La Corte d'appello di Venezia, con sentenza 16 novembre 2023, n. 2260, ha confermato la statuizione di accoglimento della class action proposta da acquirenti di automobili Volkswagen, in relazione alla vicenda c.d. Dieselgate, riconoscendo così l’illiceità della condotta della casa automobilistica, ma ritenendo risarcibile ai consumatori il solo danno morale da reato, con esclusione della risarcibilità dei danni patrimoniali, non provati.
La vicenda processuale trae origine dalla class action proposta dall’Associazione Altroconsumo contro le società Volkswagen Aktiengesellschaft e Volkswagen Group Italia S.p.A. ai sensi dell'art. 140 bis d.lgs. n. 206 del 2005 per ottenere l'accertamento della pratica commerciale scorretta posta in essere mediante la diffusione d'informazioni non veritiere in ordine alle emissioni inquinanti di ossidi d'azoto (NOx) dei veicoli diesel equipaggiati con motore EA 189 con marchio Volkswagen, Audi, Skoda e Seat, e la conseguente condanna delle convenute al risarcimento del danno.
Il Tribunale di Venezia - riconosciuta l'omogeneità dei diritti individuali delle proponenti e dei potenziali aderenti in considerazione dell'unicità dell'evento di danno – ha ritenuto integrata la prova dell’illecito conseguente alla installazione, sui motori diesel, del software denominato defeat device o switching logie, non conforme al regolamento (CE) n. 715/2007.
In particolare, il primo Giudice ha ritenuto violati:
Il Tribunale ha quindi evidenziato che la violazione del diritto del consumatore all’autodeterminazione integra un illecito extracontrattuale, riconoscendo in favore della parte attrice un danno patrimoniale, individuato “nel maggior aggravio economico, parametrato al maggior prezzo dei veicoli Euro 5, sostenuto per l'acquisto di un veicolo formalmente Euro 5, ma di classe inferiore”.
Muovendo, dalle soluzioni adottate in diversi Paesi dell’Unione europea in relazione al c.d. Dieselgate, il Tribunale ha assunto, quale criterio di liquidazione del danno, un parametro unitario pari al 15% del prezzo medio di acquisto dei veicoli coinvolti in Italia nella vicenda oggetto di causa, condannando Volkswagen a risarcire € 3.000,00 per ciascun consumatore.
Il Giudice di prime cure ha poi accolto la prospettazione attorea secondo cui la pratica commerciale scorretta posta in essere da Volkswagen è riconducibile alla fattispecie del reato di frode in commercio di cui all'art. 515 c.p.. A titolo di danno non patrimoniale è stato riconosciuto a ciascun consumatore un importo, a titolo risarcitorio, pari al 10% del danno patrimoniale.
La sentenza di primo grado è stata appellata dalle società del Gruppo Volkswagen sotto vari profili, attinenti alla violazione della disciplina consumeristica in materia di pratiche commerciali scorrette nonché alla liquidazione dei danni operata dal Tribunale di Venezia. Ha proposto appello incidentale l’Associazione Altroconsumo contro i capi che hanno ritenuto l’illegittimità dell’adesione di parte dei consumatori attori.
La Corte d’Appello, nella sentenza in commento, muove dalla premessa che la condotta della Volkswagen Aktiengesellschaft – consistente nella installazione di dispositivi in grado di aggirare gli standard ambientali statunitensi – è stata accertata dal KBA (Autorità Federale Tedesca per l'Autotrasporto) con ordinanza del 15 ottobre 2015 e dalla Commissione d'inchiesta Volkswagen del Ministero Federale dei Trasporti e delle Infrastrutture digitali tedesco.
L’illiceità della condotta della Volkswagen è stata affermata, in via definitiva, dall'ordinanza ingiunzione del 13 giugno 2018, emessa dalla Procura tedesca di Braunschwieg – non impugnata - con la quale le è stata irrogata alla casa automobilistica una sanzione pecuniaria di un miliardo di euro.
La Corte sottolinea, quindi, che l’azione (e non omissione) ingannevole, ai sensi dell’art. 21, 1° comma, lett. b), di installare dispositivi vietati, è connotata da antigiuridicità, in quanto in contrasto con il regolamento (CE) n. 715/07 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2007, che fissa norme relative all'omologazione di automobili e veicoli commerciali leggeri (Euro 5 ed Euro 6).
