Il termine di decadenza di tre anni per la proposizione di domanda di indennizzo del danno da vaccino decorre dal momento della conoscenza, in capo al danneggiato, della indennizzabilità del danno. Su queste premesse la Corte Costituzionale, con la sentenza 6 marzo 2023, n. 35, in riferimento agli artt. 2 e 32 Cost., ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, co. 1, Legge 25 febbraio 1992, n. 210, nella parte in cui fa decorrere il termine triennale dalla sola conoscenza del danno e non anche della sua indennizzabilità.

La vicenda processuale e l’ordinanza di remissione   

I Giudici del merito avevano ritenuto corretto applicarsi all’indennizzo per danno vaccinale, richiesto oltre il termine triennale di legge, il criterio della decadenza c.d. mobile, in base al quale la causa estintiva del diritto indennitario opera limitatamente ai ratei interni al triennio.

La Corte rimettente – considerato che il criterio della decadenza c.d. mobile, stabilito per i trattamenti pensionistici dall’art. 47, co. 6, D.P.R. 639/70, non possa essere esteso in via analogica all’indennizzo da vaccino – ha rilevato come, in forza di un’interpretazione letterale della norma, avrebbe dovuto ritenersi la parte istante decaduta dal diritto all’intero inennizzo. Osserva, altresì, la Corte di legittimità che, stante “l’analogo fondamento costituzionale” delle due erogazioni, sarebbe irragionevole la disparità di trattamento sul piano dell’effetto decadenziale della tutela indennitaria, frustrando la ratio della tutela medesima.

Pertanto, la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con ordinanza del 17 gennaio 2022, n. 33 ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale della L. 25 febbraio 1992, n. 210, art. 3, co. 1, in riferimento agli artt. 2, 3, 32 e 38 Cost., nella parte in cui non prevede che la decadenza triennale del diritto all'indennizzo per danni vaccinali abbia effetto limitato ai ratei interni al triennio.

L’equo indennizzo e il diritto alla salute

La sentenza in commento muove dal principio secondo cui “uno degli elementi essenziali affinché un trattamento sanitario obbligatorio di tipo vaccinale sia conforme all'art. 32 Cost. consiste nella previsione di un'equa indennità in favore del soggetto danneggiato” (così, da ultimo, Corte Cost., sent. n. 15 e n. 14 del 2023).

In questa prospettiva vanno letti i numerosi arresti della Corte Costituzionale sollecitata a pronunciarsi sull’estensibilità del diritto all’indennizzo in caso di lesioni conseguenti a vaccinazioni non ricomprese nella lista di quelle obbligatorie. 

In particolare, la Corte Costituzionale, nella sentenza 22 novembre 2017, n. 268 – che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 L. 210 del 1992 nella parte in cui non prevede il diritto di indennizzo in favore di coloro che abbiano subito un danno alla salute, essendosi sottoposti a vaccino antinfluenzale – ha osservato che “la ragione determinante del diritto all'indennizzo non deriva dall'essersi sottoposti a un trattamento obbligatorio, in quanto tale; essa risiede piuttosto nelle esigenze di solidarietà sociale che si impongono alla collettività, laddove il singolo subisca conseguenze negative per la propria integrità psico-fisica derivanti da un trattamento sanitario (obbligatorio o raccomandato) effettuato anche nell'interesse della collettività”.

Le sentenze n. 27 del  4 marzo 1998 e n. 423 del 18 ottobre 2000, già in precedenza, avevano dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 1 L. 210/92 nella parte in cui non prevede l’indennizzo in favore di soggetti che hanno subito lesioni in conseguenza, rispettivamente, delle vaccinazioni antipolio e antiepatite B prima che le stesse divenissero obbligatorie. Da ultimo, Corte cost., Sent. 23 giugno 2020, n. 118 ha esteso il diritto all’indennizzo a favore di chi abbia riportato lesioni a causa della vaccinazione contro il contagio dal virus dell’epatite A.

Di recente, poi, e sulla base delle considerazioni di cui sopra, la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con ordinanza del 30 maggio 2022, n. 17441 (commentata sul nostro sito: Indennizzo e vaccini non obbligatori: la parola alla Corte Costituzionale) ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione del diritto all'indennizzo anche ai soggetti che abbiano subito lesioni e/o infermità, da cui siano derivati danni irreversibili all'integrità psico-fisica, per essere stati sottoposti a vaccinazione non obbligatoria, ma raccomandata, antimeningococcica.

