La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza n. 40652 del 17 dicembre 2021 ha affermato il principio di diritto secondo cui la decadenza, prevista dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. d), non si applica all’ipotesi di richiesta di accertamento del rapporto di lavoro, ormai risolto, nei confronti di altro datore di lavoro rispetto a quello formale, ove non si rinvenga un atto che neghi la titolarità del rapporto.   

Giova rammentare che la L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, prevede che: "Le disposizioni di cui alla L. 15 luglio 1966, art. 6, come modificato dal comma 1, del presente articolo, si applicano anche: … d) in ogni altro caso in cui, compresa l'ipotesi prevista dal D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 27, si chieda la costituzione o l'accertamento di un rapporto di lavoro in capo ad un soggetto diverso dal titolare del contratto".

La sentenza in commento muove dall’assunto che la finalità del regime di decadenza introdotto della L. n. 183 del 2010, art. 32, è stata quella di estendere il termine di decadenza previsto dalla L. n. 604 del 1966, art. 6 con riguardo all'impugnativa stragiudiziale del licenziamento, ad una serie di altre ipotesi, con la finalità di “contrastare pratiche di rallentamento dei tempi del contenzioso giudiziario che finirebbero per provocare una moltiplicazione degli effetti economici in caso di eventuale sentenza favorevole e di stabilizzare le posizioni giuridiche delle parti in situazioni in cui si ha l'esigenza di conoscere, con precisione ed entro termini ragionevoli, se e quanti lavoratori possono far parte dell'organico aziendale”.

Venendo in rilievo una limitazione temporale per l'esercizio dell'azione giudiziaria di notevole incidenza sui diritti del lavoratore, alla norma deve essere attribuito carattere di eccezionalità, imponendosene una interpretazione particolarmente rigorosa.

Nel senso della impossibilità di una interpretazione estensiva dall’art. 32, lett. d) si è espressa, tra le tante, Cass. civ. Sez. lavoro, 7 novembre 2019, n. 28750, che ha escluso l’applicabilità dei termini di decadenza di cui all’art. 32, n. 4, lett. c) e d), L. 183/10, all’ipotesi del lavoratore che non impugna la cessione del contratto di lavoro nell'ambito di un trasferimento ex art. 2112 c.c., ma, all'inverso, la rivendica. E ciò perché, il legislatore utilizzando la locuzione "in ogni altro caso in cui, compresa l'ipotesi prevista dal D.Lgs. 20 settembre 2003, n. 276, art. 27....", ha inteso “escludere le fattispecie riconducibili, in qualche modo, a quelle già regolate dalle diverse lettere della norma in questione”. Pertanto, se “il fenomeno della cessione del contratto di lavoro, avvenuta ai sensi dell'art. 2112 c.c., è stata già disciplinata dal legislatore (lett. c), nella misura in cui risulta essere stata precisata e limitata da questa Corte di legittimità, non può poi una fattispecie relativa allo stesso fenomeno, ma posta in termini differenti e già esclusa dalla ipotesi tipizzata, considerarsi disciplinata dalla norma di chiusura di natura eccezionale” (nello stesso senso, Cass., 4 aprile 2019, n. 9469).

Sui medesimi presupposti, Cass., 25 maggio 2017, n. 13179 ha escluso la riferibilità del termine di cui all’art. 32, lett. d), all'azione per l'accertamento e la dichiarazione del diritto di assunzione del lavoratore presso l'azienda subentrante nell'ipotesi di cambio di gestione dell'appalto.

La Corte, in quel caso, ha altresì rilevato che la fattispecie contemplata dalla predetta disposizione  può riferirsi “a tutte quelle altre tipologie in senso lato interpositorie che possono realizzarsi ad esempio nell'ambito di gruppi societari che nascondono un'unicità d'impresa, come anche in ipotesi di più imprese in cui viene rivendicata una contitolarità del rapporto di lavoro”. In questi casi, “ciò che la norma fa rientrare nell'ambito limitativo del termine di decadenza per l'impugnazione è l'accertamento di un rapporto di lavoro alle dipendenze di un terzo, quale preteso effettivo o unico titolare del rapporto”.