La sentenza, dunque, ritiene integrata la lesione di un interesse meritevole di tutela per l’ordinamento giuridico, consistente nel diritto del consumatore all’autodeterminazione. E, per effetto della condotta tenuta da Volkswagen, “i consumatori sono stati indotti a credere che fossero rispettati tutti i requisiti della classe di omologazione e la classe di omologazione, dipendente dai livelli di emissioni di gas inquinanti, costituisce una caratteristica importante per definire il prodotto”.La Corte precisa poi che “Non si richiede che la condotta abbia indotto i consumatori a una decisione in concreto diversa da quella assunta”. Infatti, “Non è necessario stabilire, ai fini dell'integrazione di un illecito aquiliano, che per effetto dell'azione ingannevole si sia provocato un errore determinante ai fini della conclusione del contratto”.
E, come chiarito dalla Corte di Giustizia UE, con sentenza 21 marzo 2023, nella causa C-100/21, l’inserimento di un impianto di manipolazione vietato assume dunque rilevanza anche rispetto alla tutela del singolo consumatore.
Con riguardo alle domande risarcitorie la Corte d’Appello muove dalla conferma della funzione compensativa del risarcimento del danno da responsabilità civile.
Come è noto, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite (sentenza 5 luglio 2017 n. 16601), pronunciando su una questione di delibazione nell’ordinamento giuridico italiano di una pronuncia statunitense recante condanna al risarcimento di un danno punitivo, ha superato il precedente orientamento che era nel senso della radicale incompatibilità dei danni punitivi con l’ordinamento italiano ed in particolare con il principio dell’ordine pubblico. La sentenza ha tuttavia sottoposto i danni punitivi ad un regime di rigorosa tipicità legislativa, desunto dalla norma racchiusa nell’art. 23 della Costituzione, in questo modo escludendo qualsiasi potere creativo del giudice. In effetti, la decisione sottolinea con forza che “ogni imposizione di prestazione personale esige una ‘intermediazione legislativa’ sulla base del principio di cui all’art. 23 Cost. (correlato agli artt. 24 e 25) che pone una riserva di legge quanto a nuove prestazioni patrimoniali…”.
Quindi, il Giudice non può legittimamente riconoscere un risarcimento punitivo se non in presenza di un’espressa previsione di legge.
Allo stesso modo, la Corte d’Appello – attraverso il richiamo ai principi affermati dalle Sezioni Unite con le note sentenze del 11 novembre 2008, nn. 26972 e 26975 – respinge la tesi che identifica il danno con l’evento dannoso, ribadendo la risarcibilità del danno conseguenza.
Ciò premesso, la sentenza in commento esclude che il riferimento contenuto nel comma dodicesimo dell’art. 140 bis cod. cons. alla liquidazione equitativa del danno nell’ambito di una class action, costituisca indice normativo del riconoscimento dei danni punitivi, posto che “il giudice può procedere a una liquidazione equitativa se il preciso ammontare del danno non è provabile o è provabile con estrema difficoltà e non anche se permanga incertezza sull'an debeatur”.
Applicando tali principi la sentenza – in riforma delle statuizioni rese in primo grado – rigetta la domanda di risarcimento del danno patrimoniale, affermando che “non è stata raggiunta la prova del danno patrimoniale”. In particolare, “non vi è prova del maggior prezzo da valorizzare come danno differenziale pagato dai consumatori per l'acquisto di veicoli del gruppo Volkswagen omologati Euro 5 rispetto al reale valore di mercato degli stessi veicoli”. Viene, inoltre, attribuito rilievo alla revisione gratuita avviata da Volkswagen, integrante un risarcimento in forma specifica. In questa prospettiva, se l’acquirente non ha ritenuto di partecipare al piano d’interventi delle misure approvate dall’autorità tedesca “non può reclamare un danno per un pregiudizio patrimoniale che il gruppo Volkswagen si è offerto di eliminare in modo gratuito e non invasivo”.
