Il comune non è responsabile per l'incidente occorso al guidatore che abbia concorso all'evento con una condotta imprudente. Questa la conclusione della ordinanza n. 26209/23 del 8 settembre 2023.
La vicenda processuale trae origine dalla domanda risarcitoria proposta ex art. 2051 c.c. da un motociclista caduto in prossimità di una buca, in ora notturna. La domanda era stata accolta dal Tribunale, mentre la Corte d’Appello, in riforma della sentenza di primo grado, ha escluso la responsabilità risarcitoria del Comune, in relazione alla condotta negligente tenuta dal guidatore, come tale imprevedibile dal custode (il Comune), e configurabile quale “caso fortuito”, ai sensi degli artt. 1227 e 2051 c.c.
Ha proposto ricorso per cassazione il guidatore, censurando la sentenza di merito per avere fondato la decisione sulla negligenza della vittima, senza valutare l’imprevedibilità dell’evento da parte del custode.
L’ordinanza in commento muove da una serie di punti fermi in materia di responsabilità per i danni da cose in custodia, come delineati dalla più recente giurisprudenza di legittimità, ed in particolare dalle Sezioni Unite con a ordinanza del 30 giugno 2022 n. 20943:
Cogliendo l’insegnamento delle SS.UU., l’ordinanza in esame rileva che “Il fondamento della responsabilità del custode riposa, dunque, su elementi di fatto individuati tanto in positivo - la dimostrazione che il danno è in nesso di derivazione causale con la cosa custodita (la sequenza è quella che muove dall'accertamento di un danno giuridicamente rilevante per risalire alla sussistenza di una relazione causale tra l'evento dannoso e la cosa custodita e si chiude con l'imputazione in capo al custode dell'obbligazione risarcitoria, dalla quale il custode si libera provando il caso fortuito) - quanto in negativo (l'inaccettabilità di una mera presunzione di colpa in capo al custode e l'irrilevanza della prova di una sua condotta diligente)”.
Sviluppando questi rilievi, l’ordinanza conclude che “sia il fatto (fortuito) che l'atto (del terzo o del danneggiato) si pongono in relazione causale con l'evento di danno non nel senso della (impropriamente definita) "interruzione del nesso tra cosa e danno", bensì alla luce del principio disciplinato dall'art. 41 c.p., che relega al rango di mera occasione la relazione con la res, deprivata della sua efficienza di causalità materiale, senza peraltro cancellarne l'efficienza causale sul piano strettamente naturalistico”.
Con riguardo al “caso fortuito”, così oggettivamente inteso, la Corte – rileggendo l’art. 2051 c.c. nel contesto normativo di riferimento – ribadisce, quindi, che il legislatore non ha inteso che il custode possa liberarsi provando di avere tenuto un comportamento diligente volto ad evitare il danno né la dimostrazione che il danno si sarebbe verificato nonostante la diligenza dallo stesso esigibile.
Sulla base di questi rilievi, dunque, la Corte rigetta il ricorso del guidatore in quanto teso a dimostrare la mancata offerta da parte del custode della prova (liberatoria) della sua diligente custodia; prova in realtà eccentrica rispetto alla conformazione della responsabilità da cose in custodia ai sensi dell’art. 2051 c.c.
I principi affermati dall’ordinanza in esame si pongono nel solco di quanto, ancora di recente, affermato dal Supremo Collegio (Cass., ord. 20 luglio 2023, n. 21675, con nota di commento sul nostro sito di Maria Santina Panarella, “Responsabilità oggettiva per danno da cose in custodia e doveri di cautela: nessun risarcimento per chi cammina a piedi nudi a bordo piscina e cade”), nell’escludere il diritto al risarcimento della vittima di una caduta in piscina a causa della condotta imprudente dalla stessa vittima. In particolare, ed anche in quel caso, la Corte ha ritenuto sufficiente ad escludere la responsabilità del custode che la condotta della vittima sia “colposamente incidente nella misura apprezzata”, cosicché “quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione, da parte dello stesso danneggiato, delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo del danno, fino a rendere possibile, nei termini appena specificati, che detto comportamento superi il nesso eziologico astrattamente individuabile tra fatto ed evento dannoso”.