Proprio muovendo dal richiamo a Cass. n. 13197/17, i giudici di merito, nei procedimenti poi giunti al vaglio della Cassazione nel caso in commento, avevano ritenuto sussumibile nelle previsioni di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. d), anche l’ipotesi di richiesta di accertamento del rapporto di lavoro, ormai risolto, nei confronti di altro datore di lavoro rispetto a quello formale.     

La Cassazione, invece, si pone sul diverso piano logico-giuridico della operatività della decadenza, richiamando le recenti decisioni del Supremo Collegio, n. 30490/2021 e n. 14131/2020, che hanno escluso l’estensibilità del termine decadenziale “alle ipotesi in cui manchi del tutto un atto che il lavoratore abbia interesse a contestare o confutare” (le pronunce sono state rese in fattispecie in cui si deduceva l’illegittimità del contratto di collaborazione a progetto, risoltosi per effetto della manifestazione di volontà del collaboratore di voler recedere dal rapporto, ovvero cessato per la sua naturale scadenza).

In forza dei principi affermati dalle sentenze citate, è dunque impossibile “estendere analogicamente ad un "fatto" (cessazione dell'attività del lavoratore) una norma calibrata in relazione ad atti scritti e recettizi ovvero a fatti tipizzati”.

Su queste premesse, la Corte, con la sentenza in esame, conclude che “sia nei casi di richiesta di costituzione (ove è chiara la volontà dell'istante di ripristino immediato e/o di stabilizzazione) sia nei casi di richiesta di accertamento (ove l'azione dichiarativa richiede un accertamento "ora per allora") dei rapporto di lavoro alle dipendenze di un soggetto diverso dal titolare del contratto, occorre pur sempre un atto o un provvedimento datoriale che renda operativo e certo il termine di decorrenza della decadenza di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. d), in un'ottica di bilanciamento di interessi costituzionalmente rilevanti”.

E, dunque – conclude la Corte - la decadenza in questione non si applica alla richiesta di costituzione o di accertamento di un rapporto di lavoro, ormai risolto, in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto, ove manchi un provvedimento in forma scritta o un atto equipollente che neghi la titolarità del rapporto stesso.

Due recenti provvedimenti del Tribunale di Padova e del Tribunale di Velletri sembrano aprire una breccia nell’orientamento che andava consolidandosi nella giurisprudenza, ordinaria ed amministrativa, nel senso della legittimità e ragionvevolezza dell’obbligo vaccinale, imposto dall’art. 4 del decreto legge n. 44 del 2021, ai lavoratori impiegati presso stutture sanitarie.

Il quadro normativo

L’art. 4 del Decreto Legge 1° aprile 2021, n. 44, convertito con modificazioni dalla L. 28 maggio 2021, n. 76, come novellato dall’art. 2 D.L. 26 novembre 2021, n. 172, prevede che «al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione delle prestazioni di cura e assistenza, in attuazione del piano di cui all'articolo 1, comma 457, della legge 30 dicembre 2020, n. 178, gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 1° febbraio 2006, n. 43, per la prevenzione dell'infezione da SARS-CoV-2 sono obbligati a sottoporsi a vaccinazione gratuita … La vaccinazione costituisce requisito essenziale per l'esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati».

Il D.L. n. 172/21 ha introdotto l’art. 4 ter che ha esteso l’obbligo vaccinale a chi svolga «a qualsiasi titolo la propria attività lavorativa nelle strutture di cui all’articolo 8-ter del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502». 

I precedenti in meteria di obbligo vaccinale

Come anticipato, in giurisprudenza è andato ormai consolidandosi l’orientamento secondo cui l’obbligo vaccinale per i sanitari (e le altre categorie destinatarie dell’obbligo) risponde a criteri di ragionevolezza. Conseguentemente è stata ritenuta pienamente legittima la sospensione dei lavoratori, interessati dall’obbligo vaccinale, che rifiutassero di sottoporsi alla vaccinazione.