Residuerebbe, a giudizio della Corte d’Appello, un “danno patrimoniale temporaneo” per l'arco temporale compreso fra l'acquisto del veicolo e il momento in cui il veicolo è stato revisionato ma “si tratta di un pregiudizio che non può essere fatto valere con un'azione di classe perché non suscettibile di standardizzazione”.
La sentenza in esame conferma, invece, la liquidazione del danno morale da reato disposta dal Tribunale, ritenendo ipotizzabile in capo al management Volkswagen il delitto di frode in commercio.
A prescinde dalla sussistenza di tutti gli elementi che rendono irrogabile la sanzione penale il Giudice civile è chiamato “ad accertare se da un fatto astrattamente riconducibile a un reato sia derivato, quanto al profilo del danno non patrimoniale, una condizione di sofferenza o uno stato di frustrazione per il danneggiato”.
Fatte queste premesse, la Corte conclude nel senso della sussistenza del danno morale da reato, la cui quantificazione deve tenere conto dei seguenti parametri:
Applicando questi parametri al caso di specie, la sentenza conclude che “la modesta somma di € 300,00 non costituisce certo una forma di overcompensation”; fermo restando che la quantificazione operata dal Tribunale non è stata fatta oggetto di appello incidentale e quindi non avrebbe potuto essere rimodulata in appello.
La denuncia del lavoratore di fatti addebitati al datore di lavoro è fonte di responsabilità disciplinare qualora il medesimo lavoratore sia consapevole dell’insussistenza dell’illecito o dell’estraneità allo stesso del denunciato.
Questo il principio affermato da Cassazione, Sez. Lavoro, ordinanza del 6 novembre 2023, n. 30866.
La vicenda decisa dalla Suprema Corte trae origine dalla contestazione disciplinare mossa nei confronti di un lavoratore, per avere questi denunciato una indebita appropriazione del TFR con la piena consapevolezza della non veridicità della condotta denunciata.
I Giudici di merito avevano ritenuto la legittimità del licenziamento affermando che la rappresentazione dolosa di fatti pacificamente non veritieri è incompatibile con l’elemento fiduciario caratterizzante ogni rapporto di lavoro.
Ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore, sostenendo l’insussistenza del fatto contestato, per avere gli atti di denuncia rispettato il principio di continenza, e comunque la non riconducibilità dei medesimi fatti a una giusta causa di recesso.
L’ordinanza in commento disattende le censure del lavoratore ritenendo, innanzi tutto, non pertinente il richiamo alla continenza, posto che l’illiceità della denuncia del lavoratore era stata ricollegata, in sede disciplinare, non alla forma degli atti, ma al loro contenuto, valutato, nel merito, come “puramente strumentale, e non pertinente all'effettiva tutela del diritto di credito del lavoratore, perché basato su dati non veritieri e contabilmente scorretti”.
A differenza delle ipotesi nelle quali è in discussione l'esercizio del diritto di critica, in caso di denuncia e di querela non rilevano i limiti della continenza sostanziale e formale, superati i quali la condotta assume carattere diffamatorio.
In altre parole, il rilievo disciplinare della condotta del lavoratore non è stato ricondotto alla configurabilità del reato di calunnia o diffamazione, ma all’abuso del processo, per effetto della “strumentalizzazione a fine puramente emulativo dello strumento della denuncia penale e dei diritti della persona offesa nel procedimento penale medesimo”. Fine emulativo “desunto dalla (ritenuta in fatto conformemente nelle fasi di merito) consapevole omissione di circostanze significative nella descrizione dei fatti con riferimento alle somme già percepite e alla superflua duplicazione di questioni già oggetto di contenzioso civile tra le parti”.
La Corte conclude, quindi, che “se … l'esercizio del potere di denuncia (e in generale del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro) non può essere di per sé fonte di responsabilità, esso può divenire tale qualora il privato faccia ricorso ai pubblici poteri in maniera strumentale e distorta, ossia agendo nella piena consapevolezza dell'insussistenza dell'illecito o dell'estraneità allo stesso dell'incolpato”.