Secondo la Cassazione, la violazione delle norme di sicurezza dettate per regolamentare le autorizzazioni amministrative, sebbene possa essere indice di una possibile colpa soggettivamente imputabile al gestore o al custode, non giustifica comunque la condotta incauta “che sia giudicata tale in modo decisivo e assorbente ai fini ricostruttivi del nesso oggettivo”.
L’utilizzo improprio dell’espressione «clandestini» nei confronti di cittadini stranieri richiedenti asilo costituisce un atto discriminatorio, atteso che anche il diritto alla libera espressione del pensiero, cui si accompagna il diritto ad organizzarsi in partiti politici, non può ritenersi equivalente, o addirittura prevalente, rispetto al fondamentale principio di tutela della dignità umana.
Questo il principio affermato dalla Cassazione nella sentenza n. 24686 del 16 agosto 2023, e sulla base del quale è stata accolta la domanda risarcitoria proposta da una associazione, che presta assistenza a cittadini stranieri, nei confronti di un partito politico che, in occasione di un episodio di accoglienza di un gruppo di cittadini stranieri richiedenti asilo, aveva affisso, in prossimità del centro di accoglienza, un manifesto nel quale i migranti venivano definiti, in modo dispregiativo, «clandestini» e additati come beneficiari di «vitto, alloggio e vizi», a carico dei cittadini italiani.
I giudici del merito avevano attribuito all’espressione «clandestini», nelle modalità e con le finalità con cui era stata utilizzata, una valenza discriminatoria ed offensiva, condannando l’organizzazione politica al risarcimento del danno nei confronti dell’associazione attrice. Tali conclusioni sono condivise dalla sentenza in commento.
La Corte di Cassazione passa in rassegna, innanzi tutto, le fonti normative, comunitarie (art. 14 CEDU; artt. 20-23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e nazionali (artt. 43-44 d.lgs. n. 286 del 1998; art. 2 d.lgs. 215 del 2003 e art. 28 d.lgs. 150 del 2011), del divieto di condotte discriminatorie.
In particolare, si rammenta come una prima definizione normativa del concetto di discriminazione la si rinviene all’art. 43 del d.lgs. n. 286 del 1998, a norma del quale «costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica».
L’art. 2 del d.lgs. n. 215 del 2003 definisce poi la c.d. discriminazione indiretta, cioè «qualunque disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone»; ed aggiunga, al comma 3, che sono da considerarsi discriminazione quelle «molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo, o l’effetto, di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo».
Sotto il profilo processuale, poi, l’art. 28, co. 4, d.lgs. 150 del 2011 dispone che ove l’istante fornisca elementi di fatto, «desunti anche da dati di carattere statistico», da cui «si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori», sarà il convenuto a dover provare l’assenza di una discriminazione,
Il Supremo Collegio sottolinea, quindi, attraverso il richiamo a diversi precedenti, che il diritto a non essere discriminati costituisce un diritto soggettivo assoluto, «a presidio di un’area di libertà e potenzialità del soggetto, possibile vittima delle discriminazioni» (in questi termini, Cass., Sez. Un., ord. 30 marzo 2011, n. 7186, relativa a condotte discriminatorie nell’ambito dell’attività della P.A. ed ancora da ultimo Cass., Sez. Un., ord. 1° febbraio 2022, n. 3057 che demanda al giudice ordinario i giudizi di impugnativa di atti amministrativi lesivi del diritto assoluto a non essere discriminati).
La Corte, sulla base del quadro normativo delineato dal D.Lgs. 18 agosto 2015, n. 142, art. 1, commi 2 e 3, rileva che «gli stranieri che fanno ingresso nel territorio dello stato italiano», e fanno richiesta della protezione internazionale, «perché temono a ragione di essere perseguitati o perché corrono il rischio effettivo, in caso di rientro nel paese d'origine, di subire un "grave danno"», non possono, considerarsi irregolari e «non sono, dunque, "clandestini"».
Conseguentemente, il termine «clandestini», utilizzato nei confronti dei richiedenti asilo nel caso deciso dalla sentenza in commento, non è riferibile agli stessi.