In particolare, il Consiglio di Stato (tra le molte, v. la sentenza 20 ottobre 2021, n. 7045, commentata sul nostro sito: Per il Consiglio di Stato è legittimo l’obbligo vaccinale per i sanitari; ed ancora la sentenza n. 6476 del 3 dicembre 2021, commentata sul nostro sito: L’obbligo vaccinale per i sanitari è legittimo e ragionevole) ha affermato che la previsione dell’obbligo vaccinale per i sanitari risponde contemporaneamente a due esigenze: la cura (individuale) dello stesso personale sanitario e la sicurezza della cura per i pazienti (ed in particolare, quelli fragili).

Ancora più di recente, lo stesso Consiglio di Stato, con sentenza n. 6401 del 2 dicembre 2021, ha chiarito che «la prevalenza del diritto fondamentale alla salute della collettività rispetto a dubbi individuali o di gruppi di cittadini sulla base di ragioni mai scientificamente provate, assume una connotazione ancor più peculiare e dirimente allorché il rifiuto di vaccinazione sia opposto da chi, come il personale sanitario, sia - per legge e ancor prima per il cd. “giuramento di Ippocrate”- tenuto in ogni modo ad adoperarsi per curare i malati, e giammai per creare o aggravare il pericolo di contagio del paziente con cui nell’esercizio della attività professionale entri in diretto contatto».

Si deve peraltro precisare che le predette pronunce sono state rese nei confronti di personale sanitario (per cui solo, all’epoca, era vigente l’obbligo vaccinale). L’allargamento della platea dei lavoratori destinatari dell’obbligo vaccinale, per effetto della novella della D.L. n. 172/21, ha posto, nell’ambito del già ampio contenzioso ingenerato dalle misure di contenimento della pandemia, l’ulteriore questione della eventuale possibilità di adibire i lavoratori no vax a diverse mansioni, non implicanti il contatto col pubbligo. 

Ed in questo solco si inseriscono due recenti provvedimenti del Tribunale di Padova e del Tribunale di Velletri.

L’Ordinanza del 7 dicembre 2021 del Tribunale di Padova: la rimessione alla CGUE

La vicenda decisa dal Tribunale di Padova, in funzione di giudice del lavoro, trae orgine dal ricorso presentato da una operatrice sanitaria, che aveva rifiutato la vaccinazione, avverso il provvedimento di sospensione disposto dalla Asl competente.

Il Giudice del Lavoro, non entrando nel merito, ritiene di rimettere alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea 7 quesiti.

In primo luogo, il Tribunale pone in dubbio la legittimità degli atti di autorizzazione alla immissione in commercio, da parte della Commissione Europea, dei vaccini autorizzati da Ema, in ragione dell’esistenza di cure alternative alla Covid. Sotto un secondo profilo, il Giudice chiede alla CGUE di valutare se trovi giustificazione l’imposizione del vaccino ai soggetti guariti dalla malattia.

Con il terzo quesito, il Tribunale il Giudice pone il dubbio della compatibilità della norma italiana con il diritto comunitario in ordine alla possibilità di imporre l'obbligo vaccinale in pendenza di una autorizzazione dagli effetti condizionati e in assenza di prova che i benefici del vaccino siano superiori a quelli derivanti dai farmaci oggi a disposizione.

Il provvedimento in esame mostra come le questioni giuridiche si sovrappongano sempre più agli aspetti strettamente medico-scientifici.

Occorre rammentare, infatti, che i quattro vaccini utilizzati nella campagna vaccinale in Europa, sono stati autorizzati da EMA attraverso la procedura di autorizzazione condizionata (c.d. CMA, Conditional marketing authorisation), disciplinata dall’art. 14-bis delReg. CE 726/2004 del Parlamento Europeo e del Consiglio e dal Reg. CE 507/2006della Commissione. In forza di tale disposizione,un’autorizzazione può essere rilasciata anche in assenza di daticlinici completi, «a condizione che i benefici derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superino il rischio dovuto al fatto che sono tuttora necessari dati supplementari».

Come si legge sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità, «una autorizzazione condizionata garantisce che il vaccino approvato soddisfi i rigorosi criteri Ue di sicurezza, efficacia e qualità, e che sia prodotto e controllato in stabilimenti approvati e certificati in linea con gli standard farmaceutici compatibili con una commercializzazione su larga scala».