Il Supremo Collegio rileva che  la protezione individuale derivante dall’indennizzo, “completa il patto di solidarietà … tra individuo e collettività in tema di tutela della salute e, come già detto, rende più serio e affidabile ogni programma sanitario volto alla diffusione dei trattamenti vaccinali, al fine della più ampia copertura della popolazione”.

Le conclusioni della Consulta

La sentenza in commento osserva che “le esigenze di solidarietà sociale e di tutela della salute del singolo, poste a fondamento della disciplina introdotta dalla legge n. 210 del 1992, portano a ritenere che la conoscenza del danno, che segna il dies a quo del triennio per la presentazione della domanda amministrativa, suppone che il danneggiato abbia acquisito consapevolezza non soltanto dell'esteriorizzazione della menomazione permanente dell'integrità psico-fisica e della sua riferibilità causale alla vaccinazione, ma anche della sua rilevanza giuridica, e quindi dell'azionabilità del diritto all'indennizzo”.  

Dal momento in cui non è possibile richiedere l’indennizzo per i pregiudizi derivanti da vaccinazione non obbligatoria, sino alla introduzione di specifica disposizione legislativa ovvero sino alla declaratoria di illegittimità costituzionale con riguardo alla singola vaccinazione (non obbligatoria), colliderebbe con la garanzia costituzionale del diritto alla prestazione indennitaria, e conla ratio solidaristica alla stessa sottesa, far decorrere il relativo termine decadenziale prima del verificarsi di quei presupposti.  

Sulla base di questi rilievi, d’altronde, l’art. 3, co. 3, L. 362 del 1999 ha fissato il dies a quo del termine di decadenza dalla domanda di indennizzo per i danni da vaccinazione antipoliomelitica (a seguito dell’intervento della citata sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 1998), intercorsi in epoca antecedente alla introduzione dell’obbligo vaccinale, dall’entrata in vigore della Legge n. 362 del 1999. 

Nella medesima prospettiva, le Sezioni Unite, con sentenza del 22 luglio 2015, n. 14352, hanno ritenuto che il termine di decadenza triennale per l’indennizzo correlato a epatiti post-trasfuzionale dovesse decorrere dall’entrata in vigore della Legge (art. 1, co. 9, L. 238 del 1997) che tale tutela aveva riconociuto.

Sulla base delle medesime considerazioni, dunque, la sentenza in commento conclude che “L'effettività del diritto alla provvidenza dei soggetti danneggiati da vaccinazioni impone, pertanto, di far decorrere il termine perentorio di tre anni per la presentazione della domanda, fissato dall'art. 3, comma 1, della legge n. 210 del 1992, dal momento in cui l'avente diritto risulti aver avuto conoscenza dell'indennizzabilità del danno. Prima di tale momento, infatti, non è possibile che il diritto venga fatto valere, ai sensi del principio desumibile dall'art. 2935 cod. civ.”.

Il limite di tollerabilità delle immissioni non ha carattere assoluto ma è relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti.

Questo il principio riaffermato da Cass., 14 settembre 2022, n. 27036.

La vicenda culminata nella sentenza in esame trae origine dalla proposizione, da parte di società esercente attività di ristorazione, di una domanda di accertamento, ai sensi dell’art. 844 c.c. (sui limiti posti dalla norma al diritto di proprietà v., sul nostro sito, Roberto Lama "L’intollerabilità delle immissioni e la tutela della vivibilità dell’abitazione e della qualità della vita all’interno di essa"), del superamento del limite di tollerabilità delle immissioni olfattive provenienti dall’allevamento di maiali situato in prossimità del fondo.

La Corte territoriale ha attribuito la priorità d’uso (c.d. preuso), cui ha riguardo il comma 2, in favore della società di allevamento di maiali, ritenendo che non fosse necessario verificare quale attività - tra quella di ristorazione o quella di allevamento - fosse stata storicamente iniziata per prima. Ciò in base al duplice rilievo che, per un verso, entrambe le parti avevano trasformato radicalmente le preesistenti strutture aziendali da loro rispettivamente acquistate e, per altro verso, che sia la preesistente pizzeria sia il preesistente allevamento dei maiali avevano più volte interrotto la propria attività, rimanendo inattivi per diverso tempo.

La sentenza in commento ha ritenuto tale giudizio di fatto, sorretto da motivazione, e come tale non censurabile in sede di cassazione.