Ciò premesso, il Supremo Collegio conferma la sentenza d’appello che aveva ritenuto l’utilizzo, in concreto, dell’espressione in questione, discriminatorio.
Nello specifico, la Corte evidenzia che «un termine come quello di cui si discute ("clandestini") abbia assunto concretamente, nell'utilizzo corrente, un contenuto spregiativo e una valenza fortemente negativa; ciò non significa che esso non possa venire utilizzato nella sua originaria accezione strettamente lessicale, ma che il contesto della struttura sociale in cui esso si cala esige comunque, da parte di chi lo evochi, un'estrema attenzione. Se è vero, infatti, che uno dei valori fondanti della Costituzione repubblicana è quello della pari dignità delle persone, è anche vero che il termine di cui si discute può facilmente prestarsi (e indurre), specie se inserito in un contesto verbale come quello del manifesto in questione, ad abusi i quali, creando un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo, si risolvono appunto in un comportamento discriminatorio».
La Corte, dunque, valorizza il contesto in cui l’espressione in questione è stata utilizzata, e dunque i manifesti in cui le stesse persone venivano definite come «usurpatori, per vitto, alloggio e non precisati vizi, di risorse economiche ai danni degli abitanti del Comune».
E conclude, pertanto, che l’utilizzo del termine «clandestini», nel caso deciso dalla sentenza in esame, integra una discriminazione indiretta, in quanto «volto a creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo nei confronti dei 32 richiedenti asilo».
La condotta discriminatoria non potrebbe nemmeno trovare giustificazione nell’esercizio della legittima critica politica, la quale non può spingersi sino all’adozione di «un comportamento discriminatorio assunto, tra l'altro, nei confronti di soggetti assai di frequente neppure consapevoli dei loro diritti e, perciò, in una posizione obiettiva di debolezza (e non sembra casuale la circostanza che nessuno di loro, nel caso in esame, abbia agito a tutela del proprio diritto)».
La sentenza in esame si pone, infine, il problema del necessario bilanciamento tra la «tutela dei diritti degli stranieri» e «i principi costituzionali della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) e della libertà dei cittadini di associarsi liberamente in partiti politici (art. 49 Cost.)».
In particolare, la Corte richiama i principi affermati costantemente dalla Corte EDU (Gunduz c. Turchia, ric. n. 35071/97, 4 dicembre 2003, pp. 40-41), secondo cui «la tolleranza e il rispetto per la uguale dignità di tutti gli esseri umani costituisce il fondamento di una società democratica e pluralista. In considerazione di ciò, può essere necessario come questione di principio in determinate società democratiche sanzionare o anche precludere ogni forma di espressione che diffonda, istighi, promuova o giustifichi il livore basato sull'intolleranza».
Sulla base di questi principi la sentenza afferma il principio secondo cui «il diritto alla libera manifestazione del pensiero, cui si accompagna quello ad organizzarsi in partiti politici, difatti, non può essere ritenuto equivalente, o addirittura prevalente, sul fondamentale principio del rispetto della dignità personale degli individui».
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 13540/23 del 17 maggio 2023, è tornata a pronunciarsi sui criteri da adottare per il riconoscimento e la quantificazione del danno non patrimoniale subito dai parenti di persona che abbia subito, a causa di un fatto illecito, lesioni personali.
La vicenda processuale origina dalla domanda risarcitoria proposta da una persona gravemente lesa a seguito di icidente stradale, e dai suoi congiunti, contro la compagnia assicuratrice del presunto responsabile per i danni conseguenti al predetto incidente.
La Corte territoriale aveva ritenuto che, «nonostante la molteplicità di elementi raccolti, sia in primo grado che in appello, fosse impossibile ricostruire l'esatta dinamica del sinistro». Su queste premesse concludeva nel senso della necessità di applicare «la presunzione di corresponsabilità dettata dall'art. 2054, comma 2, c.c., riconoscendo il concorso di colpa di entrambi i conducenti nella causazione del sinistro».