Il Consiglio di Stato, nella sentenza 20 ottobre 2021, n. 7045, già citata, ha già avuto modo di porre in rilievo che il carattere condizionato dell’autorizzazione non incide sui profili di sicurezza del farmaco né comporta che la stessa debba essere considerata un minus dal punto di vista del valore giuridico, ma impone unicamente al titolare di completare gli studi in corso.

In questo contesto, l’esistenza di cure contro la malattia da Sars Cov-2, la cui efficacia non può certo essere sindacata da un organo giurisdizionale, non sembrerebbe poter incidere sulla validità degli atti autorizzativi rilasciati dai competenti organi comunitari. La valutazione rischi/benefici, con riguardo ai singoli vaccini, già operata dall’Ema, difficilmente potrà essere rivista, e comunque le cure (la cui efficacia pure dovrebbe essere rivalutata dagli organi competenti, in relazione all’emergenza di nuove varianti) non pare possano svolgere la medesima funzione, in termini di prevenzione del contagio. E dunque rispetto alla finalità «di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione delle prestazioni di cura e assistenza», i protocolli di cura non possono svolgere lo stesso ruolo dei vaccini. Con ciò, di per sé, e salve diverse valutazioni scientifiche, si giustificherebbe l’obbligo di vaccinazione, allo stato previsto per determinate categorie.

Sotto altro profilo, il Tribunale rimette alla CGUE la questione circa la legittimità dell’introduzione della misura della sospensione dal lavoro con privazione dello stipendio, senza contemplare misure graduali conseguenti al mancato rispetto dell'obbligo vaccinale. Il Giudice pone poi la questione se il procedimento volto a verificare la possibilità di essere adibiti a mansioni diverse possa svolgersi anche in assenza di contraddittorio con il lavoratore.

Da ultimo il Tribunale individua d’ufficio un possibile profilo di violazione, da parte della normativa italiana, del Regolamento 953/21, considerando potenzialmente discriminatoria la possibilità di continuare a praticare la professione per il sanitario che non possa sottoporsi a vaccinazione (art. 4, co. 7, D.L.44/21), a fronte del divieto assoluto per chi non voglia vaccinarsi, nonostante ad entrambe le categorie sia imposto di seguire le medesime regole di sicurezza.

L’Ordinanza del 14 dicembre 2021 del Tribunale di Velletri: l’obbligo di repechage

Il Tribunale di Velletri propone una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 44/21, ritenendo che «non in tutti i casi la prestazione degli operatori di interesse sanitario non vaccinati è vietata, ma solo laddove quest’ultima inciderebbe sulla salute pubblica e su adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza». Diversamente opinando, infatti, «il bilanciamento costituzionalmente rilevante tra la salute pubblica (interesse prevalente) e i diritti della persona (interessi soccombenti) non sussisterebbe, con indebita compromissione dei diritti dei singoli».

Su queste premesse il Giudice del Lavoro conclude, con un iter argomentativo forse fin troppo sommario, che l’Azienda Sanitaria convenuta, per le dimensioni della medesima, «potrà agevolmente assegnare alla ricorrente compiti anche di natura amministrativa», così salvaguardando gli interessi di salute pubblica tutelati dalla norma in esame.

Sotto altro profilo, il Tribunale individua una irragionevole discriminazione nella mancata previsione dell’obbligo di adibire il lavoratore che non si sia voluto vaccinare a «mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione», così come invece previsto, dal comma 7 del medesimo art. 4, per i lavoratori che non si possano vacccinare. Conclude, pertanto, il Giudice che «sia chi non si è voluto vaccinare sia chi non si sia potuto vaccinare possano prestare la loro opera ovviamente evitando lo specifico rischio per la salute pubblica».

È del tutto evidente che la questione proposta dal provvedimento in esame viene in rilievo nel momento dell’introduzione dell’obbligo vaccinale per il personale delle strutture sanitarie diverso dai medici: è infatti intuibile che appare assai difficile individuare una professione medica, in senso stretto, che non comporti contatto col pubblico.