Occorre, in ogni caso, osservare che la giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che “In materia di immissioni dannose (nella specie di natura olfattiva ed acustica) il criterio del preuso cui fa riferimento l'art. 844, comma 2, c.c. ha carattere sussidiario e facoltativo, sicché il giudice del merito, nella valutazione della normale tollerabilità delle immissioni, non è tenuto a farvi ricorso quando, in base agli opportuni accertamenti di fatto, e secondo il suo apprezzamento, incensurabile se adeguatamente motivato, ritenga superata la soglia di tollerabilità” (cfr., su tutte, Cass., 11 maggio 2005, n. 9865).

La sentenza in commento ha quindi condiviso le considerazioni della Corte d’Appello secondo cui “il concetto di normale tollerabilità sarebbe relativo e variabile, non riferibile alla sensibilità di colui che subisce le immissioni, ma da considerare in modo elastico in base alle caratteristiche della zona ed alle abitudini degli abitanti”. In questa prospettiva, dunque, la "condizione dei luoghi", cui ha riguardo l'art. 844 c.c., va riferita allo stato complessivo della zona circostante il fondo che subisce le esalazioni, a tal fine dovendosi avere riguardo alle sue caratteristiche-economiche ed alla prevalente tipologia delle attività, anche produttive, che vi si svolgono.

Questi argomenti si pongono nel solco del consolidato insegnamento del Supremo Collegio (v., in particolare, Cass., 5 novembre 2018, n. 28201, ove si legge: “Il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è mai assoluto, ma relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante della zona, su cui vengono ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi. Non può giungersi a ritenere intollerabili le immissioni sonore sulla base del livello di rumorosità di fondo calcolato in un solo ambiente e in condizioni di assoluto silenzio, prescindendo dalle normali modalità di utilizzo degli immobili e dal livello di rumorosità della zona, correttamente rilevata”; nello stesso senso, da ultimo Cass., 20 gennaio 2023, n.1823, ed ancora, in precedenza, Cass., 5 agosto 2011, n. 17051).

La relatività della valutazione del limite di tollerabilità delle immissioni è – di converso – riferibile a tutti quei casi in cui tale limite sia fissato dalla legge o da provvedimenti amministrativi. In tali casi, la giurisprudenza ha precisato che “I parametri fissati da norme speciali ambientali di tipo amministrativo (espressione di esigenze di tutela pubblicistiche) per valutare la tollerabilità o meno delle immissioni non sono vincolanti per il giudice civile, che potrà discostarsene - nei limiti dettati dalla norma civilistica, secondo il suo prudente apprezzamento e in considerazione della peculiarità del caso concreto - pervenendo ad un giudizio di intollerabilità anche ove esse siano contenute in quei limiti.

Ne discende, quale corollario dei principi appena esposti, che dovrebbero ritenersi tollerabili in zone agricole immissioni olfattive che, di contro, sarebbero intollerabili in zone residenziali.

Applicando tali principi, i giudici di merito hanno affermato che le immissioni provenienti dall'allevamento di suini - in quanto non dovute “all'emissione dei reflui dei maiali nell'area, bensì agli odori fisiologicamente prodotti dagli animali, non diversamente eliminabili” - non dovessero ritenersi intollerabili in ragione del rilievo che l'azienda della società esercente attività di ristorazione era collocata in una zona a forte espansione agricola ed era circondata da fondi destinati all'agricoltura ed all'allevamento zootecnico.

La sentenza in commento ha ritenuto la valutazione operata dai giudici di merito, calibrata sul contemperamento, prescritto dal comma 2 dell’art. 844 c.c., delle “esigenze della produzione con le ragioni della proprietà”, integrare un accertamento di merito, come tale insindacabile in sede di legittimità.

Anche tale conclusione si pone nel solco della tradizionale giurisprudenza, secondo cui “la valutazione di intollerabilità, ove adeguatamente motivata nell'ambito dei principi direttivi indicati dal citato art. 844 c.c., con specifico riguardo al contemperamento delle esigenze della proprietà privata con quelle della produzione, costituisce accertamento di merito insindacabile in sede di legittimità” (Cass., ord. n. 23754 del 01/10/2018).

Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle società partecipate non è disciplinato dal d.lgs. n. 165 del 2001, bensì, in assenza di una disciplina derogatoria speciale, dalle norme del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro alle dipendenze di privati.

Questo il principio affermato dalla Cassazione con sentenza n. 35421 del 1° dicembre 2022.

A fronte di domanda di accertamento della qualifica superiore, i giudici del merito avevano accolto la domanda di condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive, escludendo il diritto al definitivo inquadramento nella qualifica superiore rivendicata. La Corte territoriale aveva, in particolare, fatto discendere l'applicazione della disciplina prevista per l’impiego pubblico contrattualizzato dalla natura sostanzialmente pubblica del capitale impiegato dalle società partecipate.