L’ordinanza in esame ha rinvenuto un insanabile vizio motivazionale in tale ricostruzione, rilevando, da un lato, come fosse stata accertata in capo ad uno dei due conducenti la precisa violazione di una regola di condotta (in particolare, il mancato rispetto dell’obbligo di precedenza ai veicoli provenienti dall’opposto senso di marcia) e, dall’alto, come fossero stati introdotti nel processo elementi istruttori sufficienti a ricostruire la dinamica dell’incidente o comunque a motivare la diversa ricostruzione dell’accaduto.
Non erano dunque sussistenti, secondo i Giudici di legittimità, i presupposti per il ricorso alla presunzione di cui all’art. 2504, comma 2, c.c. che è una regola sussidiaria applicabile per ripartire le responsabilità non solo nei casi in cui sia certo l'atto che ha causato il sinistro e sia, invece, incerto il grado di colpa attribuibile ai diversi conducenti, ma anche quando non sia possibile accertare il comportamento specifico che ha causato il danno.
La pronuncia in esame, quindi, conclude che «in presenza di una serie di elementi obiettivi entrati a far parte del giudizio, non è consentito applicare la presunzione di pari responsabilità se non a mezzo di una motivata ricostruzione della dinamica ancorata alle risultanze istruttorie, delle quali ben può essere fornita una diversa lettura e riconosciuta una diversa rilevanza all'interno della formazione del convincimento, ma dalle quali non si può completamente prescindere per formulare una diversa ricostruzione meramente ipotetica e, sulla base di quella, applicare la presunzione di corresponsabilità a carico dei due soggetti coinvolti nello scontro».
Con riferimento al risarcimento del danno non patrimoniale subito dai parenti dalla vittima, in conseguenza delle lesioni subite dal loro congiunto, l’ordinanza in commento ribadisce che «ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa di fatto illecito, lesioni personali, può spettare anche il risarcimento del danno non patrimoniale concretamente accertato da lesione del rapporto parentale, in relazione ad una particolare situazione affettiva della vittima, non essendo ostativo il disposto dell'art. 1223 c.c., in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso».
Il pregiudizio si traduce in un «patema d'animo» ed in uno «sconvolgimento delle abitudini di vita del soggetto» e non è pertanto accertabile con metodi scientifici e può essere accertato per presunzioni, fra le quali assume rilievo «il rapporto di stretta parentela esistente fra la vittima ed i suoi familiari che fa ritenere, secondo un criterio di normalità sociale, che essi soffrano per le gravissime lesioni riportate dal loro prossimo congiunto». Ovviamente, e non potendo configurarsi un danno in re ipsa, resta ferma la possibilità, per la controparte, di dimostrare l’assenza di un legame affettivo (in questi termini, Cass., 30 agosto 2022, n. 25541).
Su queste premesse, l’ordinanza ha proceduto a considerare distintamente le varie posizioni dei congiunti al fine di individuare il criterio appropriato nella quantificazione del danno.
Con particolare riguardo al nipote della vittima non ancora nato al momento dell’incidente, il Supremo Collegio rileva che «non sussiste, in difetto dell'attualità del rapporto, una presunzione di afflittività conseguente alla necessaria riconfigurazione del rapporto stesso col nonno, fin dal suo sorgere, conseguente alle menomate condizioni fisiche di questi». A giudizio della Corte «l'esistenza di un pregiudizio subito dal nipote per i danni alla persona riportati dal nonno è un danno futuro soltanto eventuale, come tale non risarcibile» (in questo senso, è richiamata Cass., 26 aprile 2022, n. 12987, che ha escluso la risarcibilità dei danni invocati dalla nipote di un uomo deceduto in un sinistro stradale che, all'epoca della perdita del nonno, aveva otto mesi).
Non potendo operare la prova presuntiva, l’rodinanza conclude che «il bambino, venuto alla luce, conoscerà il nonno, il loro rapporto si configurerà fin dall'inizio sulle possibilità fisiche che avrà questi al momento del loro incontro, e non è automatico né presumibile che da una limitata mobilità fisica del nonno il rapporto affettivo tra i due possa essere limitato o deteriorato».
Ai fini della quantificazione del danno, la Corte ritiene doversi fare riferimento alle tabelle predisposte dal Tribunale di Roma, le quali contengono un quadro dedicato alla liquidazione dei danni subiti dai congiunti della vittima primaria in caso di lesioni.