e con criteri di rigore proporzionalmente crescenti in rapporto all'età dei beneficiari, le circostanze che giustificano il permanere del suddetto obbligo o l'assegnazione dell'immobile, fermo restando che tale obbligo non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, poiché il diritto del figlio si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione, nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni e (purché compatibili con le condizioni economiche dei genitori) aspirazioni” (Cass., 14/08/2020, n. 17183).

Facendo applicazione di tali principi, la sentenza in commento conclude che la valutazione della persistenza dell’obbligo di mantenimento “pur dovendo riguardare senz'altro la complessiva condotta tenuta da parte dell'avente diritto dal momento del raggiungimento della maggiore età in poi, non può prescindere dal pregiudiziale accertamento circa l'assolvimento, da parte del genitore gravato, dell'obbligo di mantenimento. Ciò in quando l'adempimento di tale dovere costituisce la condizione imprescindibile per lo sviluppo personale e professionale del figlio maggiorenne”.

Nel caso di specie, il Supremo Collegio ha ritenuto completamente omesso tale accertamento da parte dei giudici di merito che hanno invece ritenuto sufficiente il dato materiale del trasferimento della residenza del figlio, senza considerare se quest’ultimo fosse stato posto nelle concrete condizioni per poter essere economicamente autosufficiente.

Espressioni omofobe utilizzate nei confronti di una collega lesbica legittimano il licenziamento, in quanto integranti una condotta discriminatoria, contraria ai principi generali dell’ordinamento e ai valori radicati nella realtà sociale. Così ha concluso la Cassazione, con ordinanza del 9 marzo 2023, n. 7029.

Il procedimento disciplinare, culminato nel provvedimento in esame, era stato avviato a seguito dell’esposto presentato da una impiegata di azienda tranviaria che aveva riferito di essere stata destinataria di espressioni omofobe, rivoltele da un collega, che la aveva derisa per la sua asserita omosessualità e la recente maternità. In particolare, l’episodio era avvenuto alla fermata di un autobus, in presenza di altri utenti, allorché entrambi indossavano la divisa aziendale.

Il datore di lavoro ha proceduto al licenziamento per giusta causa ritenendo il comportamento contestato al lavoratore gravemente lesivo dei principi del Codice Etico aziendale e delle regole della civile convivenza, anche in relazione all’art. 45, n. 6, Regio Decreto n. 148 del 1931, il quale prevede la destituzione del dipendente “per azioni disonorevoli od immorali, ancorché non costituiscano reato o trattisi di cosa estranea al servizio, si renda indegno della pubblica stima”.

La Corte di merito ha ritenuto sproporzionata la sanzione espulsiva relegando il fatto contestato a “condotta inurbana”, di minore gravita rispetto al “contegno inurbano o scorretto verso il pubblico”, punita con sanzione conservativa dall’art 42, n. 2, R.D. 148/31.

La Corte di Cassazione muove dal richiamo alla consolidata giurisprudenza che riconduce la giusta causa di licenziamento a “una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici; la sussunzione della fattispecie concreta nella clausola elastica della giusta causa secondo "standards" conformi ai valori dell'ordinamento, che trovino conferma nella realtà sociale, è dunque sindacabile in sede di legittimità con riguardo alla pertinenza e non coerenza del giudizio operato, quali specificazioni del parametro normativo avente natura giuridica e del conseguente controllo nomofilattico affidato alla Corte di cassazione”.

In questi termini, Cass., 21 aprile 2022, n.12789, secondo cui “l'art. 2119 c.c., configura una norma elastica, in quanto costituisce una disposizione di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere progressivamente precisato, nell'estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni, di carattere generale ed astratto, precisando che l'operazione valutativa, compiuta dal giudice di merito nell'applicare clausole generali come quella dell'art. 2119 c.c., non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità (Cass. nn. 1351 del 2016, 12069 del 2015, 6501 del 2013), poiché l'operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall'ordinamento”. Ancora di recente, è stato ribadito che l’art. 2119 c.c. “In quanto norma elastica, che cioè indica solo parametri generali e pertanto presupponga da parte del giudice un'attività di integrazione giuridica della norma, a cui sia data concretezza ai fini del suo adeguamento ad un determinato contesto storico-sociale, la valutazione della Cassazione sulla giusta causa di licenziamento è limitata alla specifica denuncia di incoerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale” (Cass., 10 febbraio 2022, n. 4409).

L’ordinanza in esame, applicando questi principi, ha rilevato che la valutazione del comportamento imputato al lavoratore come “inurbano” non è conforme “ai valori presenti nella realtà sociale ed ai principi dell'ordinamento”.

In questo senso, assume rilievo, a giudizio del Supremo Collegio, la acquisizione, negli ultimi decenni, “della consapevolezza del rispetto che merita qualunque scelta di orientamento sessuale e del fatto che essa attiene ad una sfera intima e assolutamente riservata della persona”. Conseguentemente, le espressioni omofobe, utilizzate in presenza di terze persone, in quanto lesiva di tale sfera di riservatezza, non violano solo le regole di buona educazione, ma “si pongono in contrasto con valori ben più pregnanti, ormai radicati nella coscienza generale ed espressione di principi generali dell'ordinamento”

In particolare, vengono in rilievo gli artt. 2, 3, 4 e 35 della Costituzione e, ancor più di recente, i diversi interventi legislativi tesi a prevenire e sanzionare la discriminazione sui luoghi di lavoro. Inevitabile il richiamo all’art. 26 D.Lgs. n. 198 del 2006 il quale - considerando come “discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo” – tutela “chi si trovi a subire nell'ambito del rapporto di lavoro comportamenti indesiderati per ragioni connesse al sesso”. E senz’altro la fattispecie sottoposta al vaglio del Supremo Collegio è riconducibile a tale ambito di tutela.

Da ultimo, la Corte individua un ulteriore profilo di rilievo dell’utilizzo di espressioni omofobe nella lesione della riservatezza relativa all’orientamento sessuale, quale dato sensibile ai sensi della normativa a tutela della privacy, di cui al D.Lgs. 196/2003, come modificato dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101.

La concretizzazione della clausola generale alla luce della coscienza generale del tempo deve poi tener conto del rilievo, sempre maggiore, che è andato assumendo il concetto di identità di genere, comparso, per la prima volta, nella Direttiva 2011/95 UE, sull'attribuzione della qualifica di rifugiato, recepita nel D.Lgs. 21 febbraio 2014, n. 18, che fa espressamente riferimento al concetto di identità di genere, ai fini della determinazione di pratiche persecutorie. La stessa espressione è, inoltre, contenuta anche nella Direttiva 2012/29 UE, recepita dall'Italia con D.Lgs. 15 dicembre 2015, n. 212, che prevede l'obbligo per gli Stati di proteggere le persone che subiscono violenza in quanto appartenenti ad un genere, oppure a causa della propria identità di genere.

In questo contesto, Cass. penale, 25 maggio 2021, n. 30545 ha negato le circostanze attenuanti generiche in relazione a gravi offese discriminatorie o denigratorie dell’identità di genere della vittima, “qualificata in modo volutamente sprezzante come "lesbica" … in numerosi messaggi e persino nel nome dato al gruppo whatsapp creato per denigrare la vittima in ambiente di lavoro, con conseguente violazione anche della privacy”.

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