Deve sul punto rilevarsi che il Tribunale di Velletri propone un ragionamento già sotteso alle prime pronunce intervenute all’indomani dell’introduzione dell’obbligo vaccinale per il personale sanitario ovvero dell’obbligo di possedere ed esibire «la certificazione verde COVID-19» (art. 9 ter D.L. 52/2021) per un’ampia gamma di categorie di lavoratori. Tra le tante, si richiama l’ordinanza del 28 luglio 2021 del Tribunale di Roma (commentata sul nostro sito: Legittima la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione del lavoratore che non si è sottoposto a vaccino anti Covid 19), la quale ha dichiarato legittima la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione del dipendente di un villaggio, che non si era sttoposto al vaccino anti Covid 19. Le ragioni della sospensione, in quel caso, erano state individuate nella inidoneità del lavoratore non vaccinato alle mansioni espletate, implicanti il contatto con l’utenza, ed accertata dal medico competente, a tutela della salute del lavoratore e del pubblico potenzialmente a contatto con il medesimo. Anche quel caso si era espressamente esclusa la possibilità di repechage quale ulteriore ragione di legittimità del provvedimento datoriale.

Con riguardo agli argomenti proposti dal Tribunale di Velletri, deve rilevarsi come l’esigenza di « tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione delle prestazioni di cura e assistenza» è perseguita, attraverso la novella dell’art. 4  ter D.L. 44/21, anche atteverso l’obbligo vaccinale ai lavoratori che svolgano «a qualsiasi titolo la propria attività lavorativa» nelle strutture sanitarie. E dunque anche l’assegnazione a mansioni non implicanti il diretto contatto con l’utenza è stata espressamente considerata dal legislatore quale fattore di rischio implicante, comunque, l’obbligo vaccinale, in ragione delle esigenze di mantenimento di un elevato livello di sicurezza ed efficienza all’interno di strutture che offrono servizi fondamentali.

Anche l’asserita discriminazione rispetto ai lavoratori impossibilitati a vaccinarsi non pare fondata su un’argomentazione persuasiva. Si tratta di situazioni oggettivamente diverse che giustificano un differente trattamento da parte del legislatore.

La Corte di Cassazione, Prima Sezione Civile, con ordinanza n. 39762 del 13 dicembre 2021 ha statuito che, nella quantificazione del risarcimento del danno, conseguentealla illecita riproduzione di tre articoli di cronaca, tratti da testate locali, e inseriti nel best seller «Gomorra», il Giudice del merito avrebbe dovuto tenere conto degli utili realizzati in violazione del diritto d'autore e non limitarsi a valutare i diritti che avrebbero dovuto essere riconosciuti, qualora l'autore della violazione avesse chiesto al titolare  l'autorizzazione  per  l'utilizzazione delle opere.   

1. Il caso

La vicenda processuale trae origine dalla domanda della casa editrice di una testata locale, avente ad oggetto l’accertamento della violazione da parte dello scrittore Roberto Saviano del diritto d’autore in relazione alla illegittma riproduzion nel testo dell’opera «Gomorra»  di alcuni articoli su quotidiani editi dall’attrice. Conseguentemente quest’ultima ha chiesto risarcirsi tutti i danni di nautra patrimoniale e non patrimoniale.

L’ordinanza in commento interviene a seguito della pronuncia, resa in sede di rinvio dalla Corte d’Appello di Napoli che – sollecitata dalla Cassazione, in funzione rescindente, a indicare specificamente i criteri di liquidazione del danno da lucro cessante – aveva ritenuto appropriato  il criterio di liquidazione del c.d. «prezzo del consenso» o «royalty virtuale» rapportato al momento della richiesta negli anni 2004-2005 e quindi senza tener conto del successivo enorme successo realizzato dal libro “Gomorra”. In particolare, la Corte territoriale, a quanto è dato desumere dal riassunto dell’antefatto processuale, aveva attribuito rilievo alla limitata circolazione dei due giornali ove gli articoli erano stati la primavolta pubblicati e aveva affermato l'iniquità di attribuire un beneficio economico al danneggiato, facendo evolvere il risarcimento in un inammissibile danno punitivo.

La casa editrice ha proposto ricorso per cassazione, desumendo, tra l’altro, la violazione dell’art. 158 L. 22 aprile 1941, n. 633 (Legge sul Diritto d’Autore, l.d.a.) che individua i criteri di determinazione e quantificazione del danno conseguente al plagio dell’opera intellettuale.