La sentenza in commento prende le mosse dalla natura delle società partecipate, richiamando l’insegnamento delle Sezioni Unite che, decidendo sul riparto di giurisdizione fra giudice ordinario, contabile ed amministrativo, hanno evidenziato che la partecipazione pubblica non muta la natura di soggetto privato della società, che resta assoggettata al regime giuridico proprio dello strumento privatistico adoperato, salve specifiche disposizioni di segno contrario o ragioni ostative di sistema che portino ad attribuire rilievo alla natura pubblica del capitale impiegato e del soggetto che possiede le azioni della persona giuridica (Cass. s.u. 1° dicembre 2016, n. 24591; Cass. s.u. 27 marzo 2017, n. 7759 Cass. S.U., 11 novembre 2019, n. 29078).

Per quel che concerne la disciplina applicabile ai rapporti di lavoro, il quadro normativo di riferimento è rappresentato, in materia, dal D.Lgs. n. 175 del 2016, che all’art. 1, co. 3, dispone che “per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato”. Con specifico riferimento al rapporto di lavoro è previsto che “salvo quanto previsto dal presente decreto, ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle società a controllo pubblico si applicano le disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile, dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, ivi incluse quelle in materia di ammortizzatori sociali, secondo quanto previsto dalla normativa vigente, e dai contratti collettivi” (art. 19, comma 1).

Ciò premesso, è discussa in giurisprudenza e dottrina l’applicabilità della disciplina dell’art. 2103 c.c. ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle società partecipate.

Sotto un primo profilo, la sentenza in commento ritiene inapplicabile, anche in via analogica, al rapporto di lavoro alle dipendenze delle società partecipate, l’art. 52 D.Lgs. n. 165 del 2001, che esclude, con riguardo agli enti pubblici, che dall’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza discenda l'inquadramento del lavoratore nella superiore qualifica. Trattasi, infatti, a giudizio della Corte, di disposizione speciale non estensibile ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle società a partecipazione pubblica.

Né potrebbe trovare applicazione alla fattispecie in esame, l’orientamento, inaugurato da Cass. n. 3621/2018 (e ribadito dalle più recenti Cass. n. 4571/2022 e Cass. n. 27126/2022), che ha escluso l'invocata conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato del contratto a termine affetto da nullità. Osserva, infatti, la Corte che a tele conclusione si è pervenuti non valorizzando la disciplina dell’art. 36, D.Lgs. n. 165 del 2001, inapplicabile alle società partecipate, “bensì la norma, cogente e derogatoria rispetto alla disciplina generale di diritto privato, che, a partire dall'entrata in vigore dell'art. 18 del D.L. n. 112 del 2008, ha imposto alle società partecipate di attenersi nel reclutamento del personale ai medesimi principi di trasparenza, pubblicità e imparzialità che stanno alla base del concorso pubblico e, quindi, ha subordinato la valida instaurazione del rapporto di lavoro al previo esperimento di procedure di evidenza pubblica”. Si tratta quindi di disposizione imperativa non rinvenibile nel passaggio da una qualifica ad un’altra.

Con riguardo alla gestione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle società partecipate, la Corte rileva come il legislatore ponga a carico della società esclusivamente l’obbligo di perseguire nelle politiche inerenti al personale il contenimento dei costi, (cfr. D.Lgs. n. 175 del 2016, art. 19 e, in epoca antecedente, D.L. n. 112 del 2008, art. 18). Tale previsione ha fissato una regola di comportamento per gli amministratori delle partecipate, e dalla stessa non si può desumere - a giudizio della sentenza in esame - la nullità degli atti adottati dalla società in violazione delle direttive date dal socio pubblico, perché il legislatore non ha previsto un meccanismo analogo a quello pensato per l'impiego pubblico contrattualizzato.

La corte, dunque, conclude che fermo restando che le procedure di reclutamento imposte dalle disposizioni inderogabili più volte richiamate costituiscono formalità necessarie per l'instaurazione del rapporto alle dipendenze delle società controllate, rapporto del quale condizionano la validità, sulla previsione delle stesse non si può fare leva per ritenere derogata, in assenza di un'espressa previsione normativa, la disciplina delle mansioni del rapporto già costituito, sia perché alle società partecipate non possono essere estesi né il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, né i principi affermati dalla Corte Costituzionale in tema di concorsi pubblici interni, sia in quanto la nullità virtuale ex art. 1418 c.c., comma 1, richiede che la norma proibitiva si riferisca al contratto o all'atto del quale si vuole porre in discussione la validità”.

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