Tale principio, ancora di recente, è stato affermato da Cass., sez. lav., 11 ottobre 2022, n. 29526, la quale ha affermato l’illiceità della condotta del lavoratore in relazione ad una denuncia presentata “non per rimuovere una situazione di illegalità o per tutelare i diritti del querelante ma con la volontà di danneggiare il datore di lavoro per vendicarsi del mancato riconoscimento delle proprie rivendicazioni”.
In questa prospettiva, la condotta del lavoratore, che denuncia strumentalmente una condotta del datore di lavoro, non è scriminata per effetto del richiamo al diritto di critica, ed anzi integra la violazione del dovere di fedeltà ex art. 2105 c.c., letto in rapporto ai canoni di correttezza e buona fede, perché “contraria ai doveri derivanti dall'inserimento del lavoratore nell'organizzazione imprenditoriale e comunque idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario”.
Come chiarito in precedenza da Cass., sez. lav., 26 settembre 2017, n. 22375, è di per sé irrilevante la circostanza che la denuncia si riveli infondata e che il procedimento venga definito con la archiviazione della notitia criminis o con la sentenza di assoluzione, trattandosi di circostanze non sufficienti a dimostrare il carattere calunnioso della denuncia stessa.
Quanto alla sussistenza della giusta causa, la Corte muove dal principio, ormai consolidato, secondo cui, configurando l’art. 2119 c.c. una norma elastica (“che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica”), la valutazione del Giudice del merito “è dunque sindacabile in sede di legittimità con riguardo alla pertinenza e non coerenza del giudizio operato, quali specificazioni del parametro normativo avente natura giuridica e del conseguente controllo nomofilattico affidato alla Corte di cassazione” (Cassazione, con ordinanza del 9 marzo 2023, n. 7029, pubblicata sul nostro sito, con nota dal titolo "Espressioni omofobe nei confronti della collega lesbica: legittimo il licenziamento per giusta causa").
Su queste premesse, l’ordinanza in commento esclude che la valutazione di merito circa l’integrazione della giusta causa di recesso per effetto della “condotta di strumentalizzazione di denuncia in sede penale di fatti consapevolmente non veritieri e con dati di fatto alterati” integri un vizio di sussunzione, confermando, anche sotto tale profilo, la legittimità del provvedimento disciplinare.
La violazione del consenso informato nei confronti del paziente è risarcibile, anche in assenza di un danno alla salute, tutte le volte in cui siano configurabili conseguenze pregiudizievoli, non patrimoniali, di apprezzabile gravità derivanti dalla violazione del diritto fondamentale all'autodeterminazione.
Questo il principio affermato da Cassazione, Sez. III civile, ordinanza del 30 ottobre 2023, n. 30032.
La vicenda decisa dalla Cassazione trae origine dalla domanda di risarcimento dei danni subiti da una paziente a causa della negligenza e imperizia nella cura di patologia dermatologica da cui era stata colpita. In particolare, l’errore imputato ai due medici convenuti era stato individuato nel mancato avviso della necessità di compiere un esame istologico dei tessuti a seguito della asportazione, in due occasioni, a distanza di alcuni anni, di una cisti sebacea, ripresentatasi alcuni anni dopo e, infine, oggetto di diagnosi di neoplasia, per la rimozione della quale la paziente si è sottoposta a complesse cure.
La Corte d’Appello aveva accolto la domanda della danneggiata solo in relazione alla violazione del principio del consenso informato, condannando entrambe i medici al risarcimento del danno. In particolare, la Corte territoriale aveva escluso che fosse stato provato il nesso di causalità tra l’asserito ritardo diagnostico e i successivi interventi cui la paziente si era dovuta sottoporre, ritenendo che - “con elevato grado di probabilità” - la patologia cancerogena fosse sopravvenuta rispetto alle condotte dei medici convenuti.
Invece, la mancata acquisizione del consenso informato al trattamento sanitario aveva certamente leso il diritto della paziente "a ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui veniva sottoposta, con particolare riguardo alla natura recidivante della formazione asportata, così da consentirle di valutare più approfondite diagnostiche o eventuali terapie alternative”.