2. I criteri di liquidazione del danno da violazione del diritto d’autore

A norma dell’art. 158 l.d.a., così come modificato dall’art. 13 D.Lgs. 140 del 2006 (che ha recepito la Direttiva 2004/48, c.d. "Direttiva Enforcement"), “Il lucro cessante è valutato dal giudice ai sensi dell'articolo 2056, secondo comma, del codice civile, anche tenuto conto degli utili realizzati in violazione del diritto. Il giudice può altresì liquidare il danno in via forfettaria sulla base quanto meno dell'importo dei diritti che avrebbero dovuto essere riconosciuti, qualora l'autore della violazione avesse chiesto al titolare l'autorizzazione per l'utilizzazione del diritto”.

L’ordinanzain commento, richiamando i principi affermati dalla recente ordinanza n. 21833 del 29 settembre 2021, chiarisce che:

a) il lucro cessante è valutato dal giudice ai sensi dell'art. 2056 comma 2 cod.civ. ossia «con equo apprezzamento delle circostanze del caso» dunque ancora una volta ex art. 1226 cod.civ. cui si aggiunge però l'indicazione di un  parametro  esplicito  relativo agli «utili realizzati in violazione del  diritto»;

b) è prevista la possibilità di liquidazione «in via forfettaria sulla base quanto meno dell'importo dei diritti che avrebbero  dovuto essere riconosciuti, qualora l'autore della violazione avesse chiesto al titolare l'autorizzazione per l'utilizzazione del diritto».

L’art. 158 l.d.a., a giudizio del Supremo Collegio, pur prevedendo due criteri altenativi di liquidazione del danno senza fissare un ordine di preferenza, individua nel criterio del c.d. «prezzo del consenso», di cui al terzo periodo del secondo comma, la soglia minima di liquidazione equitativa del danno da violazione del diritto d’autore.

Ciò premesso, la Corte di Cassazione muove da un’interpretazione del diritto nazionale armonizzata con la Direttiva Enforcement, la quale, all’art. 13, pretende che l'entità del risarcimento da riconoscere al titolare tenga conto di tutti gli aspetti pertinenti quali la perdita di guadagno subita dal titolare dei diritti o i guadagni illeciti realizzati dall'autore della violazione e considera solo come alternativa la parametrazione dell'entità dal risarcimento alla  royalty virtuale (o c.d. «prezzo del consenso»).

In questa prospettiva, e nell’ottica dell’esigenza di un pieno ed effettivo ristoro del danno subito dal titolare del diritto d’autore, la pronuncia in commento attribuisce al criterio del «prezzo del consenso» natura sussidiara e residuale, non utilizzabile a fronte dell'indicazione, da parte del danneggiato, di ulteriori e diversi ragionevoli criteri equitativi.

3. Le conclusioni

Fatte queste premesse, l’ordinanzain commento ritiene che il Giudice del merito, nell’applicare il criterio del c.d. «prezzo del consenso», senza tenere conto degli «utili realizzati in violazione del  diritto», in assenza di adeguate ragioni giustificatrici, è incorso in una falsa applicazione dell’art. 158 l.d.a.

La pronuncia afferma quindi il seguente principio di diritto: «In tema di diritto d'autore, il risarcimento del danno da lucro cessante spettante al titolare del diritto violato deve essere completo ed effettivo e deve essere liquidato in via preferenziale dal giudice ai sensi dell'art.158, comma 2, l.d.a., interpretato in conformità all'art.13 della Direttiva 29.4.2004 n. 48- 2004/48/CE, del Parlamento Europeo e del Consiglio sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, con equo apprezzamento di tutte le circostanze del caso e tenendo anche conto degli utili realizzati in violazione del diritto e solo, in via sussidiaria e residuale, nei casi in cui ciò non sia possibile o riesca disagevole, in via forfettaria sulla base dell'importo dei diritti che avrebbero dovuto essere riconosciuti, qualora l'autore della violazione avesse chiesto al titolare  l'autorizzazione  per  l'utilizzazione   del  diritto  (cosiddetto «prezzo del consenso»)».

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