La Corte di Cassazione ha, innanzi tutto, accolto il secondo motivo proposto dalla paziente, censurando la sentenza di appello per avere tratto il dato della correttezza del comportamento dei medici dalla professionalità dei medesimi, in forza della quale gli stessi non avrebbero potuto confondere la patologia diagnosticata in un primo momento con quella poi definitivamente accertata diversi anni dopo. La Corte territoriale avrebbe quindi erroneamente applicato il ragionamento presuntivo, dando “per dimostrato esattamente ciò che, al contrario, doveva essere dimostrato”.
L’ordinanza in esame ha poi accolto il ricorso incidentale proposto dai medici, fondato sulla omessa indicazione delle ragioni del riconoscimento del risarcimento del danno per violazione del principio del consenso informato pur in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito, ed in assenza di prova che la paziente, se adeguatamente informata, avrebbe verosimilmente rifiutato di sottoporsi all’intervento.
La Corte di Cassazione passa in rassegna la più recente giurisprudenza in materia di consenso informato, ribadendo che “l'inadempimento dell'obbligo di informazione sussistente nei confronti del paziente può assumere rilievo a fini risarcitori, anche in assenza di un danno alla salute o in presenza di un danno alla salute non ricollegabile alla lesione del diritto all'informazione, tutte le volte in cui siano configurabili, a carico del paziente, conseguenze pregiudizievoli di carattere non patrimoniale di apprezzabile gravità derivanti dalla violazione del diritto fondamentale all'autodeterminazione in se stesso considerato, sempre che tale danno superi la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale e che non sia futile, ossia consistente in meri disagi o fastidi” (Cass., 9 febbraio 2010, n. 2847; più di recente ordinanza 22 agosto 2018, n. 20885).
Come chiarito da Cass. n. 5631 del 23 febbraio 2023, le conseguenze dannose derivanti da un atto terapeutico eseguito senza un consenso legittimamente prestato devono essere debitamente allegate dal paziente sul quale grava l’onere di provare il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto al medico, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva e non essendo configurabile un danno risarcibile in re ipsa derivante esclusivamente dall’omessa informazione.
Rileva quindi l’ordinanza in commento che “La violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all'intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; nonché un danno da lesione del diritto all'autodeterminazione, rinvenibile quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute”.
La Cassazione si dichiara poi espressamente tributaria dei principi affermati, assai di recente, dall’ordinanza 12 giugno 2023, n. 16633 (di cui avevamo dato conto sul nostro sito, con nota di Maria Santina Panarella, “Mancanza del consenso informato del paziente tra violazione del diritto all’autodeterminazione e lesione del diritto alla salute”, la quale – in fattispecie in cui è stata ritenuta fondata la pretesa risarcitoria per il danno non patrimoniale diverso dal danno biologico, per la mancanza di prova che fosse stata fornita all'istante adeguata e completa informazione anche sulle possibili complicanze dell'intervento pur correttamente eseguito - ha chiarito che:
Facendo applicazione di tali principi l’ordinanza in esame, quindi, rileva che la parte attrice non aveva mai sostenuto che l’intervento fosse stato eseguito in maniera scorretta, né era mai stato prospettato che in “presenza di un'adeguata informazione, ella avrebbe rifiutato di sottoporsi ai due interventi”. Sottolinea, anzi, la Corte che “il consenso della paziente all'intervento è da ritenere presunto, anche perché non è dato sapere quale altra strada si sarebbe potuta intraprendere che non fosse l'asportazione”.
Su queste premesse, l’ordinanza in commento conclude che la mancata acquisizione del consenso informato al trattamento sanitario non possa aver leso, in sé, il diritto della paziente all’autodeterminazione e, dunque - sulla base di quanto affermato dalla Corte d’Appello – il diritto “a ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui veniva sottoposta, con particolare riguardo alla natura recidivante della formazione asportata, così da consentirle di valutare più approfondite diagnostiche o eventuali terapie alternative”.
In conclusione, dunque, la violazione del consenso informato, pur in assenza di un errore medico, è risarcibile solo se vi sia stata una lesione del diritto del paziente all’autodeterminazione e se da ciò sia derivato un pregiudizio, patrimoniale o non patrimoniale, diverso dalla lesione del diritto alla salute, di apprezzabile gravità.